La Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) esprime «profonda preoccupazione per la sospensione dei finanziamenti federali statunitensi ai programmi di salute pubblica nazionali ed internazionali, specie nel settore della prevenzione e cura delle malattie infettive». Questa decisione, sostiene una nota della Società scientifica, «mette a rischio milioni di vite nei Paesi più poveri e vulnerabili, compromettendo i progressi nella lotta globale alle malattie infettive e alla prevenzione delle pandemie».
Il blocco dei fondi USAID ha già causato la chiusura di Centri clinici e l’interruzione di programmi fondamentali per l'infezione da Hiv e Aids, per la tubercolosi e per la malaria, osserva la Simit. E il ripristino della cosiddetta “Mexico City Policy”, che blocca i finanziamenti federali statunitensi alle Ong, limita gravemente l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, mentre il congelamento di finanziamenti alle Istituzioni federali come il National Institute of Health (NIH) e il Center for Disease Control and Prevention (CDC) ostacola la ricerca scientifica e la prevenzione delle epidemie.
«In un momento in cui la salute globale dovrebbe essere una priorità condivisa, decisioni come queste sono inaccettabili e mettono a rischio anni di progressi» avverte Roberto Parrella, presidente Simit. «Tagliare i finanziamenti alla cooperazione sanitaria internazionale non solo penalizza i Paesi più fragili – aggiunge - ma rappresenta una minaccia per la sicurezza sanitaria di tutti».
Ulteriore preoccupazione desta l'ordine esecutivo impartito ai CDC sul ritiro degli articoli scientifici in fase di pubblicazione per rimuovere termini considerati “non conformi” dalla nuova amministrazione USA, «configurando un esempio di interferenza politica sulla scienza e sulla salute pubblica».
La Simit chiede pertanto al Governo italiano di «esercitare una pressione politica sulla Presidenza degli Stati Uniti al fine di considerare una revisione di queste misure – conclude Parrella - e invita la comunità scientifica nazionale e internazionale a rafforzare il proprio impegno per garantire la continuità dei programmi sanitari essenziali di ricerca e prevenzione, soprattutto nelle fasce di popolazioni fragili. La salute è un diritto universale non politicamente negoziabile e deve restare al centro delle politiche globali».
Solo l’11% degli italiani si dichiara pienamente soddisfatto della qualità della vita nella propria città e il 39% ha registrato peggioramenti significativi negli ultimi anni, soprattutto nei grandi centri urbani.
Sono dati dal 2° Rapporto One Health “La salute della città e dei territori” realizzato dal Campus Bio-Medico di Roma in collaborazione con l’Istituto Piepoli.
Il campione intervistato immagina un futuro determinato dal progresso della tecnologia (per il 68%) e un orientamento sempre più concreto verso la sostenibilità (51%), l’efficienza (48%), l’inclusione (42%). La qualità della vita dipende inevitabilmente da alcuni elementi essenziali, il cui principio fondamentale può essere riassunto nel concetto di “accessibilità”: alla salute, al lavoro, alla casa, all'istruzione. L’immagine della città del futuro è in linea con le priorità espresse dalle persone. Infatti, i cittadini si aspettano che le città del futuro siano ambienti sicuri e verdi, dove sia possibile accedere facilmente a cure (56%), servizi (55%), formazione (53%), opportunità professionali (51%), mobilità sostenibile (50%), integrazione e socialità in ogni fase della vita.
Lo studio ha permesso di tracciare due scenari possibili per il futuro delle città. Il primo, chiamato "città da usare", immagina i grandi centri urbani come centri di eccellenza economica, culturale e sanitaria, da vivere principalmente come luoghi di lavoro e servizi, con una popolazione residente limitata e flussi giornalieri intensi. Il secondo, invece, chiamato "città da vivere", concepisce il tessuto urbano come uno spazio orientato a favorire l’inclusione sociale, la coesione tra centro e periferie e aree urbane progettate per migliorare la qualità della vita, con abitazioni accessibili, verde pubblico e servizi di prossimità.
Per il futuro delle città italiane nel settore sanitario, secondo il Rapporto l'integrazione tra pubblico e privato giocherà un ruolo chiave per migliorare l'accesso alle cure e ridurre i costi, grazie anche all’utilizzo di tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale e la telemedicina. L’attenzione verso la prevenzione sarà più che mai centrale e consentirà di far fronte al progressivo invecchiamento della popolazione.
Il Rapporto «propone scenari – sottolinea Livio Gigliuto, presidente dell’Istituto Piepoli - quelli che chiamiamo “futuribili”, delle città che vivremo. Sono diversi e per certi versi divergenti, ma su alcune cose tendono a trovarsi in armonia: le città del futuro non saranno solo spazi costruiti, ma ecosistemi vivi, capaci di integrare sostenibilità, benessere e innovazione. Il cambiamento è già in atto: cittadini e opinion leader sono pronti a ripensare i nostri spazi urbani per renderli più inclusivi, accessibili e sani. Il futuro delle città non è un destino già scritto, ma una scelta che compiamo oggi».
Per Carlo Tosti, presidente dell'Università e Fondazione Policlinico Campus Bio-Medico, «le città italiane si trovano davanti a una sfida epocale: conciliare la loro unicità storica e culturale con la necessità di adattarsi a un futuro sostenibile. La crescita delle medie città rappresenta un'opportunità straordinaria per creare nuovi modelli di sviluppo urbano, più inclusivi e a misura d’uomo. Tuttavia – avverte - per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità entro il 2050 è fondamentale agire subito, investendo in mobilità sostenibile e rigenerazione urbana. Questo Rapporto vuole essere una guida e uno stimolo per Istituzioni, esperti e cittadini, affinché insieme possano costruire un futuro dove qualità della vita e innovazione vadano di pari passo».
Oltre il 90% delle pazienti dichiara di avere problemi legati alla sfera sessuale in seguito a interventi e trattamenti per il tumore al seno, ma due su tre non ne parlano con nessuno e il 42% rinuncia a gestirli.
Sono alcuni dati dell’indagine condotta da IQVIA e promossa da Europa Donna Italia per comprendere l’impatto della malattia sull’identità femminile e la relazione di coppia. La ricerca ha coinvolto 382 donne con diagnosi di tumore al seno di diverse fasce di età e a diverso stadio di malattia. I risultati sono stati presentati nel convegno “Rəvolution in Medicine”, che si è tenuto sabato 22 febbraio all’Università di Milano.
Come osserva Isabella Cecchini, responsabile del Centro studi IQVIA Italia, che ha coordinato l'indagine, le tematiche relative a emozioni e sessualità sono percepite importanti per il 72% del campione, ma restano taciute non solo dalle donne stesse, principalmente per timore, vergogna, idea che siano aspetti secondari rispetto alle priorità dettate dalla malattia, ma anche dai medici.
«Fornire alla paziente informazioni chiare sugli effetti collaterali sessuali dei trattamenti e, se desiderato, includere il partner nelle discussioni cliniche può fare una grande differenza» spiega Manuelita Mazza, oncologa della Senologia medica dell’Istituto europeo di oncologia e responsabile scientifica di “Rəvolution in medicine”. «Questa apertura non solo supporta meglio la paziente – precisa - ma le permette di sentirsi compresa in una delle sfere più intime e vulnerabili della sua vita».
