L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha annunciato tramite la classificazione in classe CNN del vaccino pneumococcico coniugato 21-valente di MSD (V116) per l'immunizzazione attiva nella prevenzione della malattia invasiva e della polmonite causata da Streptococcus pneumoniae in ersone di età pari o superiore a 18 anni.
Il vaccino è specificatamente sviluppato per proteggere gli adulti dai sierotipi responsabili della maggior parte dei casi di malattia pneumococcica invasiva (IPD), inclusi otto sierotipi unici che non sono coperti da nessun altro vaccino pneumococcico.
La decisione dell'Aifa si basa sulla recente approvazione da parte della Commissione europea che ha valutato i dati di sicurezza e immunogenicità di V116 sulla base del programma clinico STRIDE di Fase 3.
Questa approvazione «porta finalmente nella cassetta degli attrezzi della prevenzione, per la prima volta, una nuova opzione specificatamente pensata e sviluppata per la 5popolazione adulta» sottolinea Enrico Di Rosa, presidente della Società italiana igiene medicina preventiva e sanità pubblica (Siti). «Mi auguro ora – aggiunge - che i Servizi sanitari regionali rendano disponibile questo nuovo vaccino nel più breve tempo possibile. Non possiamo mancare l’appuntamento della prossima campagna vaccinale anti-pneumococcica che come sempre inizierà con quella anti-influenzale».
La vaccinazione anti-pneumococcica dell’adulto è gratuita per la coorte dei 65enni e per tutte le persone maggiori di 18 anni con determinate comorbidità.
Le coperture vaccinali nei confronti di polmoniti e malattie da pneumococco «sono lontane dall’obiettivo del 75% previsto dalle linee guida – ricorda Silvestro Scotti, segretario generale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) - e l’approvazione di V116, un nuovo vaccino che tramite un’unica somministrazione assicura una protezione duratura, può essere un’arma importante per prevenire queste patologie per tutta la vita».
L’approvazione dell'Aifa del nuovo vaccino, osserva Nicoletta Luppi, presidente e amministratrice delegata di MSD Italia, «rende finalmente disponibile nel nostro Paese uno strumento specifico per la prevenzione delle patologie da pneumococco negli adulti e negli anziani. Da subito lavoreremo insieme alle autorità competenti a tutti i livelli – assicura - in modo da garantire nel più breve tempo possibile l’innovazione a chi ne ha più bisogno».
A due anni dall’autorizzazione al rimborso Aifa, la profilassi pre-esposizione (PrEP) contro l’Hiv in Italia ha registrato un incremento del 43,2%, con 16.220 utenti nel 2024 rispetto ai circa 11.330 dell’anno precedente. I dati, presentati nella 17a edizione dell'Italian Conference on Aids and Antiviral Research (ICAR) a Padova, sono però accompagnati anche da alcuni problemi ancora da risolvere, come la difformità dei servizi sul territorio oltre alla crescita delle infezioni sessualmente trasmissibili (Ist) e dell’uso di sostanze nelle attività sessuali (chemsex).
L’uso di PrEP e la distanza tra Nord e Sud. Secondo il report congiunto del network ICONA e dell’Istituto superiore di sanità, nel 2024 gli utenti PrEP sono saliti a 16.220, con un incremento del 43,2% rispetto al 2023. Ma la crescita non è uniforme: se l’Emilia-Romagna ha registrato un balzo del 54,7% e il Friuli-Venezia Giulia addirittura del 65,4%, Regioni come la Campania (+10%) e la Puglia (0%) restano fanalini di coda, mettendo in evidenza gravi disparità territoriali. La concentrazione dei servizi nei Centri Hiv ospedalieri, inoltre, continua a rappresentare un ostacolo all’accesso per le fasce più vulnerabili della popolazione.
L’aumento delle Ist. I dati raccolti dagli studi “HIV PrEP and STI Surveillance: insights from a Tertiary HIV Unit” (Padova) e “The need and frequency of STI testing depends on the lifestyle of the people on PrEP. Data from the PrEP Point Plus (PPP) in Bologna” sul monitoraggio delle Ist tra gli utenti PrEP indicano che circa un quarto dei partecipanti (25 e 26%) ha contratto almeno un’infezione sessualmente trasmessa nel corso del follow up. Questo suggerisce l’opportunità di sviluppare un approccio basato non su controlli trimestrali, ma sulla frequenza dei rapporti e sull’uso del profilattico, per personalizzare i controlli e migliorare sia la qualità dell’assistenza che l’uso delle risorse sanitarie.
Sale la prevalenza del chemsex. Lo studio “Rising chemsex trends among PrEP users in Milan: a 2024-2025 study” di inizio 2025 ha messo in luce un aumento del chemsex. La pratica, che prevede l’uso di sostanze per prolungare o intensificare i rapporti sessuali, ha interessato il 22% degli intervistati, in aumento rispetto al 14% del 2024. Le sostanze maggiormente impiegate includono mephedrone (38%), GHB/GBL (22%) e MDPV (13%).
«I dati proposti a ICAR 2025 – sottolinea Annamaria Cattelan, copresidente ICAR – mostrano come un’offerta differenziata dei servizi di erogazione della PrEP, per esempio le sedi dei check-point o le sedi di Associazioni locali, possa contribuire alla diffusione della PrEP specie nelle popolazioni difficili da raggiungere. È altresì strategico adottare un approccio integrato che comprenda programmi di formazione del personale dedicato mirati alle conoscenze del chemsex, di eventuali altre pratiche sessuali e del counseling motivazionale al fine di riconoscere e gestire tempestivamente i comportamenti a rischio. Parallelamente – aggiunge - altro passaggio essenziale affrontato a ICAR è la discussione sull’adozione di un modello di screening delle Ist che sia flessibile e modulato in base al profilo di rischio di ciascun utente».
Le infezioni sessualmente trasmesse, infatti, «restano temibili e sono in forte crescita – avverte Saverio Parisi, copresidente ICAR – sia nella popolazione generale che tra le persone con Hiv. È dunque fondamentale ricordare l’importanza di tutti gli strumenti preventivi, a partire dal preservativo. In questo discorso deve rientrare anche una rinnovata attenzione alla prevenzione del Papilloma virus: il vaccino è raccomandato non solo nella popolazione generale in età preadolescenziale, ma anche nelle persone con Hiv per ridurre l’incidenza di lesioni e tumori correlati».
Con 259 candidature da 45 Paesi, l’edizione 2024 delle Ibsa Foundation Fellowship hanno raggiunto il record assoluto di partecipazione. L’Italia si conferma al primo posto con 95 progetti, seguita da Stati Uniti (30), Spagna e Svizzera (entrambe 25).
Martedì 27 maggio si è svolta a Milano la cerimonia di premiazione dei sei progetti vincitori, ciascuno dei quali si è aggiudicato una borsa di studio del valore di 32 mila euro. Tra i premiati c'è anche una ricercatrice italiana, Ilaria Chiaradia della Sapienza Università di Roma, per un progetto nell’ambito della fertilità. Un risultato che conferma la solidità della scuola scientifica italiana e il rilevante contributo nazionale all’iniziativa: dal 2012 a oggi, 25 dei 58 ricercatori premiati sono italiani, un dato che colloca l’Italia al primo posto per numero di beneficiari, seguita da Spagna e Cina con cinque vincitori ciascuna.
Nate per sostenere giovani ricercatori sotto i 40 anni di Università e Istituti di tutto il mondo, le Ibsa Foundation Fellowship incentivano la ricerca indipendente e innovativa in cinque aree: Dermatologia, Endocrinologia, Fertilità/Urologia, Medicina del dolore/Ortopedia/Reumatologia e Healthy Aging/Medicina rigenerativa.