Secondo i dati dell'indagine, appena il 22% delle donne intervistate ha un alto livello di consapevolezza dell’impatto delle terapie sulla propria sessualità, l’11% ha interrotto la relazione con il proprio partner dopo la diagnosi di tumore al seno e due coppie su tre hanno interrotto i rapporti sessuali. Anche sul fronte della maternità emergono dati significativi: solo tre pazienti su quattro parlano con il proprio medico di riferimento del desiderio di diventare madri e la comunicazione risulta chiara e rassicurante appena per la metà di loro, con il risultato che troppo spesso si rinuncia al proprio progetto di vita perché non si sono ricevute informazioni adeguate.
«È il momento di promuovere un cambiamento – sostiene Rosanna D’Antona, presidente di Europa Donna Italia – e far sì che i problemi riscontrati dalle pazienti nella sfera emotiva e sessuale escano dal cono d’ombra del tabù. Le donne chiedono un supporto specifico da parte dei medici e vorrebbero essere affiancate anche dagli psiconcologi. L’impegno di Europa Donna in queste direzioni non mancherà».
Federico Serra è il nuovo presidente per la Regione Europa-Medio Oriente-Africa (EMEA) dell’International Public Policy Advocacy Association (IPPAA). La nomina è avvenuta nei giorni scorsi per il mandato 2025-2028.
Serra, che subentra in questo ruolo alla scadenza del suo mandato come presidente di IPPAA Global, è stato contestualmente nominato presidente del Three Bees Inner Circle.
IPPAA è l’associazione, con sede a Washington., che raggruppa organizzazioni impegnate nell’advocacy nel campo delle politiche pubbliche a livello globale. La nomina di Serra avviene contestualmente alla nascita di una nuova struttura globale di IPPAA, che da ora comprende come regioni chiave, oltre a EMEA (Europa-Medio Oriente-Africa), anche il Nord America (NA), l'America Latina (LATAM) e l'Asia-Pacifico (APAC).
Federico Serra, che è stato il primo italiano e primo europeo a ricoprire il ruolo di presidente Global di IPPAA, è Senior Government Affairs & Institutional Communication Advisor, fondatore di LastMile solutions, e presidente della South Italy Foundation e dell’Osservatorio permanente sullo sport. Riveste il ruolo di segretario generale nell’Health City Institute, nel Planetary Health Inner Circle, in Cities+ e nell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane. È inoltre CEO & General Manager dello European Diabetes Forum-Italia, General Director di IBDO (Italian Barometer Diabetes Observatory) Foundation e General Director di ITCO (Italian Thyroid Cancer Observatory) Foundation.
«Sono molto orgoglioso di questo incarico – dichiara Serra - che mi impegnerò a svolgere con la massima cura e con l’obiettivo di intensificare la collaborazione e promuovere sinergie politiche tra Europa, Italia e Paesi del Medio Oriente e del Golfo Arabico, e di sviluppare relazioni che facciano dell’Italia un polo strategico. IPPAA è un’organizzazione che si dedica a promuovere su base globale l’attività di advocacy nel campo delle politiche pubbliche in maniera più professionale, trasparente ed etica. È un bisogno sentito anche e soprattutto nel nostro Paese».
Tumore dell'ovaio: per tutte le donne si faccia la profilazione genetica al momento della diagnosi Dal 26° Congresso della Società europea di oncologia ginecologica, l'Ovarian Cancer Commitment chiede alle istituzioni interventi urgenti per poter garantire a tutte le pazienti le migliori armi che la scienza oggi mette a disposizione contro un tumore particolarmente complesso Leggi tutto Gimbe: per la salute gli italiani spendono 40 miliardi l'anno, la metà per prestazioni inutili I dati dal Report dell’Osservatorio Gimbe sulla spesa sanitaria privata in Italia nel 2023. Attenzione, però: la spesa out-of-pocket non è un indicatore affidabile per valutare le mancate tutele pubbliche Leggi tutto Altre notizie Gli infettivologi italiani: i tagli dell'amministrazione Trump ai programmi di salute pubblica mettono a rischio ricerca, prevenzione e cure in tutto il mondo Solo un italiano su dieci è soddisfatto della qualità della vita nella propria città Tumore al seno: nove pazienti su dieci hanno problemi nella sfera sessuale Federico Serra alla guida dell'International Public Policy Advocacy Association per la Regione Europa-Medio Oriente-Africa Oncologia: belzutifan ottiene la prima approvazione da parte della commissione europea per due indicazioni Autorizzazione europea condizionata per seladelpar nel trattamento della colangite biliare primitiva Nuovi dispositivi piezoelettrici per la medicina Aiom e Fondazione Airc insieme per la prevenzione del cancro Malattie rare, assegnati i Premi Omar A Bologna farmacisti a confronto sull’evoluzione del Servizio sanitario nazionale Diabete: Fand lancia la “Bacheca del Sapere” diabetico per genitori e figli Menopausa: informazione e dialogo con il medico per gestire al meglio i sintomi Al via corsi per i medici di famiglia per aumentare le diagnosi precoci di colangiocarcinoma Cancro: l’età fa la differenza L’emicrania non si vede, ma si sente Tumori: nasce la prima Rete europea sulle risorse mediche Hi-Tech
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Garantire la rimborsabilità e un accesso omogeneo al test HRD contestualmente alla diagnosi di tumore ovarico. È questa la richiesta dell'Ovarian Cancer Commitment (OCC) in occasione del 26° Congresso della Società europea di oncologia ginecologica (ESGO, a Roma dal 20 al 23 febbraio). L'OCC è un’iniziativa dell'ESGO, della Rete europea dei gruppi di advocacy del cancro ginecologico (ENGAGe) e di AstraZeneca, con l’obiettivo di migliorare la conoscenza della malattia, la qualità di vita e la sopravvivenza delle donne colpite da carcinoma ovarico.
La metà dei casi di tumore dell’ovaio presenta alterazioni dei geni coinvolti nella riparazione del Dna. Sono chiamati deficit di ricombinazione omologa (HRD, Homologus Recombination Deficiency), in cui rientrano, per esempio, le mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2. Si tratta di alterazioni che possono guidare la scelta della terapia più efficace Ma solo alcuni Centri, distribuiti irregolarmente sul territorio nazionale, sono oggi in grado di effettuare questi test per la profilazione molecolare.
Nel 2024, in Italia, sono state stimate circa 5.400 nuove diagnosi di tumore dell’ovaio, una delle neoplasie ginecologiche più gravi. «La sopravvivenza a cinque anni resta bassa, pari al 43% - ricorda Anna Fagotti, presidente ESGO, professoressa di Ostetricia e ginecologia all’Università Cattolica e direttrice dell’Unità operativa complessa Tumore ovarico al Policlinico Gemelli di Roma - anche perché troppe donne, circa l’80%, scoprono la malattia in fase avanzata. A differenza di quanto avviene nei tumori del colon-retto, della mammella e della cervice uterina, in questa patologia mancano efficaci strumenti di screening. Inoltre, il 70% delle pazienti con carcinoma ovarico in stadio avanzato va incontro a recidiva entro due anni. L’oncologia di precisione ha cambiato la pratica clinica. Infatti oggi vi sono terapie mirate, in particolare gli inibitori di PARP, che possono essere utilizzati in combinazione con farmaci antiangiogenici come terapia di mantenimento di prima linea e sono in grado di ottenere una remissione a lungo termine, aiutando a vivere più a lungo e ritardando la progressione della malattia».
La scelta di questi trattamenti richiede però l’esecuzione del test HRD che dovrebbe essere «il primo step di un approccio di medicina di precisione per definire la miglior cura – aggiunge Fagotti - e va eseguito in tutte le pazienti al momento della diagnosi. L’esecuzione di questo test richiede piattaforme tecnologiche corredate da software che generano specifici algoritmi, attualmente presenti soltanto in pochi Centri specializzati. Ciò determina una grande barriera all’accesso a queste importanti analisi genetiche e, pertanto, un limite all’utilizzo delle terapie innovative. L’Ovarian Cancer Commitment chiede perciò che siano identificati i requisiti dei laboratori in grado di realizzare queste analisi e che siano create reti laboratoristiche regionali».
La proposta di una rimborsabilità non più riferita al singolo gene, ma a pannelli multigenici «fa ben sperare» interviene Nicoletta Cerana, presidente di Acto Italia (Alleanza contro il tumore ovarico). Tuttavia, prosegue, «l’accesso equo a test molecolari che permettono di definire la terapia su misura di ogni paziente e la possibilità di essere curate nei Centri di riferimento di alta specialità, che eseguono un elevato numero di interventi chirurgici all’ovaio, non sono ancora una realtà in Italia. Come rileva il Policy Paper di OCC – precisa - nel nostro Paese solo tre Centri possiedono un volume di interventi annui superiore a cento. La grande maggioranza non supera i venti casi l’anno e non può ottenere la certificazione ESGO. A ciò si aggiunga che solo sette Regioni hanno identificato i Centri di riferimento regionali e le loro caratteristiche».
Altre due criticità riguardano l’assenza in dodici Regioni di Percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali (Pdta) specifici per la gestione delle persone ad alto rischio e il mancato riconoscimento dell’esenzione D99 in modo omogeneo a livello nazionale. «Questa esenzione - spiega Ornella Campanella, presidente di aBRCAdabra - interessa le persone risultate positive al test BRCA, sia uomini che donne, e che sono ad alto rischio di sviluppare un tumore al seno, all’ovaio, al pancreas e alla prostata. È opportuno che queste persone portatrici, sane e non, siano inserite in programmi di sorveglianza specifici volti ove possibile alla diagnosi precoce di queste neoplasie. A oggi, l’esenzione D99 è stata deliberata solo in dieci Regioni. È quindi necessario che venga riconosciuta in modo uniforme sul territorio, per ridurre la disparità di accesso alla prevenzione con il rischio di una diagnosi tardiva. Chiediamo, inoltre, che entrambe le chirurgie di riduzione del rischio sia senologica che ginecologica siano inserite nei Livelli essenziali di assistenza».
Alle Istituzioni «chiediamo di adottare in breve tempo un Pdta nazionale – ribadisce Manuela Bignami, direttrice di Loto Odv - che definisca i requisiti dei Centri di riferimento. ESGO ha identificato gli standard essenziali che prevedono, in particolare, la presenza di un chirurgo specializzato, un volume soglia di almeno trenta interventi annui, la presenza di team multidisciplinari ed expertise oncologiche con possibilità di accesso agli studi clinici».
L’OCC ha lanciato Olivia, risorsa digitale per migliorare il livello di conoscenza e supportare le persone colpite dalla malattia. Una piattaforma unica, con informazioni certificate per le donne che hanno appena ricevuto la diagnosi, sono in trattamento o hanno concluso le cure. OCC, racconta Bignami, «ha realizzato Olivia proprio per fornire a pazienti e caregiver tutte le informazioni, attraverso un percorso interattivo, che spazia dalla diagnosi, ai test genetici, ai trattamenti fino al follow up, includendo le storie delle donne che hanno vissuto l’esperienza della malattia, un glossario dei termini medici tradotti in un linguaggio accessibile a tutti, l’elenco delle Associazioni di pazienti e schede informative su temi come la nutrizione e l’esercizio fisico, la recidiva e il supporto psiconcologico».
«È compito delle Istituzioni garantire la presa in carico a 360 gradi delle pazienti – dice infine Elena Murelli, componente della Commissione Sanità del Senato - dalla diagnosi ai test alle cure fino al supporto psiconcologico, che ha un ruolo fondamentale. Il Policy Paper di OCC, che riunisce Società scientifiche, Istituzioni e Associazioni di pazienti, è un documento che deve impegnare il legislatore a superare le criticità nella definizione del percorso di diagnosi e cura. Le Istituzioni – conclude - devono tenere il passo della ricerca scientifica, che è sempre più veloce».
La Commissione europea ha approvato in maniera condizionata belzutifan, inibitore orale del fattore 2 alfa inducibile dall’ipossia (HIF-2α) di MSD, nel trattamento di pazienti adulti con alcuni tipi di tumori associati alla malattia rara di Von Hippel-Lindau e pazienti adulti con carcinoma del rene metastatico precedentemente trattato.
L’approvazione di queste due indicazioni si basa sui risultati degli studi LITESPARK-004 e LITESPARK-005 e segue la raccomandazione positiva del Comitato per i medicinali per uso umano di dicembre 2024. È la prima approvazione di belzutifan nell’Unione europea
La sindrome di Von Hippel-Lindau è una malattia genetica rara che colpisce un numero stimato di 200 mila persone a livello mondiale e da 10 mila a 15 mila in Europa. I pazienti con malattia di VHL presentano il rischio di sviluppare tumori benigni dei vasi sanguigni con tendenza a recidivare e alcuni tumori maligni. Uno dei tumori più comuni è l’RCC, una forma di tumore del rene, che si presenta in circa il 70% dei pazienti con malattia di VH. È «una sindrome ereditaria, quindi geneticamente determinata, che predispone allo sviluppo di tumori benigni e maligni a carico di diversi organi, dal rene, al pancreas al sistema nervoso centrale» spiega Alfonso Massimiliano Ferrara, endocrinologo dell’Unità Tumori ereditari dell’Istituto oncologico veneto (Iov) di Padova, dove dal 2003 sono stati seguiti 331 pazienti di 178 diverse famiglie provenienti da tutte le Regioni d’Italia. Quando il farmaco sarà rimborsato dall'Agenzia italiana del farmaco (Afa) belzutifan «è destinata a cambiare la pratica clinica nei vari Paesi, inclusa l’Italia» assicura Ferrara.
L’approvazione di belzutifan «diventa uno strumento fondamentale per la cura delle persone con tumore del rene ereditario - aggiunge Alessandro Larcher, urologo e responsabile del programma VHL dell’ospedale San Raffaele Milano - che si affianca alle strategie esistenti di sorveglianza, ablazione e chirurgia. Le persone con carcinoma a cellule renali associato a malattia di VHL, infatti, sono costrette a subire molti trattamenti ai reni, che possono comprometterne la funzione a lungo termine portando conseguenze come dialisi o trapianto».
Le persone con tumori associati alla malattia di Von Hippel-Lindau, ricorda Nicoletta Luppi, presidente e amministratrice delegata di MSD Italia. «finora erano prive di opzioni farmacologiche. Belzutifan può cambiare la vita di questi pazienti per i quali esiste un forte bisogno clinico insoddisfatto. Ora è necessario che questa innovazione terapeutica sia resa disponibile quanto prima anche in Italia. Devono essere eliminati i freni normativi e burocratici che ostacolano l’innovazione, definendo anche nuovi meccanismi di accesso precoce».