«Sostenere il talento dei giovani ricercatori rappresenta per Ibsa Foundation un investimento strategico per il progresso scientifico e per la costruzione di una società più consapevole e preparata ad affrontare le sfide del futuro» dice Silvia Misiti, direttrice di Ibsa Foundation per la ricerca scientifica. «Ciò che rende particolari le nostre Fellowship è la scelta di puntare sulla ricerca di base – precisa - un ambito spesso trascurato dai grandi finanziamenti, ma fondamentale per ogni avanzamento realmente innovativo nel campo biomedico. Il metodo e le tempistiche rigorose di valutazione del nostro autorevole Board scientifico sono metriche fondamentali per rispondere ai progetti innovativi presentati e per distribuire in maniera corretta le risorse, favorendo progetti che si distinguono in originalità, fattibilità e prospettive di sviluppo».
I vincitori dell’edizione 2024 sono Ilaria Chiaradia (Sapienza Università di Roma, Italia - Fertilità/Urologia); Masami Ando Kuri (Wellcome Sanger Institute, Cambridge, UK – Dermatologia); Enchen Zhou (University of California San Diego, USA – Endocrinologia); Prach Techameena (Karolinska Institutet, Svezia - Medicina del dolore/Ortopedia/Reumatologia); Sergio Perez Diaz (Karolinska Institutet, Svezia - Healthy aging/Medicina rigenerativa); Vanessa Lopez Polo (University of California San Francisco, USA - Healthy aging/Medicina rigenerativa).
Nel corso dell’evento è stata inoltre annunciata l’apertura del bando Fellowship 2025, che conferma sei borse di studio da 32 mila euro, di cui una destinata all’area scientifica che riceverà il maggior numero di candidature. Tra le novità dell’edizione, l’Ibsa Foundation Research Equity Prize, un premio da 5 mila euro dedicato al miglior progetto presentato da ricercatori attivi in Paesi in via di sviluppo, con l’obiettivo di promuovere una maggiore equità nell’accesso alle risorse per la ricerca.
Le candidature per l’edizione 2025 sono aperte fino al 31 gennaio 2026, attraverso la piattaforma dedicata sul sito di Ibsa Foundation.
Ogni anno, circa 400 mila neonati in Europa vengono ricoverati nelle unità di terapia intensiva neonatale (NICU) e i neonati prematuri o con basso peso alla nascita sono quelli che corrono i rischi maggiori. Quasi un neonato su dieci viene ricoverato con la sindrome da distress respiratorio (RDS) che continua a rappresentare una delle principali minacce per i neonati prematuri. Nonostante i progressi nei trattamenti, la RDS resta una delle principali cause di malattia e mortalità in questo gruppo vulnerabile. In Italia, un neonato su 41 con RDS muore.
Per molte famiglie, quindi, un accesso tempestivo a cure neonatali di qualità è cruciale.
Per contribuire ad affrontare queste sfide e promuovere l'innovazione nell'assistenza materna e neonatale, EIT Health InnoStars lancia InnoStars Connect una call rivolta a università, ospedali, centri di ricerca, start-up e Pmi per sviluppare soluzioni che migliorino l’assistenza prenatale e natale e l’assistenza respiratoria neonatale in particolare nei casi di RDS neonatale e displasia broncopolmonare (BPD). Accanto a questa sfida, l’iniziativa mira anche a trovare soluzioni digitali per ottimizzare la programmazione ospedaliera, con l’obiettivo di migliorare i flussi clinici e l’esperienza dei pazienti.
«InnoStars Connect è un potente esempio di come le sfide del mondo reale possano accendere un'innovazione significativa e collaborativa» sostiene Sarah Haddadin, Innovation Lead RIS e Programme Manager di EIT Health InnoStars. «La nostra missione principale In EIT Health è costruire connessioni in grado di trasformare le idee in un impatto concreto - precisa - mettendo insieme start-up, ricercatori, operatori sanitari e industria per risolvere problemi reali, come le morti neonatali prevenibili e i sistemi ospedalieri inefficienti. Con questa iniziativa, offriamo agli innovatori dell'Europa meridionale, orientale e centrale la piattaforma, il supporto e le partnership di cui hanno bisogno per guidare un vero cambiamento».
Saranno selezionati dieci team per co-sviluppare e testare le loro idee insieme ai partner Chiesi Group e Coimbra Local Health Unit, con la guida di figure di spicco del settore farmaceutico e sanitario. Ogni team riceverà un contributo forfettario di 10 mila euro. Dopo aver perfezionato i progetti durante il programma, i team migliori presenteranno le loro soluzioni ai leader europei del settore sanitario durante l'EIT Health InnoStars Grand Final.
La scadenza per candidarsi è il 13 giugno.
Grazie a un neurostimolatore impiantato nello spazio epidurale e a protocolli specifici di stimolazione e riabilitazione, un uomo di 33 anni con una lesione traumatica estesa al cono midollare con conseguente grave deficit motorio, è riuscito a ottenere un miglioramento della forza muscolare, della deambulazione e del controllo motorio, fino a consentirgli un recupero considerato «incredibile».
Il caso clinico, pubblicato su Med – Cell Press, è stato condotto dal team del MINE Lab, che vede coinvolti i medici, fisioterapisti e i ricercatori del San Raffaele di Milano e dell'Università Vita-Salute San Raffaele (UniSR) insieme con i bioingegneri della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
«Con questo case study – spiega Luigi Albano, neurochirurgo e ricercatore del San Raffaele, primo autore dello studio - abbiamo dimostrato, per la prima volta, l’efficacia della stimolazione elettrica epidurale coadiuvata dalla riabilitazione nel ripristinare le funzioni motorie degli arti inferiori in un paziente affetto da paraplegia a causa di una lesione grave estesa al cono midollare, ovvero la porzione terminale del midollo spinale, consentendogli di raggiungere la stazione eretta e di deambulare per brevi distanze. Oltre al recupero motorio – aggiunge - la stimolazione ha determinato un miglioramento clinicamente rilevante del dolore neuropatico e della qualità della vita complessiva del paziente».
I risultati di questo studio «offrono nuove speranze ai pazienti con lesioni midollari gravi che hanno vissuto un lungo periodo di immobilità – assicura Pietro Mortini, primario di Neurochirurgia al San Raffaele e professore di Neurochirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele – offrendo la possibilità di recuperi impensabili fino a poco tempo fa grazie all’integrazione della neuromodulazione avanzata e della riabilitazione personalizzata».
Il cono midollare è la porzione terminale del midollo spinale, situata indicativamente tra la prima e la seconda vertebra lombare (L1–L2). In quest’area, il sistema nervoso centrale si fonde funzionalmente con quello periferico: una lesione in questa regione può quindi compromettere sia le funzioni motorie e sensitive degli arti inferiori, sia il controllo di funzioni vitali come minzione, defecazione e sessualità. I traumi del cono midollare possono essere causati da incidenti stradali, cadute o eventi violenti, e rappresentano una quota significativa (oltre il 50% delle lesioni spinali) che coinvolgono la giunzione tra midollo e radici spinali.
Le lesioni in questa zona «risultano tra le più difficili da trattare e spesso comportano una combinazione di paraplegia, dolore neuropatico severo e disturbi sfinterici» precisa Albano, e «le opzioni terapeutiche tradizionali sono limitate e si concentrano soprattutto sulla riabilitazione, ma i margini di recupero sono generalmente modesti».
Il protagonista di questo studio è un uomo di 33 anni, colpito quattro anni fa da una grave lesione midollare a livello toracico basso (T11–T12), che gli ha causato una paralisi degli arti inferiori. La lesione, classificata come “incompleta”, aveva però compromesso profondamente la sua capacità di movimento. Nonostante due cicli intensivi di riabilitazione eseguiti dopo l’incidente, il paziente non era più in grado di camminare né di stare in piedi.
«Abbiamo impiantato un sistema di stimolazione midollare con 32 elettrodi, posizionandolo tra T11 e L1» racconta Mortini. «La stimolazione, una volta attivata, ha consentito di riaccendere alcuni circuiti nervosi residui -prosegue - in particolare quelli che controllano i muscoli del tronco e i flessori dell’anca, essenziali per il recupero della postura e della camminata. Dopo una fase iniziale di calibrazione, il paziente ha seguito un programma riabilitativo innovativo che integra esercizi in ambiente di realtà virtuale, utilizzando feedback sensoriali e motori».
Come osserva Daniele Emedoli, fisioterapista dell’Unità di Riabilitazione disturbi neurologici-cognitivi-motori del San Raffaele, nel gito di soli tre mesi, il paziente ha mostrato un conseguente potenziamento della mobilità degli arti inferiori, ha migliorato il controllo posturale del tronco in posizione seduta, permettendo lo spostamento del baricentro senza perdita di equilibrio e infine, si è osservato un ampliamento dell’angolo di flessione del tronco”.
Nel tempo, il paziente ha gradualmente ridotto il supporto necessario per camminare e alla dimissione era già in grado di percorrere 58 metri in sei minuti e completare il test dei dieci metri in poco più di 40 secondi. Ma il traguardo «più incredibile» è arrivato sei mesi dopo l’intervento: ha camminato autonomamente per un chilometro con il solo ausilio del deambulatore e tutori.
«Il successo di questo percorso dimostra quanto sia fondamentale il lavoro di squadra tra fisioterapisti, fisiatri, neurologi, neurochirurghi e ingegneri» commenta infine Sandro Iannaccone, direttore del Dipartimento di Riabilitazione del San Raffaele.
Si svolgerà alla Fiera di Roma dal 4 al 7 novembre prossimi la seta edizione di Welfair 2025. La presentazione è avvenuta mercoledì 28 maggio al ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit), a opera dei coordinatori scientifici Enzo Chilelli e Giovanni Scapagnini e da Marinella D’Innocenzo, membro Comitato scientifico della Fiera.
Intitolata: “L’equilibrio della Sanità. L’innovazione: da produttori di spesa a strumenti per la sostenibilità”, Welfair 2025 avrà come mission principale quella di «essere una fiera di connessioni capaci di far sistema per la sanità del futuro, al centro della quale va posta la Governance come punto essenziale di raccordo. Ed intorno, tra le altre, connessioni tra Ssn, Biomedicale e Digital health; tra prevenzione, invecchiamento in salute e sostenibilità».
«Negli ultimi anni, l’Italia ha perso quasi due anni di aspettativa di vita – sottolinea Scapagnini - e, dal 2013, la curva ha iniziato a declinare. Ma il dato più critico riguarda la vita in salute: oggi viviamo fino a 80 anni, ma solo poco meno di 60 in buona salute. Significa convivere con patologie croniche per circa venti anni, con ricadute pesanti anche sulla spesa pubblica. Entro il 2050, un anziano su tre potrebbe essere colpito da malattie neurodegenerative. La buona notizia è che possiamo intervenire: stili di vita corretti riducono il rischio demenza di oltre il 45%. Per questo, nella prossima edizione di Welfair daremo spazio alla prevenzione primaria, alla nutrizione e alla promozione della salute come leve strategiche per la sostenibilità».
In contemporanea e contiguità con Welfair, dal 5 all’8 novembre 2025, Fiera Roma ospiterà il Lipedema World Congress, congresso mondiale dedicato al lipedema, patologia cronica e ancora poco conosciuta che colpisce in modo prevalente le donne (fino al 18% della popolazione femminile mondiale), causando accumuli dolorosi di tessuto adiposo a livello di gambe, glutei e braccia. Il congresso riunirà i massimi esperti mondiali in un confronto multidisciplinare senza precedenti: sono attesi relatori e delegazioni da oltre trenta Paesi, con l’obiettivo di fare rete, condividere conoscenze e avanzare nella comprensione, diagnosi e cura della patologia.
«Esprimiamo la nostra profonda solidarietà a tutti i bambini vittime della guerra: a quelli di Gaza, ma anche a quelli ucraini, molti dei quali deportati, e ai più di 400 milioni di bambini che oggi vivono in aree teatro di conflitto. Non potevamo non dedicare questo Congresso a loro, a tutti i piccoli che soffrono e a cui sono negati i diritti fondamentali, a partire dal diritto alla salute e alla vita».
Con queste parole, seguite da un minuto di silenzio, il presidente della Società italiana di pediatria (Sip), Rino Agostiniani, ha aperto a Napoli l’80° Congresso nazionale della Sip, in programma fino al 31 maggio con la partecipazione di oltre 2 mila pediatri da tutta Italia.
L'infanzia, ricorda la Sip, deve essere sempre considerata al riparo dalla violenza e dalla privazione. «Come pediatri – aggiunge Agostiniani – abbiamo il dovere non solo di curare, ma anche di alzare la voce quando i diritti dei bambini vengono violati. Restare in silenzio di fronte a ciò che sta accadendo significherebbe rinnegare la nostra missione. Chiediamo a tutte le Istituzioni nazionali e internazionali di fare ogni sforzo per proteggere i bambini e garantire loro un presente dignitoso e un futuro possibile».
In Italia, circa 144 mila persone convivono con la sclerosi multipla (SM) e molte di loro devono affrontare una battaglia invisibile perchè spesso si scontrano con muri di silenzio e burocrazia. Per alcune, la situazione è ancora più drammatica: sono le Hard to Reach, quelle che il sistema non riconosce, non intercetta, non prende in carico. Sono oltre 14 mila persone, il 10% della popolazione con SM, che vivono senza un riferimento certo, senza percorsi di cura e assistenza sociale adeguati.
Per la Giornata mondiale della sclerosi multipla, AISM presenta il Barometro SM 2025 insieme all’indagine Hard to Reach.
Hard to Reach. Sono donne e uomini che hanno tra i 45 e i 60 anni, convivono con otto sintomi della SM e nel 47% dei casi affrontano anche altre patologie croniche concomitanti. Il 61% di loro vede insoddisfatti i propri bisogni riabilitativi. Il 59% non ha supporto psicologico. Dopo un ricovero, il 62,3% non riceve alcun aiuto. Il 45,3% ha bisogno di assistenza domiciliare, ma due terzi non riescono ad averla.
Per loro, affrontare la malattia significa anche “mettere mano al portafoglio”: il 65% ha dovuto pagare di tasca propria le prestazioni specialistiche, perché il sistema pubblico non ha risposto.
Poi c’è l’isolamento sociale, riportato dal 57% delle persone. Per alcuni, nemmeno la famiglia o gli amici riescono a rappresentare un punto di riferimento.
La rete in crisi. Secondo il Barometro SM 2025, delle 144 mila persone che ne soffrono, il 78% ha almeno un bisogno insoddisfatto, il 33,8% ne ha tre o più, senza risposte adeguate. Il 76,5% ha vissuto almeno una discriminazione, sul lavoro, con la burocrazia, nei servizi essenziali. Il 50% di chi lavora teme di perdere il posto, perché il mercato non si adatta a chi ha una malattia cronica o disabilità.
Il costo sociale complessivo medio della SM è di 46.400 euro l'anno per persona, cifra che sale a oltre 63 mila euro nei casi più gravi. In questi, le famiglie arrivano a spendere di tasca propria oltre 14 mila euro l’anno, soprattutto per coprire i costi dell’assistenza.
La sclerosi multipla costa alla società italiana 6,7 miliardi di euro l’anno. Tuttavia, la spesa pubblica per persona con SM si attesta tra i 22 mila e i 23 mila euro annui,
«Non possiamo accettare il rischio che decine di migliaia di persone restino escluse perché i servizi non si attivano» sostiene Francesco Vacca, presidente Aism. «Il Barometro – aggiunge - è un richiamo urgente a costruire una rete integrata e umanizzata che oggi, per molti, non esiste».