L’approvazione di belzutifan nella Ue «introduce la prima e unica opzione terapeutica sistemica per i pazienti adulti con alcuni tumori associati alla malattia rara di VHL – sottolinea Marjorie Green, vicepresidente senior e direttore di Oncologia e sviluppo clinico globale, Merck Research Laboratories - per i quali non sono indicate le procedure localizzate, e offre una nuova opzione ai pazienti adulti con carcinoma renale a cellule chiare, in progressione da un inibitore di PD-1 o di PD-L1 e almeno due terapie mirate anti VEGF. È un momento importante e siamo soddisfatti che belzutifan, primo e unico first-in-class inibitore HIF-2α, possa ora potenzialmente aiutare questi pazienti che ne hanno necessità».
La Commissione europea (Ce) ha concesso l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata a seladelpar per il trattamento della colangite biliare primitiva (PBC) in combinazione con acido ursodesossicolico (UDCA) negli adulti che hanno una risposta inadeguata al solo UDCA, o come monoterapia nei soggetti che non tollerano l’UDCA.
La PBC è una rara malattia cronica e autoimmune dei dotti biliari che in Europa colpisce circa 22 persone su 100 mila. Più comune nelle donne, la PBC causa danni al fegato che possono progredire fino all’insufficienza epatica, soprattutto se non trattata. I sintomi più comuni della PBC sono il prurito cronico e l’affaticamento, che in alcune persone possono essere debilitanti. Attualmente non esiste una cura e gli obiettivi del trattamento includono il rallentamento della progressione della malattia e la riduzione dei sintomi correlati alla colestasi (flusso biliare compromesso), come il prurito colestatico.
La decisione della Ce fa seguito al parere positivo del Comitato per i medicinali per uso umano (CHMP) dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA) formulato nel dicembre 2024, e si basa principalmente sui risultati di RESPONSE, uno studio registrativo di fase III controllato con placebo. Si tratta del primo e unico trattamento che, rispetto al placebo, ha ottenuto miglioramenti statisticamente significativi in termini di risposta biochimica, normalizzazione della fosfatasi alcalina e prurito
La decisione della Commissione europea «conferma il beneficio clinico e il valore di seladelpar – commenta María-Carlota Londoño, epatologa all'Hospital Clinic Barcelona - e offre alla popolazione europea con PBC una nuova importante opzione terapeutica. Ci sono persone in Europa che non rispondano adeguatamente alla terapia di prima linea e seladelpar contribuisce a rispondere al bisogno insoddisfatto di un trattamento efficace e mirato ai sintomi».
Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto nanoscienze del Cnr, in collaborazione con le Università di Pisa, del Wisconsin-Madison e la Scuola normale superiore, ha sviluppato una tecnologia innovativa che combina nanomateriali di origine naturale e strati di metalli degradabili per realizzare dispositivi avanzati destinati al settore biomedicale. Si tratta di dispositivi piezoelettrici, ovvero sistemi capaci di trasformare la pressione o le vibrazioni in elettricità e viceversa.
Lo studio è pubblicato sulla rivista Science Advances.
«Questi dispositivi – spiega Luana Persano, ricercatrice del Cnr-Nano e coordinatrice dello studio - hanno mostrato una sensibilità eccezionale nella rilevazione della pressione e la capacità di generare una potenza generata sufficiente per monitorare il battito cardiaco in tempo reale. Inoltre, convertono i movimenti meccanici in energia elettrica, consentendo così di alimentare piccoli dispositivi elettronici, come sensori indossabili o impiantabili senza ricorrere a batterie».
Per la loro realizzazione i ricercatori hanno utilizzato nanocristalli di cellulosa e li hanno assemblati con il molibdeno, un metallo, in strutture multistrato. La biocompatibilità dei dispositivi, dimostrata attraverso esperimenti in vivo e test su cellule epiteliali polmonari e muscolari cardiache, ne conferma il potenziale applicativo in ambito medico.
«Questa tecnologia – precisa Persano - apre nuove possibilità per applicazioni come il monitoraggio di organi, la medicina rigenerativa e il rilascio controllato di farmaci. Grazie a una combinazione innovativa di micro e nanotecnologia, siamo riusciti a sfruttare al meglio le proprietà piezoelettriche dei nanocristalli di cellulosa e abbiamo sviluppato una piattaforma unica, flessibile e ad alte prestazioni, adatta a una nuova generazione di sensori medici, autoalimentati e integrati nel nostro corpo e nell’ambiente in modo sempre più naturale».
Il lavoro, svolto principalmente a Pisa presso il laboratorio Nest della Normale in cui confluiscono anche laboratori di Cnr-Nano, si inserisce nell’ambito del programma europeo Marie Curie BIOIMD, e si è avvalso della collaborazione dei gruppi di ricerca di Alessandra Operamolla, che ha sintetizzato i nanocristalli, e di Dario Pisignano, dell’Università di Pisa.
Sviluppare progetti comuni per affrontare le sfide più urgenti legate al cancro e alle crescenti esigenze di prevenzione, cura e informazione.
È con questa intenzione che l'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) e la Fondazione Airc hanno sottoscritto mercoledì 19 febbraio un protocollo di intesa che per tutto il 2025 le vedrà impegnate su tematiche sociali rilevanti per l’impatto che il cancro ha sulla vita delle persone, delle famiglie e del sistema Paese.
In Italia nel 2024 sono state registrati circa 390 mila nuovi casi di tumore: «Diagnosi precoci, terapie innovative e team multidisciplinari – sottolinea Francesco Perrone, presidente Aiom - hanno permesso di ottenere risultati davvero importanti. Infatti, registriamo alti tassi di guarigione in neoplasie particolarmente diffuse. Per esempio, abbiamo raggiunto il 53% nel carcinoma del colon retto e il 73% in quello della mammella». Cala la mortalità, ma aumentano i casi: nel nostro Paese vi sono oltre 3,7 milioni di persone che vivono con una diagnosi di cancro. «Sono perciò indispensabili nuove campagne di informazione – sostiene Perrone - per favorire soprattutto la prevenzione primaria, insistendo sull’adozione di corretti stili di vita come non fumare, seguire una dieta varia ma soprattutto ricca di frutta e verdura, combattere la sedentarietà e il consumo di alcol. Va poi maggiormente diffusa quella secondaria, incentivando l’adesione ai programmi di screening. Infine, va sostenuta con forza la prevenzione terziaria rivolta agli ex pazienti per evitare recidive».
La firma dell'accordo avviene nell’anno in cui Fondazione Airc celebra 60 anni. «L’alleanza con Aiom ci permette di amplificare il nostro impatto con iniziative di advocacy su temi fondamentali per la qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie – dice Andrea Sironi, presidente Fondazione Airc – avvalendoci di un partner di eccellenza nel campo dell’oncologia medica». Oltre a finanziare quest’anno con 141 milioni di euro 673 progetti di ricerca, 90 borse di studio, otto programmi speciali e l'Istituto di oncologia molecolare della Fondazione, Airc «investe anche sul futuro dell’oncologia – prosegue Sironi - supportando le carriere di medici oncologi che desiderano integrare la ricerca di laboratorio nella pratica clinica, accelerando così l’arrivo di nuove soluzioni terapeutiche ai pazienti. In questa direzione si inserisce il bando Next Gen Clinician, un programma quinquennale dedicato proprio a questi professionisti, che ci auguriamo possa essere di interesse anche per gli associati di Aiom».
La partnership prevede una serie di incontri sul territorio, organizzati congiuntamente dalle due organizzazioni, con l’obiettivo di sensibilizzare il pubblico sulla prevenzione del cancro.
Inoltre, l'1 marzo da Trieste prenderà il via il Tour Mediterraneo 2025 dell’Amerigo Vespucci, di cui Aiom e Airc saranno partner ufficiali, contribuendo con momenti di informazione e sensibilizzazione all’interno del “Villaggio Italia”, un’esposizione itinerante che toccherà diverse città italiane, informando i visitatori sui temi della salute e della prevenzione oncologica con particolare riferimento alla dieta mediterranea e all’esercizio fisico.
Valorizzare chi dimostra la capacità di comunicare i temi delle patologie e dei tumori rari in modo scientificamente accurato e rigoroso, ma al contempo comprensibile e originale. E, inoltre, facilitare il contatto tra giornalisti, comunicatori, Associazioni di pazienti, Istituzioni e ricercatori impegnati in questo campo.
Sono questi gli obiettivi dei Premio Omar, giunto quest'anno alla undicesima edizione, organizzato da Osservatorio malattie rare in collaborazione con il Coordinamento nazionale delle associazioni dei malati cronici e rari (Cnamc) di Cittadinanzattiva, Fondazione Telethon, Orphanet Italia e Società italiana di medicina narrativa (Simen).
Questa undicesima edizione ha visto tre vincitori e un riconoscimento speciale.
Per la categoria “Stampa-Web-Audio-Video” il riconoscimento è andato a Fabio Di Todaro per l'articolo “Emofilia, dalle trasfusioni alla terapia genica: così sta cambiando la cura”, pubblicato sulla testata AboutPharma.
Il premio per la “Migliore Campagna di Comunicazione Categoria Professionisti” è stato assegnato ad Alexion AstraZeneca Rare Disease per il progetto “gMG Your Way – Italia”, una serie podcast realizzata in collaborazione con l'Associazione italiana miastenia e con il supporto di VOIS, che guida gli ascoltatori alla scoperta della miastenia grave generalizzata, sensibilizzando e diffondendo la conoscenza su questa malattia rara.
Tiziana Nicoletti, responsabile Cnamc di Cittadinanzattiva, ha consegnato all'Associazione immunodeficienze primitive il premio per la “Migliore Campagna di Comunicazione Categoria Non Professionisti” per il progetto “Affianco: vite allo specchio e storie (stra)ordinarie di immunodeficienza primitiva”, incentrata sulle storie di vita legate alle immunodeficienze primitive raccontate attraverso le voci di pazienti e medici.
La Giuria del Premio Omar ha infine attribuito una Menzione speciale alla giornalista Silvia Valenti per il servizio video “L’infermiere che riporta il sorriso a casa dei bimbi malati”, andato in onda nel telegiornale SeiLaTV News dell’omonima emittente locale di Bergamo. Valenti, nel servizio, racconta le storie di due bambini, quella di Anna che è affetta da ipertensione arteriosa polmonare e quella di Giorgio che ha scoperto di avere l’emofilia a un anno e mezzo. Una figura li accomuna: Paolo, infermiere pediatrico domiciliare, che con grande empatia e dedizione addolcisce i momenti dei prelievi e della somministrazione dei medicinali.
«Ricerca, diagnosi, possibilità e prospettive terapeutiche, ma anche quotidianità con una patologia rara, assistenza domiciliare, fiducia tra medici e pazienti. Non sono parole a caso – spiega Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice di Omar–Osservatorio malattie rare, alla cerimonia di premiazione dei vincitori del 2025 svoltasi martedì 18 febbraio a Roma - ma i temi che caratterizzano l’undicesima edizione del Premio Omar per la comunicazione sulle malattie e i tumori rari. Questi concetti – precisa -rappresentano una parte del vasto e complesso mondo raro. A pochi giorni dalla Giornata mondiale delle malattie rare assegniamo questi riconoscimenti a coloro che hanno sapientemente informato e comunicato su questi argomenti attraverso vari mezzi, dalla carta all’online, dai libri ai video fino ai podcast. Al centro di ogni racconto, articolo e campagna c’è sempre una storia – conclude Ciancaleoni Bartoli - che unisce la persona, la scienza e il sistema socio-sanitario».
Analizzare i più recenti sviluppi normativi e le strategie per rafforzare la governance sanitaria, valorizzando il contributo che la professione e la farmacia possono offrire per un effettivo rilancio del Servizio sanitario nazionale.
È questo che intendono fare i farmacisti che si ritroveranno a Bologna dall'11 al 13 aprile prossimi per il loro congresso nazionale “FarmacistaPiù”. A spiegarlo mercoledì 19 febbraio in una conferenza stampa sono stati gli stessi vertici della professione, a cominciare dal presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi), Andrea Mandelli.
«In questi anni FarmacistaPiù si è affermato come un appuntamento sempre più atteso e partecipato dai farmacisti italiani per la capacità di offrire un aggiornamento professionale di qualità e di stimolare la riflessione e il confronto tra tutti gli attori del comparto sanitario sulle nostre proposte per costruire un servizio sanitario realmente incentrato sulle esigenze dei cittadini» osserva Mandelli. Innovazione e prossimità delle cure, temi al centro di questa edizione del Congresso, «sono il cuore dell’impegno quotidiano dei farmacisti – prosegue Mandelli - per continuare a evolvere come professionisti garantendo un’assistenza efficace, accessibile e al passo con il progresso scientifico e con l’applicazione delle tecnologie digitali in sanità».
In un momento di «profonda trasformazione, in cui si sta consolidando il nuovo modello di farmacia», sostiene Marco Cossolo, presidente di Federfarma, l'associazione dei itolari di farmacia, questa edizione di FarmacistaPiù sarà «un’utile occasione di confronto su temi di grande importanza e attualità con istituzioni, professionisti sanitari, esponenti del mondo scientifico e dell’industria di settore».
Dal canto suo, Luigi D'Ambrosio Lettieri, presidente della Fondazione Francesco Cannavò, organizzatrice di Farmacista Più, sostiene che anche questo Congresso«si presenta con tematiche di grande attualità e rilevanza che lo confermano un appuntamento d’interesse per l’intera comunità professionale e per quanti nel mondo della ricerca scientifica, delle Istituzioni e della produzione svolgono ruoli strategici nel complesso processo di evoluzione del Servizio sanitario nazionale».
Il processo di evoluzione del Servizio sanitario nazionale, dice il presidente Utifar, Eugenio Leopardi, «deve passare per due elementi fondamentali: l’aggiornamento professionale, sempre essenziale per soddisfare le esigenze di salute del cittadino, deve affiancarsi all’innovazione tecnologica. Una farmacia competente e solida può, infatti, contribuire in maniera decisiva al buon funzionamento dell'intero Ssn – aggiunge - ma a condizione che si sviluppi un linguaggio informatico univoco sul territorio nazionale, cosa che oggi non è affatto scontata, con molti sistemi che non si parlano tra loro e che rendono impossibile il trasferimento di dati e informazioni tra le diverse realtà sanitarie italiane».