Per Mario Alberto Battaglia, presidente Fism, «serve un nuovo patto tra sanità, sociale, territorio e persone. Dobbiamo rendere pienamente operativi i PDTA, rafforzare la rete dei Centri SM, investire in processi come il Progetto di vita previsto dalla Riforma della disabilità. Ogni persona può diventare “Hard to Reach” – avverte - se il sistema non reagisce prontamente: un servizio che si interrompe, un caregiver che cede, un farmaco che cambia. Parlare di sostenibilità significa investire in terapie precoci, riabilitazione, supporto psicologico, lavoro».
In occasione della Giornata mondiale della sclerosi multipla, Aism lancia una nuova consultazione pubblica per l’Agenda della SM e patologie correlate verso il 2030. «Invitiamo tutte le persone con sclerosi multipla, le famiglie, i professionisti e le Istituzioni a contribuire. Solo insieme – conclude Vacca - possiamo costruire un futuro più giusto, inclusivo e davvero centrato sulla persona».
L’ipoparatiroidismo cronico è una condizione endocrina rara che interessa circa 10 mila persone in Italia, prevalentemente donne in età lavorativa. È causata da livelli insufficienti di ormone paratiroideo (PTH), il principale regolatore dell’equilibrio di calcio e fosfato nel corpo, che agisce direttamente su ossa e reni e indirettamente sull’intestino. L'impatto sulla qualità della vita può essere profondo ed è spesso sottovalutato. I pazienti possono manifestare una serie di complicanze gravi e potenzialmente letali, sia a breve sia a lungo termine, tra cui irritabilità neuromuscolare, complicanze renali, calcificazioni extra-scheletriche e compromissione cognitiva. La forma post-chirurgica rappresenta la maggior parte dei casi (70-80%), mentre altre cause includono forme autoimmuni e idiopatiche.
In vista della Giornata internazionale dell’ipoparatiroidismo dell'1 giugno, si è svolto a Roma un incontro promosso dall'Associazione pazienti con ipoparatiroidismo (Appi), con il contributo non condizionante di Ascendis Pharma.
L’incontro ha visto la presentazione del nuovo sito internet www.ipopara.it, sviluppato per offrire informazioni chiare, aggiornate e affidabili a pazienti, caregiver e operatori sanitari. È stato, inoltre, annunciato il via della Campagna di sensibilizzazione “Si può parlare di normalità? Ipoparatiroidismo: conoscerlo e gestirlo per vivere una nuova quotidianità”, che vedrà diversi contenuti di sensibilizzazione relativi a questa patologia sulla pagina Facebook di Appi per aumentare la consapevolezza e contrastare lo stigma legato alla malattia.
«Il lancio del portale ipopara.it e la campagna “Si può parlare di normalità” rappresentano un importante passo avanti nel riconoscere i bisogni dei pazienti e promuovere una reale inclusione sociale e sanitaria» sostiene Maria Luisa Brandi, specialista in Endocrinologia e malattie del metabolismo, direttrice della Donatello Bone Clinic e presidente della Fondazione italiana ricerca sulle malattie dell’osso (Firmo).
«Siamo orgogliosi di sostenere Appi e di contribuire alla diffusione di informazioni cruciali per i pazienti» assicura Paola Stagni, direttrice medica di Ascendis Pharma Italia. «Il nostro obiettivo – aggiunge - è migliorare la qualità della vita delle persone con ipoparatiroidismo, attraverso l’ascolto, la conoscenza».
Confrontarsi a livello nazionale e regionale su azioni concrete e condividere le buone pratiche di alcune Regioni sull’equità di accesso alle tecnologie innovative di monitoraggio del diabete. Questo, in sintesi, l’obiettivo dell’incontro “Equità di accesso all’innovazione, le regioni a confronto. Focus sui sistemi di monitoraggio glicemico nella cronicità diabete”, organizzato il 28 maggio a Roma da Motore Sanità grazie al contributo incondizionato di Abbott.
Il diabete è considerato una vera e propria epidemia: prima causa di cecità, prima causa di amputazione degli arti inferiori, seconda causa di insufficienza renale fino alla dialisi o al trapianto, concausa di almeno il 50% degli infarti e degli ictus. I numeri in proiezione sono ancor più preoccupanti: l’International Diabetes Federation (IDF) indica che entro il 2045 arriverà a colpire 700 milioni di persone. Diventa quindi fondamentale giocare d’anticipo per i pazienti con diabete, prevenendo le complicanze grazie al monitoraggio in continuo della glicemia.
In Italia almeno 700 mila persone sono in trattamento insulinico, ma l’utilizzo dei sensori (integrati o no a microinfusore) è inferiore al 50% dei pazienti in quasi tutte le Regioni. Lombardia, Sicilia e Sardegna sono quelle con maggior utilizzo della tecnologia, al contrario di Campania, Calabria e Puglia dove l’utilizzo del sensore nei pazienti insulino-trattati è inferiore al 20%. Oggi solo sei Regioni hanno allargato l’accesso a tutti i pazienti: Sicilia, Campania, Lombardia, Lazio, Marche e Basilicata, mentre nelle altre Regioni permangono restrizioni.
«L’innovazione tecnologica nel monitoraggio della glicemia rappresenta un’opportunità straordinaria per migliorare la qualità di vita delle persone con diabete e ottimizzare la gestione clinica della malattia» sottolinea Raffaella Buzzetti, presidente della Società italiana di diabetologia (Sid). Le tecnologie per il controllo della glicemia «non sono un lusso – aggiunge - ma strumenti essenziali per prevenire le complicanze gravi e contenere i costi a lungo termine. È tempo di colmare il divario tra le Regioni e garantire una reale uniformità nei criteri di accesso».
Il monitoraggio continuo della glicemia è «una svolta cruciale nella gestione della cronicità diabete – avverte Riccardo Candido, presidente Amd - perché consente di prevenire le complicanze e migliorare significativamente la qualità di vita delle persone con diabete» e oggi «abbiamo a disposizione strumenti sempre più precisi e accessibili che possono davvero cambiare l’evoluzione della malattia. Tuttavia, queste opportunità devono essere garantite a tutti, indipendentemente dalla Regione di appartenenza».
L’impiego dei moderni sistemi di monitoraggio della glicemia è «un’opportunità fondamentale per le persone con diabete – conferma Marcello Grussu, vicepresidente di Diabete Italia - contribuendo in modo significativo a migliorare la gestione quotidiana della patologia. Intervenire in tempo reale sui valori glicemici consente di adottare strategie terapeutiche più appropriate, riducendo sia il rischio di eventi acuti che l’insorgenza delle gravi complicanze croniche».
Purtroppo, ricorda ancora Grussu, l’adozione di questi dispositivi è ancora troppo limitata: si stima che solo il 35% delle persone con diabete di tipo 1 e meno del 10% di quelle con diabete di tipo 2 utilizzino attualmente un sensore glicemico.
L’accesso alla tecnologia «trasforma la gestione quotidiana del diabete, migliorando in modo considerevole la qualità della vita della persona» assicura Stefano Garau, vicepresidente Fand, ma «le barriere e gli impedimenti li rileviamo proprio nelle differenze esistenti non solo tra Regione e Regione ma molto spesso, addirittura, tra le diverse Asl della stessa Regione dove regole burocratiche poste in essere per il controllo della spesa, in realtà, nel bloccare l’erogazione ai più degli strumenti tecnologici di misurazione e di gestione della malattia, si rivelano paradossalmente scelte che minano il controllo della spesa perché non consentono un buon controllo e una buona gestione della malattia».
Oltre la metà degli studenti degli ultimi anni delle scuole superiori non sa cos’è il ticket, uno su cinque non conosce il proprio medico di famiglia e oltre l’80% non ha mai usato il Fascicolo sanitario elettronico (Fse). In controtendenza, quasi il 40% utilizza tutti i giorni strumenti di intelligenza artificiale (IA).
Sono dati rilevati nell'ambito del progetto “La Salute tiene banco” che la Fondazione Gimbe ha avviato nel 2023 e a oggi ha coinvolto oltre 5.500 studentesse e studenti degli Istituti superiori di tutta Italia. Durante gli incontri, i partecipanti hanno risposto a quiz interattivi su temi cruciali come il funzionamento del Servizio sanitario nazionale, la prevenzione e l’uso degli strumenti digitali.