“FarmacistaPiù” si svolgerà quest'anno in concomitanza di Cosmofarma, una delle principali manifestazioni fieristiche dedicate al mondo farmaceutico.
La spesa sanitaria “out of pocket” (cioè affrontata di tasca propria) delle famiglie italiane nel 2023 ha superato 40 miliardi di euro, con un aumento del 26,8% tra il 2012 e il 2022.
È uno dei dati dal Report dell’Osservatorio Gimbe sulla spesa sanitaria privata in Italia nel 2023, commissionato dall’Osservatorio nazionale Welfare & Salute (ONWS), presentato martedì 18 febbraio a Roma.
Un altro elemento che spicca dal Rapporto è che la spesa out-of-pocket non è un indicatore affidabile per valutare le mancate tutele pubbliche, sia perché circa il 40% riguarda prestazioni a basso valore, sia perché è frenata dall’incapacità di spesa delle famiglie e dalla rinuncia a prestazioni per reali bisogni di salute. Fattori che, secondo Gimbe, fanno sì che «l’ipotesi ventilata dalla politica di ridurre la spesa out-of-pocket semplicemente aumentando quella intermediata da fondi sanitari e assicurazioni non appare realistica».
L’aumento della spesa out-of-pocket, tuttavia, «non è solo il sintomo di un sottofinanziamento della sanità pubblica – sostiene Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – ma anche un indicatore delle crescenti difficoltà di accesso al Servizio sanitario nazionale. L’impossibilità di accedere a cure necessarie a causa delle interminabili liste di attesa determina un impatto economico sempre maggiore, specie per le fasce socio-economiche più fragili che spesso non riescono a sostenerlo, limitando le spese o rinunciando alle prestazioni».
Qualche numero. Secondo i dati Istat, ricorda la Fondazione, nel 2023 la spesa sanitaria totale in Italia ha raggiunto 176,1 miliardi di euro, di cui 130,3 di spesa pubblica (74%), 40,6 di spesa privata pagata direttamente dalle famiglie (23%) e 5,2 di spesa privata intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (3%). Considerando solo la spesa privata, l’88,6% è a carico diretto delle famiglie, mentre soltantoo l’11,4% è intermediata. «Questi valori – commenta Cartabellotta – riflettono tre fenomeni chiave: il sottofinanziamento pubblico, l’ipotrofia del sistema di intermediazione e il crescente carico economico sulle famiglie. Siamo molto lontani dalla soglia suggerita dall’Organizzazione mondiale della sanità: per garantire equità e accessibilità alle cure, la spesa out-of-pocket non dovrebbe superare il 15% della spesa sanitaria totale».
Le differenze tra Regioni. Il valore nazionale medio è di 730 euro pro-capite, con un range che va da 1.023 euro della Lombardia a 377 della Basilicata. Le Regioni con migliori performance nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) registrano una spesa pro-capite superiore alla media nazionale, mentre quelle del Mezzogiorno e/o in Piano di rientro si collocano al di sotto. «Questo dato – spiega Cartabellotta – conferma sia che il livello di reddito è una determinante fondamentale della spesa out-of pocket, sia che il valore della spesa delle famiglie, al netto del sommerso, non è un parametro affidabile per stimare le mancate tutele pubbliche, perché condizionato dalla capacità di spesa individuale».
Italia sopra la media dei Paesi Ue per spesa out-of-pocket. La spesa pro capite che gli italiani affrontano direttamente di tasca propria sanitaria risulta di 1.115 dollari, superiore sia alla media Ocse sia a quella dei Paesi Ue (entrambe a 906 dollari). Tra gli stati membri dell’Ue, solo Portogallo, Belgio, Austria e Lituania spendono più dell’Italia. Tuttavia, l’Italia resta nettamente indietro rispetto agli altri Paesi europei per quanto riguarda la spesa intermediata, con un valore pro-capite di 143 dollari, meno della metà della media Ocse (299 dollari) e ben al di sotto della media dei Paesi Ue (262 dollari).
Per cosa spendono le famiglie. Le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie includono l’assistenza per cura (comprese le prestazioni odontoiatriche) e riabilitazione (18,1 miliardi, 44,6% del totale). Seguono farmaci e apparecchi terapeutici (36,9%, pari a 15 miliardi) e l’assistenza a lungo termine, che assorbe il 10,9% della spesa complessiva, per un totale di 4,4 miliardi. «Tuttavia – precisa il presidente della Fondazione Gimbe– le stime effettuate nel Report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate».
Rinuncia alle cure. La spesa sanitaria delle famiglie è sempre più “arginata” da fenomeni che incidono negativamente sulla salute delle persone: limitazione delle spese sanitarie, che nel 2023 ha coinvolto il 15,7% delle famiglie, indisponibilità economica temporanea per far fronte alle spese mediche (5,1% delle famiglie nel 2023) e rinuncia alle cure. In particolare, nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno rinunciato a visite o esami diagnostici, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600 mila persone rispetto al 2022. Le differenze regionali sono marcate: nove Regioni superano la media nazionale (7,6%), con la Sardegna (13,7%) e il Lazio (10,5%) oltre il 10%. Al contrario, dodici Regioni si collocano sotto la media, con la Provincia autonoma di Bolzano e il Friuli Venezia Giulia che registrano il valore più basso (5,1%).
Ancora marginale la sanità integrativa. La spesa intermediata attraverso fondi sanitari, polizze individuali e altre forme di finanziamento collettivo ammonta a € 5,2 miliardi nel 2023, ovvero il 3% della spesa sanitaria totale e l’11,4% di quella privata. «Il ruolo integrativo dei fondi sanitari rispetto alle prestazioni incluse nei Lea – commenta Cartabellotta – è limitato da una normativa frammentata e incompleta e la spesa intermediata compensa solo in parte il carico economico sulle famiglie».
Il dibattito sull’entità della spesa out-of-pocket da intermediare «si basa su un quadro distorto» sostiene Cartabellotta, innantitutto perchè la spesa delle famiglie «è da un lato “arginata” dalle difficoltà economiche, che lasciano insoddisfatti reali bisogni di salute, dall’altro è “gonfiata” dalla spesa a basso valore, indotta da inappropriatezza, consumismo sanitario e capacità di spesa individuale».
Per ridurre la spesa sostenuta direttamente dalle famiglie servirebbe «un approccio di sistema articolato in tre azioni»: un progressivo e consistente rilancio del finanziamento pubblico da destinare in primis al personale; una maggiore sensibilizzazione dei cittadini per contrastare gli eccessi di medicalizzazione; una formazione mirata dei medici per limitare le prescrizioni inappropriate.
Considerato inoltre che la richiesta di rimborsi da parte dei fondi sanitari cresce proporzionalmente all’incapacità del Ssn di garantire prestazioni in tempi adeguati, avverte infine Cartabellotta, si mette a repentaglio la stessa sanità integrativa, che può essere sostenibile solo se integrata «in un sistema pubblico efficace. Altrimenti rischia di crollare insieme al Ssn, spianando definitivamente la strada alla vera privatizzazione della sanità, che alimenta iniquità e diseguaglianze e tradisce per sempre l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del Ssn».
Fornire un supporto educativo alle famiglie dei diabetici, con particolare riferimento a quelle con bambini con diabete, attraverso una vera e propria bacheca di “opuscoli” in formato video, suddivisi per argomenti, in grado di comprendere tutte le fasi e le tematiche prioritarie. È questo il progetto “Bacheca del Sapere”, promosso da Fand – Associazione italiana diabetici, e avviato in questi giorni.
L’iniziativa si articola in nove video, realizzati grazie al contributo di esperti e specialisti, e rivolti ai genitori e alle famiglie: nove temi affrontati con lezioni video realizzate per rispondere ai dubbi che molto spesso incontrano le famiglie di bambini/ragazzi con diabete. I contenuti sono realizzati con la diretta partecipazione di professionisti e specialisti delle varie tematiche, medici diabetologi, psicologi, medici dello sport. Questi gli argomenti dei singoli video: L'Esordio, Il diabete Tipo 1, Il controllo della glicemia, Alimentazione & Diabete, Il ritorno a scuola, Sport e Diabete, Diabete & Pizza, Diabete e cambiamenti ormonali, Diabete & Adolescenza.
«L’obiettivo di questo progetto – spiega il presidente Fand, Emilio Augusto Benini - è fornire un supporto educativo attraverso un insieme completo di nozioni, suddivise per argomenti, che gli interessati, siano essi i genitori o chiunque abbia un interesse diretto ad approfondire le proprie conoscenze, possono facilmente consultare. L’idea – precisa - è quella di realizzare, appunto, una sorta di bacheca, ricca di opuscoli dedicati alle varie tematiche con il contributo qualificato degli esperti».
Per lungo tempo e ancora oggi la menopausa è considerata un tabù, un aspetto sul quale per vergogna e imbarazzo bisogna mantenere il riserbo.
Oggi è possibile vivere meglio questa fase della vita femminile, ma è necessario colmare il bisogno di conoscenza tra le donne e la popolazione sulle possibili soluzioni e sensibilizzare i medici affinché non sottovalutino i sintomi e forniscano supporto alle donne.
Tre le chiavi per scardinare l’attuale vissuto negativo delle donne in menopausa: sensibilizzazione sui sintomi, proattività, alleanza e dialogo con il ginecologo. Sono proprio questi gli obiettivi di “Vampate in menopausa”, campagna promossa da Astellas Pharma con il patrocinio di Fondazione Onda, Società italiana ginecologia terza età (Sigite) e Società italiana menopausa (Sim), presentata mercoledì 18 febbraio a Milano.
Per tutta la settimana, fino a domenica 23 febbraio, i cittadini e le cittadine milanesi possono recarsi all’edicola di Corso Garibaldi 83 per ricevere materiali informativi sul tema. Inoltre, martedì 18, sabato 22 e domenica 23 febbraio gli uomini che si recheranno all’edicola potranno provare MenoVestTM, il primo e unico “simulatore di menopausa” per sperimentare la sensazione provata da una donna con le vampate di calore.
Lo scenario disegnato dalla recente indagine “La menopausa nella vita delle donne” promossa da Fondazione Onda a cura di Elma Research, mostra che l’informazione sulla menopausa c’è (il 56% delle donne ritiene di essere sufficientemente informata), ma rimane superficiale e veicolata dall’esperienza di amiche, familiari (74%), siti internet (62%) e dialogo con il ginecologo (65%) o con il medico di famiglia (39%). Tuttavia, le donne desidererebbero un appoggio e un coinvolgimento maggiori da parte dei medici e del farmacista. In ogni caso, la maggior parte delle donne vive la menopausa come portatrice di grandi cambiamenti, in primo luogo fisici: una donna su due accusa vampate di calore e sudorazioni notturne che nel 54% dei casi sono di grado moderato-severo e si accompagnano ad altri sintomi, tra cui disturbi del sonno, aumento di peso, stanchezza. Nonostante l’impatto negativo che le vampate di calore e le sudorazioni eccessive, i cosiddetti “sintomi vasomotori”, hanno sulla qualità di vita, una donna su due non cerca soluzioni né assume alcuna terapia per prevenire o far fronte a questa sintomatologia (solo il 55% delle donne con sintomi severi ricorre a qualche soluzione e solo il 40% tra quelle con sintomi moderati) che può perdurare per anni pregiudicando la salute generale della donna.
«Il vissuto che emerge dall’indagine è un senso di solitudine che viene percepito dalla donna insieme a una scarsa propensione ad assumere terapie per fronteggiare la sintomatologia» commenta Nicoletta Orthmann, direttrice medico-scientifica di Fondazione Onda.
«La mancanza degli ormoni che si verifica con la menopausa comporta conseguenze di ordine fisico – spiega Raffaela Di Pace, dottoressa di ricerca in Fisiopatologia della menopausa, Humanitas Pio X Milano – e si accompagna alla comparsa di sintomi da privazione, di cui i più frequenti sono le vampate di calore sperimentate dalla maggior parte delle donne. Oggi sappiamo che questa sintomatologia ha una spiegazione: nel cervello sono presenti specifici recettori, localizzati nel centro della termoregolazione situato nell’ipotalamo, che sono sensibili all’azione degli estrogeni».
La campagna “Vampate di calore in menopausa” promuove una serie di attività concentrate sui canali social e digital e attraverso il sito web di riferimento www.vampateinmenopausa.it, dove sono disponibili tutte le informazioni e i materiali.
«È importante riconoscere che esiste ancora uno stigma correlato alla menopausa, che rimane avvolta dal silenzio, in tutto il mondo» osserva infine Fulvio Berardo, amministratore delegato di Astellas Pharma Italia. «Per questo – conclude - sentiamo la responsabilità di collaborare attivamente con la comunità scientifica, le Istituzioni» e le Associazioni.
Ogni anno, in Italia, quasi 3.500 persone ricevono la diagnosi di colangiocarcinoma in fase avanzata, il 70% del totale dei casi (4.971 stimati nel 2024).
Si tratta di una forma di neoplasia particolarmente aggressiva, ma grazie alla ricerca sono stati compiuti progressi importanti, rappresentati dall’immunoterapia e dalle terapie mirate, che permettono di controllare la malattia con una buona qualità di vita.
Resta però ancora troppo bassa la percentuale di diagnosi in fase precoce, quando vi sono reali possibilità di guarigione. Per questo l'Associazione pazienti italiani colangiocarcinoma (Apic) promuove un progetto di informazione per aumentare la conoscenza della malattia, con un ciclo di incontri indirizzati ai medici di famiglia, il primo dei quali a Firenze il 22 febbraio. Non solo. L’Associazione ha istituito un fondo per erogare un contributo di 60 euro a ogni cittadino che, su indicazione del medico di famiglia, debba eseguire un’ecografia addominale. Inoltre, Apic sostiene la ricerca con il finanziamento di un bando di 60 mila euro, riservato a medici, biologi e farmacologi under 40, e un premio finale di 15 mila euro.
Le principali iniziative di Apic sono state presentate lunedì 18 febbraio in una conferenza stampa virtuale, a pochi giorni dalla Giornata mondiale sulla patologia (World Cholangiocarcinoma Day) del 20 febbraio.