Il progetto, come spiega Elena Cottafava, segretaria generale della Fondazione e responsabile del progetto, «punta a diffondere tra i ragazzi una visione globale della salute, promuovere l’alfabetizzazione sanitaria, contrastare la disinformazione e favorire un utilizzo consapevole e responsabile del Ssn».
In particolare, tra ottobre 2024 e marzo 2025 la Fondazione ha realizzato 33 incontri in trenta Istituti scolastici di varie città italiane, che hanno coinvolto 4.200 studenti degli ultimi anni delle scuole superiori, durante i quali è stata condotta una survey di sette domande.
Conoscete il vostro medico di Medicina generale? L’83,3 % degli studenti dichiara di averlo già incontrato, mentre il 16,7 % non sa ancora chi sia.
Sai a cosa serve il ticket? Il 53,6% degli studenti dichiara di non sapere a cosa serva.
Hai mai usato il Fascicolo sanitario elettronico? L’82,3% degli studenti dichiara di non averlo mai utilizzato né per sé né per un familiare.
Quali sono i tre programmi di screening oncologici offerti gratuitamente dal Ssn? Solo poco più della metà degli studenti ha risposto correttamente, identificando i tre screening oncologici inclusi nei Livelli essenziali di assistenza (Lea): mammella, cervice uterina e colon-retto. Il resto del campione ha fornito risposte errate o ha ammesso di non conoscere la risposta.
È sempre vantaggioso fare controlli periodici per tutti i tumori? Il 71,9% degli studenti risponde erroneamente che è sempre utile sottoporsi a esami di laboratorio o strumentali per diagnosticare precocemente qualsiasi tipo di tumore. «Purtroppo – commenta Il presidente della Fondazione, Nino Cartabellotta – questa convinzione nasce da messaggi che confondono la prevenzione con il ricorso indiscriminato ai test diagnostici: una forma di consumismo sanitario che alimenta esami inutili, determina spreco di risorse ed espone ai rischi della sovra-diagnosi e di trattamenti non necessari».
Hai ricevuto antibiotici per un'infezione delle alte vie respiratorie (per esempio il raffreddore)? Uno studente su cinque “spesso”, uno su due “qualche volta” e il 18,9% “mai”; il 12,3% dichiara di non aver mai avuto una infezione delle alte vie respiratorie. «Seppur con i limiti insiti nella domanda che non definisce un arco temporale – commenta Cartabellotta – nel campione esaminato emerge un potenziale utilizzo inappropriato degli antibiotici».
L'equità di accesso ai Lea è garantita allo stesso modo in tutte le Regioni? Due studenti su tre (66,2 %) ritengono di no, dichiarandosi in totale o parziale disaccordo; il 21,1 % resta neutrale e il 12,7 % ritiene che il Ssn sia uniforme su tutto il territorio nazionale.
Usi ChatGPT o applicazioni simili? Il 37,2% degli studenti usa quotidianamente questi strumenti e il 36,5% sporadicamente. Segno che l’intelligenza artificiale sta diventando parte integrante della quotidianità delle nuove generazioni. Tuttavia, questa diffusione non è accompagnata da un’adeguata alfabetizzazione all’uso critico e consapevole, soprattutto in ambito scientifico o sanitario. «Che oltre otto studenti su dieci utilizzino strumenti di intelligenza artificiale – osserva il presidente Gimbe – rende prioritario integrare nei percorsi scolastici l’educazione all’uso responsabile di queste tecnologie. In sanità, in particolare, è fondamentale saper distinguere fonti affidabili da contenuti fuorvianti: senza adeguate competenze scientifiche e digitali, l’IA rischia di diventare veicolo di disinformazione, piuttosto che uno strumento per approfondire le conoscenze».
«I risultati della survey – chiosa infine Cartabellotta – restituiscono un quadro di luci e ombre» e «confermano la necessità di trasferire già in età scolastica una solida cultura della prevenzione, della promozione della salute e dell’uso consapevole del Ssn».
«Per colmare questi gap di conoscenze – conclude Cottafava – vogliamo espandere il progetto “La Salute tiene banco” anche alle aree più remote del Paese, per offrire a tutti l’opportunità di conoscere i propri diritti e doveri e come prendersi cura della propria salute. Per questo abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding, attiva fino al 13 giugno». Attenzione: se l'obiettivo non sarà raggiunto tutte le donazioni verranno restituite e il progetto non potrà essere realizzato.
BeOne Medicines, azienda oncologica nota come BeiGene, ha annunciato il 28 maggio che il nuovo nome e la ridomiciliazione in Svizzera sono ufficialmente in vigore.
«BeOne rappresenta ben di più di un cambiamento di nome. Non è solo un riflesso di chi siamo oggi come azienda oncologica leader a livello mondiale – spiega John V. Oyler, cofondatore, presidente e CEO di BeOne - ma anche la nostra ambizione di ridefinire ciò che è possibile in oncologia, unendo pazienti, famiglie, scienziati, medici, Governi e tutti gli interessati alla salute pubblica in campo oncologico in tutto il mondo nella nostra missione condivisa contro il cancro».
Il nuovo nome e la ridomiciliazione in Svizzera sono stati approvati dagli azionisti il 28 aprile. La transizione al nome BeOne in tutte le attività mondiali della Società in sei continenti avverrà in fasi. La nuova domiciliazione in Svizzera rafforza la presenza di BeOne nel principale polo biofarmaceutico mondiale e segna il prossimo passo verso la trasformazione in un’azienda biotecnologica diversificata focalizzata in oncologia.
Il team di ricerca di BeOne, composto da oltre 1.100 persone, ha avviato alla pratica clinica 13 nuove molecole nel solo 2024, superando anche le più grandi aziende farmaceutiche. Inoltre, il suo team di sviluppo clinico, composto da circa 3.700 persone, ha sperimentazioni in corso o pianificate in più di 45 Paesi e regioni, accelerando l’innovazione in fase precoce attraverso il suo approccio “Fast to Proof-of-Concept”, arruolando più di 25 mila pazienti in oltre 170 studi clinici.
Inoltre, BeOne continua a espandere la sua rete di produzione globale con il sito di ricerca, sviluppo clinico e produzione di Hopewell, N.J. da 800 milioni di dollari. Questo centro consente una capacità produttiva espandibile per supportare la pipeline in rapida crescita, la resilienza operativa e le ambizioni globali dell’azienda.
Ogni giorno 35 bambini vengono uccisi a Gaza, scrive un editoriale di Lancet del 24 maggio, per un totale di 18 mila bambini morti fino a oggi. Gaza ha la più grande coorte di bambini e bambine amputate, oltre a coloro che muoiono e moriranno di fame, non per carestia, ma per l'impossibilità di accedere agli aiuti umanitari. «La fame non può essere un’arma di guerra, né una moneta di contrattazione».
È quanto si legge in una nota dell'Associazione culturale pediatri (Acp): «Il 25 maggio scorso un bambino palestinese di quattro anni, Mohammed, è morto di fame a Gaza. Mohammed non è morto di carestia per cause naturali, ma in un posto dove si è deciso di non far arrivare il cibo attraverso gli aiuti umanitari. A distanza di poche ore di tempo, una mamma e collega pediatra palestinese, Alaa al-Najjar, di turno all’ospedale Nasser di Khan Yunis, uno dei pochi attivi a Gaza, si è vista arrivare i corpi dei suoi nove figli colpiti da un bombardamento israeliano e il suo unico figlio sopravvissuto versa in condizioni critiche.L’enormità di questi accadimenti – scrive la presidente, Stefania Manetti, insieme con i vertici dell'Associazione - ci sovrasta e ci sentiamo inermi».
«Dobbiamo comunicare la nostra indignazione come madri e padri, come pediatri che si prendono cura delle bambine e dei bambini e delle loro famiglie» prosegue la nota. «Il nostro appello, insieme a quello di altre Istituzioni e Associazioni, speriamo venga accolto – auspicano i pediatri Acp - affinché la negazione dei diritti umani e la totale assenza di protezione nei confronti delle bambine e dei bambini di finisca al più presto. La distruzione del popolo palestinese avrà enormi ripercussioni sulle generazioni a venire, sui figli e sui nipoti dei bambini che sopravviveranno a tutto questo».
«Non possiamo tacere – conclude la nota Acp - perché i bambini non sono nemici e affinché gli aiuti umanitari non siano un’arma.
Dalla diagnosi precoce alla terapia personalizzata, passando per l’uso dell’intelligenza artificiale: a Cagliari gli esperti si confrontano sulle malattie infiammatorie croniche intestinali (Mici) nell’VIII edizione del corso avanzato che abbraccia il percorso dal paziente pediatrico all’adulto.
«Le Mici rappresentano ancora una sfida complessa per il clinico – sottolinea Giammarco Mocci, gastroenterologo presso l’ARNAS G. Brotzu di Cagliari e responsabile scientifico dell’evento - soprattutto nella fase adulta, quando spesso il paziente presenta un lungo decorso e una storia di trattamenti multipli. Questo corso vuole fornire strumenti pratici per affrontare i casi più critici con un approccio integrato e aggiornato».
Negli ultimi anni «abbiamo assistito a un significativo incremento dei casi pediatrici – osserva Paolo Lionetti, responsabile della Struttura di Gastroenterologia e nutrizione dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, anch'egli responsabile scientifico dell'incontro - e l’impressione è che sono in aumento forme non monogeniche a esordio molto precoce. È fondamentale intervenire con tempestività e con protocolli specifici per la pediatria, condivisi con i gastroenterologi dell’adulto, per garantire in seguito una transizione efficace e una presa in carico multidisciplinare che preveda la presenza del dietista, dello psicologo e, nei casi refrattari alla terapia medica, del chirurgo esperto di chirurgia delle Mici».
Ampio spazio è stato dedicato anche all’apporto dell’Intelligenza artificiale, sia in fase di ricerca (per lo screening e la selezione di molecole promettenti) sia nel supporto alla diagnostica per immagini, migliorando l’efficienza dell’imaging endoscopico.
«La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale rappresentano un’opportunità concreta non solo per migliorare la qualità della vita delle persone con Mici – spiega Salvatore Leone, direttore generale di Amici Ets - ma anche per anticipare la diagnosi, personalizzare i percorsi terapeutici e, forse, un giorno, arrivare a una cura definitiva. L’alleanza tra sapere clinico dati e nuove tecnologie può cambiare radicalmente il modo in cui affrontiamo queste patologie croniche, mettendo davvero al centro il paziente».
Dal canto suo, Rita Limbania Vallebella, presidente regionale dell’Associazione Amici e sindaco di Stintino, ha condiviso la sua esperienza diretta come paziente affetta da malattia di Crohn: «Ancora oggi molti pazienti vivono un vero e proprio percorso a ostacoli prima di arrivare a una diagnosi certa. Serve più informazione, ma anche più connessione tra pazienti e Centri specialistici per ridurre la mobilità sanitaria e garantire cure di qualità vicino a casa».
In un solo anno il numero di omicidi commessi da minorenni in Italia è più che raddoppiato: dal 4% del 2023 all’11,8% nel 2024 (dati della Criminalpol). In altri termini, si passa dai 14 omicidi commessi da minori nel 2023 (su 340 totali) a circa 35 nel 2024 (su 319 totali). Anche le vittime minorenni risultano in crescita: dal 4% al 7% del totale.
Il tema è tra quelli affrontati al Congresso nazionale della Società italiana di psichiatria e psicopatologia forense (Sippf) ad Alghero dal 22 al 24 maggio.
«A oggi non abbiamo strumenti sufficientemente adeguati a intercettare il disagio giovanile» spiegano i presidenti Sippf, Liliana Lorettu ed Eugenio Aguglia. «La psichiatria e la neuropsichiatria infantile sono da molti anni sottofinanziate – lamentano - la psichiatria per adulti non si occupa dei minori e i Dipartimenti di Salute mentale restano troppo frammentati. La mancanza di una presa in carico strutturata, unita all’assenza di luoghi dedicati e personale formato, lascia spazio a esiti estremi e incontrollati, come possiamo leggere dalle cronache dei giornali».
Un altro nodo critico che riguarda i minori è la doppia diagnosi: la coesistenza di un disturbo psichiatrico e l'uso di sostanze. Secondo una recente revisione su 48 studi internazionali, tra gli adolescenti che fanno uso di sostanze circa l’80% presenta almeno un disturbo psichiatrico concomitante, spesso associato a gravi disfunzioni familiari, scolastiche e giudiziarie. Tuttavia, meno del 10% degli articoli analizzati si concentra esplicitamente sulla fascia giovanile: una sottorappresentazione che riflette anche l’assenza di servizi realmente integrati per minori.
«Oggi non esiste una presa in carico integrata tra Sert e Dipartimenti di Salute mentale: ciascun servizio agisce per compartimenti stagni, con continui rimbalzi che lasciano il paziente solo. È una criticità che riguarda l’intero sistema, ma diventa ancora più grave nei minori, dove la doppia diagnosi è in crescita e spesso più difficile da trattare rispetto agli adulti» sostiene Lorettu.
Gli operatori psichiatrici, inoltre, denunciano da tempo che molti giovani immigrati, appena arrivati in Italia, entrano in contatto con circuiti criminali legati allo spaccio e all’uso di sostanze. «La mancanza di alternative, tutele e prospettive li rende facili prede della devianza» dice Aguglia. «E quando, come spesso accade, questo porta a sviluppare un disturbo psichiatrico – aggiunge - le strutture sanitarie e penitenziarie non sono pronte ad accoglierli. Anche per questo, la percentuale di immigrati irregolari tra gli autori di reato psichiatrici è in aumento, ma il sistema non offre risposte».
Dunque servirebbero «risorse, formazione, strutture intermedie e soprattutto una strategia coerente. Il rischio – concludono Lorettu eAguglia – è che la pressione sociale e istituzionale venga semplicemente spostata da un sistema all’altro, senza mai risolvere nulla».
Dopo l’autorizzazione dell’EMA, cioè l'Agenzia regolatoria europea, i pazienti oncologici del nostro Paese devono aspettare ancora 441 giorni, cioè più di 14 mesi, per accedere ai nuovi trattamenti anticancro. L’Italia è più rapida rispetto alla media europea (586 giorni), ma troppo lontana dalla Germania, il Paese più veloce, dove ne bastano 110. Non solo. A questi tempi molto lunghi, in Italia si aggiungono gli ostacoli ulteriori burocratici territoriali, determinati dall’inserimento delle nuove molecole anticancro nei Prontuari terapeutici regionali.
È la denuncia dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) dal Convegno “Cancer Research: from Chicago to Bari” (23 e 24 maggio).
Un esempio di disparità territoriali da risolvere è quello del carcinoma della prostata. Il primo radioligando rimborsato per il trattamento del tumore della prostata metastatico resistente alla castrazione, a distanza di quasi tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’approvazione dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), non è ancora disponibile in tutte le 16 Regioni dotate di strutture abilitate a somministrarlo. Il Piemonte, infatti, non ha emanato la nota di riconoscimento dei centri prescrittori, con la conseguenza che i pazienti di questa Regione non possono accedere a questa cura innovativa.
«Oggi un paziente che risiede in Piemonte, se vuole accedere al nuovo trattamento, deve recarsi in centri abilitati di altre Regioni - osserva Massimo Di Maio, presidente eletto Aiom - e tra l’altro spesso la persona con questa neoplasia in stadio avanzato è anziana e fragile, per cui ha difficoltà a spostarsi. La soluzione non può essere rappresentata dal rimborso del farmaco fuori Regione. Inoltre, i Centri possono avere difficoltà a soddisfare il fabbisogno “interno” di questa terapia e talvolta non riescono a farsi carico anche di malati provenienti da altri territori».
«L’innovazione porta davvero benefici se è garantita equamente a tutti i pazienti» avverte Francesco Perrone, presidente Aiom. «Quando un oncologo, nel rispetto dei “paletti” prescrittivi imposti da Aifa, richiede un trattamento – prosegue - andrebbero evitate lungaggini burocratiche e ulteriori valutazioni locali, talvolta istituite per controllare la spesa farmaceutica, ma che rischiano di avere conseguenze negative sui tempi di accesso al farmaco, nonché sul carico di lavoro del professionista».
Per la prima volta il “DNA spazzatura” è stato studiato con un livello di dettaglio tale da rivelare che quella porzione di genoma ritenuta per moltissimo tempo inutile perché priva di geni che producono proteine, ha in realtà un ruolo determinante nello sviluppo e nella progressione del cancro.
A fare nuova luce su quello che oggi viene considerata la “materia oscura” del nostro Dna, che copre almeno il 70% del genoma, è uno studio condotto dall’Istituto di Candiolo e dal Dana-Farber Cancer Institute di Boston. I risultati, appena pubblicati sulla rivista Blood, mostrano che centinaia di Rna lunghi non codificanti (lncRNA, molecole che non producono proteine) hanno un ruolo funzionale essenziale per la crescita del tumore.
Per raggiungere questo obiettivo «abbiamo sviluppato e utilizzato la piattaforma IsoScan, che si basa sul sistema CRISPR-Cas13d, una variante del “classico” sistema usato per l’editing genetico del Dna, per “editare” l’Rna, mirando e studiando con precisione le singole versione dello stesso lncRNA, finora poco comprese» racconta Eugenio Morelli, responsabile del Laboratorio di Ricerca traslazionale sull’Rna dell’Istituto di Candiolo
I ricercatori hanno quindi analizzato quali gRNA (piccole molecole di Rna che agiscono da “sistema guida”) hanno influenzato la crescita delle cellule tumorali, indicando quali lncRNA sono essenziali per la sopravvivenza delle cellule tumorali. Lo screening ha identificato centinaia di isoforme di lncRNA che sono risultate essenziali per la crescita e la sopravvivenza delle cellule tumorali.
«In particolare, attraverso la nostra piattaforma siamo riusciti a “colpire” 5 mila lncRNA espresse nelle cellule del mieloma multiplo, scoprendo che circa il 12% di queste molecole, 598 in tutto, sono essenziali individualmente per la crescita tumorale» precisa Morelli. Si tratta di percentuali simili a quelle riscontrate negli studi “canonici” sui geni che codificano le proteine. Questo suggerisce dunque, aggiunge - che le lncRNA «siano essenziali nel cancro almeno quanto lo sono i geni che producono le proteine. Risultati simili sono stati riscontrati anche per altri tumori, come quello alla mammella, al polmone, al colon e anche ai linfomi: abbiamo rilevato un'ampia dipendenza delle cellule tumorali dagli lncRNA e alcune isoforme sono comuni a più tumori».
Queste scoperte potrebbero avere implicazioni importanti nello sviluppo di nuovi trattamenti anti-cancro più efficaci. «Oltre ad aver confermato che è sbagliato considerare “spazzatura” le sequenze di Dna non codificante – interviene Anna Sapino, direttrice scientifica dell’Istituto oncologico del Piemonte di Candiolo - lo studio mostra il loro ruolo essenziale nella malattia tumorale. Questo significa che si aprono nuove strade per la comprensione e il trattamento del cancro: prendendo di mira con precisione le isoforme di lncRNA, potremmo essere in grado di sviluppare terapie antitumorali più efficaci e specifiche».
I ricercatori hanno anche sviluppato il portale LongDEP, una risorsa accessibile al pubblico che fornisce informazioni complete sulle funzioni delle isoforme di IncRNA e sulle associazioni cliniche. «Questo portale rappresenta uno strumento prezioso per la comunità di ricerca – assicura infine Salvatore Nieddu, direttore generale dell’Istituto di Candiolo -.e punta a facilitare e semplificare l’ulteriore esplorazione nel mondo degli IncRNA e del loro potenziale terapeutico».
L’80% degli italiani ha rinunciato alle cure del Servizio sanitario nazionale più di una volta a causa dei lunghi tempi di attesa, con punte dell’84% per gli over 60 e dell’86% tra le fasce in difficoltà economica. Sono tra i primi risultati del sondaggio IPSOS che la Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg) ha pubblicato In occasione della Giornata mondiale del medico di famiglia del 19 maggio. Si tratta di «un dato in netto peggioramento rispetto al 65% rilevato nel 2024 – commenta Andrea Scavo, responsabile dell’Osservatorio ItaliaInsight di IPSOS – con punte dell’84% per gli over60 e dell’86% tra le fasce in difficoltà economica. Tra chi rinuncia al Ssn per via dei tempi di attesa, l’84% si rivolge a un privato e il 13% rinuncia del tutto a curarsi, dato che sale al 19% tra chi vive difficoltà economiche. Al contrario, i tempi di attesa per un appuntamento dal proprio medico di famiglia sono bassissimi: il 73% dei cittadini viene ricevuto entro una settimana, l’87% entro due settimane, solo il 4% oltre le due settimane».
«Di fronte a una Sanità al collasso – chiosa la Fimmg in un comunicato - la Medicina generale resta l’ultimo servizio ancora adeguato a fornire ai cittadini un servizio gratuito e accessibile senza attese per le piccole urgenze ed entro pochi giorni per le visite su appuntamento. Le proposte di riforma riportate da notizie giornalistiche da parte di alcune Regioni – aggiunge - avrebbero lo scopo di trasformare l’efficienza del modello attuale della Medicina generale in quello della dirigenza, con la diretta conseguenza di creare le liste di attesa laddove oggi non esistono, come già sta accadendo nei pochi Paesi in cui il medico di famiglia è un dipendente».
Un altro dato «significativo», osserva Scavo, è quello dei cittadini che hanno rinunciato a curarsi con il Ssn perché la prestazione di cui avevano bisogno non veniva erogata nella zona in cui vivevano: è accaduto più di una volta al 53% degli italiani contro il 44% rilevato nel 2024. «In questo caso il 76% del campione si è rivolto al privato – precisa - e ben il 20% ha rinunciato del tutto alle cure tra la popolazione generale: un valore che sale al 28% tra le persone in difficoltà economica. Al contrario, il 78% dei cittadini afferma di essere soddisfatto del proprio medico per la vicinanza dello studio alla propria abitazione, distante non più di due chilometri nel 63% dei casi e raggiungibile a piedi dal 41% del campione, in particolare dal 54% nel Sud Italia, dove ben il 77% della popolazione risiede entro due chilometri dallo studio del medico».
«Anche in questo caso – sostiene la Fimmg – il sondaggio IPSOS conferma che per i nostri pazienti la prossimità dell’assistenza sanitaria di base è di primaria importanza e che la diffusione capillare dei nostri sessantamila studi medici è garantita su tutto il territorio nazionale. Salvaguardare questo modello e rinforzare l’offerta dei servizi vicino alle persone attraverso una fitta rete di spoke dovrebbe essere la priorità per la politica – conclude il sindacato - riservando alle case della comunità hub e agli ospedali l’offerta di prestazioni multiprofessionali, tecnologiche e ad elevata specializzazione».
In Europa ben il 14% dei decessi è attribuibile a fattori ambientali, tra cui l’inquinamento. Anche per questo l’Unione europea ha lanciato la “Legge sul restauro della natura”, con lo scopo di incentivare il rispristino degli habitat a tutela dell’ambiente e della biodiversità.
«Un ottimo provvedimento che deve essere applicato e reso operativo al più presto in tutti gli Stati membri» prevedendo «un ruolo da protagonista per l’Italia con un impegno forte a promuovere progetti in difesa della salute umana, puntando sulla prevenzione attraverso il miglioramento della qualità ambientale ma anche la promozione di stili di vita sani e le diagnosi precoci delle gravi malattie».
L’appello è stato lanciato martedì 20 maggio a Bruxelles nel corso di un convegno al Parlamento europeo organizzato da One Health Foundation, su invito dell’europarlamentare Matteo Ricci, per lanciare proposte concrete che possano perfezionare la legge comunitaria con un approccio One Health.
«La salute e il benessere degli esseri umani, degli animali e dell’ambiente sono strettamente collegati e interdipendenti tra di loro» sottolinea Rossana Berardi, presidente di One Health Foundation e professoressa di Oncologia medica all’Università Politecnica delle Marche. «La nostra Fondazione -racconta - da oltre due anni sta promuovendo in tutta Italia iniziative di divulgazione e sensibilizzazione incentrate sul paradigma One Health. Ora a livello europeo si presentano ottime opportunità grazie alla nuova legge. Ben venga il “restauro” degli ambienti in cui viviamo, ma va dato più spazio alla promozione della salute. Solo all’inquinamento dell’aria sono strettamente collegate molte gravissime patologie, tra cui i tumori, le malattie respiratorie e cardiologiche».
«Siamo all’Europarlamento per ribadire che la tutela della salute umana e animale deve vedere anche il coinvolgimento diretto delle Istituzioni centrali e locali» spiega Mauro Boldrini, vicepresidente di One Health Foundation. «Vogliamo muoverci a livello continentale anche per valorizzare quanto abbiamo realizzato finora. Dal 2023 a oggi – ricorda - abbiamo svolto oltre 6 mila visite mediche gratuite sull’intero territorio nazionale e promosso attività di corretta informazione. Non solo, abbiamo vaccinato gratuitamente persone considerate a forte rischio di malattie infettive e avviato tavoli di lavoro multidisciplinari».
Ambiente e salute «sono da sempre strettamente collegati – osserva Vincenzo Caputo, membro del Comitato scientifico della Fondazione e direttore generale dell’Istituto zooprofilattico dell’Umbria e delle Marche - e la ricerca scientifica continua a produrre evidenze su questa correlazione. Anche il benessere degli animali va tutelato e non solo per una questione etica ma anche nel nostro interesse. L’inquinamento, o comunque l’intervento umano, può danneggiare la salute di numerosi esseri viventi. Ma le patologie degli animali possono essere trasmesse anche all’uomo, con gravi conseguenze. Vi sono molti esempi, anche tragici, negli ultimi anni di questa pericolosa e diffusa tendenza.
«Grazie all’innovazione possiamo creare veri e propri scudi contro i virus respiratori umani e animali – aggiunge Vincenzo Pompa di E4life – con l’obiettivo di ridurre praticamente a zero il rischio di trasmissione, a tutela soprattutto delle persone più fragili».
One Health «è un approccio che deve essere il più multidisciplinare possibile» sottolineano infine Alessandro delle Donne e Nicla La Verde, membri del Comitato scientifico della Fondazione, e «combinare competenze diverse in vari campi della medicina, veterinaria, ecologia, scienze sociali e anche economia. La nuova legge europea si basa sul concetto che il ripristino delle normali condizioni ambientali possa determinare benefici sull’intera collettività e sui diversi territori. Vanno perciò studiati e approfonditi i vantaggi che ne derivano dalla riduzione del rischio di esposizione a fonti cancerogene, da una maggiore sicurezza alimentare e più in generale dal miglioramento della qualità di vita. Servono professionisti adeguatamente preparati e che collaborino alle iniziative legislative comunitarie. Siamo pronti a cooperare con tutte le Istituzioni – concludono - e a portare le nostre esperienze e competenze».
L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha da poco approvato l’estensione dell’indicazione in prima linea dell’immunoterapia a base di dostarlimab in combinazione con la chemioterapia per le pazienti con carcinoma dell’endometrio primario avanzato o ricorrente con deficit del sistema di mismatch repair (dMMR) e elevata instabilità dei microsatelliti (MSI-H), candidate alla terapia sistemica. Questa popolazione rappresenta il 20-30% dei tumori dell’endometrio primari avanzati o ricorrenti, che con circa 9 mila nuovi casi l’anno è la quarta tipologia di tumore per incidenza nel genere femminile.
Il via libera dell’Autorità regolatoria italiana arriva a poco più di un anno da quella europea e si basa sui risultati dello studio RUBY, che ha preso in esame 118 pazienti con carcinoma endometriale primario avanzato o ricorrente dMMR/MSI-H con un follow-up mediano di oltre due anni (tre anni nel caso dell’analisi di sopravvivenza globale).
Lo studio, spiega Domenica Lorusso, direttrice del programma di Ginecologia oncologica dell’Humanitas San Pio X di Milano, «ha evidenziato una riduzione del 72% del rischio di progressione della malattia o di morte nelle pazienti dMMR/MSI-H trattate con la combinazione. Inoltre, in un’analisi esploratoria pre-specificata della sola sopravvivenza globale nella popolazione dMMR/MSI-H, l’aggiunta di dostarlimab alla chemioterapia ha determinato una riduzione del 68% del solo rischio di morte rispetto alla chemioterapia».
Nel caso specifico, a due anni il 61,4% delle pazienti dMMR/MSI-H trattate con dostarlimab e chemioterapia era libero da progressione o morte rispetto al 15,7% delle pazienti trattate con la sola chemioterapia standard. A tre anni, il 78% delle pazienti trattate con dostarlimab e chemioterapia era vivo rispetto al 46% delle pazienti trattate con la chemioterapia.
Il 72% di riduzione della progressione della malattia o di morte in donne con carcinoma dell’endometrio avanzato o recidivante, assicura Lorusso, è «un traguardo enorme, inimmaginabile. Significa soprattutto che le curve del RUBY ci mostrano che stiamo guarendo queste donne: un verbo, guarire, che non avrei mai immaginato di poter usare per tumori recidivanti o che esordiscono al quarto stadio. A questo punto non è utopia pensare che alcuni gruppi di pazienti potrebbero addirittura beneficiare della sola immunoterapia senza chemio».
Nel campo dei tumori ginecologici, conferma Nicoletta Cerana, presidente di Acto Italia-Alleanza contro il tumore ovarico, «stiamo assistendo a una rivoluzione epocale. Dopo i successi della medicina personalizzata nella cura del tumore ovarico, accogliamo con entusiasmo questa opportunità terapeutica che apre nuove speranze di vita non solo a ogni donna che sta lottando contro un tumore avanzato dell’endometrio, ma anche ai suoi familiari».
Per questo tumore non esiste uno screening come il pap test per il collo dell’utero. La diagnosi è prevalentemente legata a un sintomo precoce: il sanguinamento anomalo in pre e postmenopausa, che va sempre approfondito con esami specifici.
Tra i fattori di rischio, oltre all’età, è ormai accertato un aumento in caso di obesità e diabete. Un ruolo lo gioca anche l’eccessiva esposizione agli estrogeni come avviene a fronte di un inizio precoce del ciclo mestruale, di menopausa tardiva o assenza di gravidanze. Altri fattori sono la familiarità e l’ereditarietà: in quest’ultimo caso la Sindrome di Lynch è una condizione ereditaria che aumenta il rischio di sviluppare sia un tumore dell’endometrio, sia del colon in età giovanile.
Dice Elisabetta Campagnoli, direttore medico oncoematologia di GSK: «Da anni siamo impegnati nella ricerca e nello sviluppo di terapie innovative che possano fare la differenza per le pazienti, offrendo non solo tempo, ma anche una migliore qualità di vita. L'approvazione della combinazione di dostarlimab e chemioterapia rappresenta un passo significativo in questa direzione».