«È importante migliorare il livello di conoscenza di questa neoplasia rara, ma molto aggressiva» sostiene Paolo Leonardi, presidente Apic. Il ciclo di incontri saranno sia in presenza sia online e vedranno la partecipazione di oncologi e chirurghi esperti con l'obiettivo di sensibilizzare i medici di famiglia. «Talvolta basta una semplice alterazione di un esame di laboratorio – sottolinea Leonardi - a indurre un sospetto da approfondire. Possono trascorrere sei mesi dalla comparsa dei primi sintomi alla diagnosi certa di colangiocarcinoma. È fondamentale abbreviare i tempi, per salvare più vite».
Come ricorda Lorenza Rimassa, professoressa di Oncologia medica all’Humanitas University e Humanitas Research Hospital di Rozzano, Milano, il colangiocarcinoma è un tumore raro, rappresenta il 3% dei tumori del tratto gastroenterico e ha origine dai dotti biliari, i canali che trasportano la bile dal fegato all’intestino; si distingue in base alla sede d’insorgenza in intraepatico, se si sviluppa all’interno del fegato, ed extraepatico, a sua volta suddiviso in peri-ilare e distale, se nasce dalle vie biliari extraepatiche.
L’età può influenzare significativamente il microambiente tumorale e la risposta ai trattamenti nei modelli preclinici di uno dei tipi più aggressivi di tumore al seno, il triplo negativo, confermando che i risultati scientifici sarebbero migliori se gli studi fossero diversificati per fasce di età.
A questa conclusione è arrivato un nuovo studio dell'Istituto europeo di oncologia e dell'Università Medica di Vienna pubblicato su Cell Death Differentiation.
I ricercatori hanno analizzato l’efficacia di una terapia basata sulla combinazione di immunoterapia e farmaci che attivano il sistema immunitario, attualmente in studio clinico in IEO e in altri tre Centri italiani (studio Azalea).
I risultati hanno mostrato che la terapia funziona in modo simile in modelli di età diverse, ma con significative differenze biologiche nel microambiente tumorale, vale a dire tutte quelle strutture organiche (tessuti, vasi sanguigni etc.) che circondano il tumore e che possono influenzarne la crescita.
Lo studio, commentano Francesco Bertolini, direttore della Divisione di Laboratorio di ematoncologia dell'Ieo, e Iros Barozzi, direttore del Laboratorio di Genomica del cancro e professore all’Università Medica di Vienna, coordinatori dello studio, «suggerisce l’importanza di considerare l’età come criterio fondamentale della ricerca preclinica per nuove terapie anticancro. I risultati indicano infatti che i modelli preclinici basati esclusivamente su modelli giovani, come avviene oggi, potrebbero non rappresentare fedelmente la realtà dei pazienti adulti. Sappiamo del resto che l’incidenza dei tumori cresce con l’aumentare dell’età e il conseguente modificarsi del nostro corpo e delle sue funzionalità. Ipotizziamo quindi da tempo che gli studi preclinici debbano tener conto dell’età. Questo studio offre una prima dimostrazione scientifica – sottolineano - e il nostro auspicio è che ne seguano molti altri. Considerare l’età nei modelli di ricerca potrebbe infatti migliorare la previsione dell’efficacia dei trattamenti e lo sviluppo di terapie più mirate per i pazienti oncologici, anche e soprattutto se colpiti dalle forme più aggressive e meno responsive ai trattamenti“».
Dare voce e visibilità alle persone che ogni giorno combattono contro il dolore e contro i pregiudizi della società rivolgendosi alle fasce d’età più giovani. È questo l'obiettivo del progetto di sensibilizzazione promosso da Pfizer Italia, nel cui ambito gli studenti del terzo anno del corso di “Comunicazione d’impresa” della facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Bologna hanno presentato più di 40 progetti sull’emicrania, quattro dei quali selezionati e promossi attraverso la piattaforma Comm To Action, gruppo di lavoro di studenti e neolaureati che mettono in pratica attività di comunicazione e relazioni pubbliche.
«La disinformazione - commenta Alessandra Sorrentino, presidente dell’Associazione pazienti Al. Ce. - Alleanza Cefalalgici - è un grande problema nell'ambito della nostra patologia: lo stigma, oltre alle informazioni non corrette, sono alla base della non accettazione della malattia, sia da parte di chi non conosce l'emicrania, ma anche da parte dei pazienti stessi. Grazie alla buona comunicazione, fatta di empatia, ma allo stesso tempo anche della giusta dose di ironia, possiamo agire concretamente affinché si possa cambiare lo sguardo su una malattia ancora così tanto sottovalutata». L’emicrania è una malattia neurologica cronica che ha un altissimo costo umano, sociale ed economico. Tuttavia, resta una condizione sottovalutata, spesso percepita come temporanea. La mancanza di sensibilizzazione tra i giovani non è solo un problema di percezione, ma anche di informazione: molti non riconoscono i sintomi o trascurano l’importanza di un intervento medico, vivendo l’emicrania in maniera isolante e frustrante.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’emicrania rappresenta la terza patologia più frequente e la seconda più disabilitante; colpisce circa il 12% degli adulti in tutto il mondo con una prevalenza tre volte maggiore nelle donne. In particolare, in Italia, ne soffrono sei milioni di persone, quattro milioni delle quali sono donne.
Da ottobre 2024 a gennaio 2025 sono state sviluppate quattro campagne delle studentesse della facoltà di Scienze della Comunicazione di Bologna e pubblicate sui canali digitali di Comm To Action dal primo ottobre 2024: “Non perderci la testa!” è stata realizzata da Claudia Scialpi, Cristabel Volpe e Giada Pietrarossi; “Speak Up Emicrania!” è stata realizzata da Michela Giampieri, Isabella Gori e Giada Sorrentino; “Emicrania – Impariamo e vedere il dolore” è stata realizzata da Vittoria Castellani; “Breaking the Silence: Comprendere l’Emicrania”, è stata realizzata da Giulia Cattin.
Nasce la prima “Rete europea di competenza sulle risorse mediche ad alta tecnologia” (European Network of Expertise on Hi-tech medical resources) contro il cancro. L’obiettivo è rimuovere gli ostacoli nell’accesso all’innovazione in oncologia in Europa, eliminare le differenze territoriali e garantire l’equità nell’accesso alle cure contro i tumori. Sono sette i settori su cui si focalizza il nuovo Network europeo: medicina nucleare, radiomica, radioterapie innovative, tecniche chirurgiche innovative, metodi fisici di ablazione, terapie cellulari avanzate, sperimentazione ex vivo di farmaci. Il Centro nazionale di adroterapia oncologica (Cnao) di Pavia è stato scelto, insieme al Centre Léon Bérard di Lione, per guidare l’area relativa alle radioterapie innovative.
«Il Network europeo sulle risorse mediche hi-tech è un’opportunità unica – sostiene Gianluca Vago, presidente del Cnao e direttore del Dipartimento di Oncologia e onco-ematologia dell’Università di Milano - per evidenziare e rimuovere le discrepanze e gli ostacoli nell’accesso all’innovazione tra gli Stati membri, proponendo soluzioni concrete. La Rete è guidata da Unicancer, che riunisce i Comprehensive Cancer Center francesi – precisa - e co-diretta dalla Regione Zealand, isola che comprende il distretto sanitario della capitale della Danimarca. Finora, 22 Stati membri si sono impegnati a contribuire alla Rete, che include 67 organizzazioni in tutta Europa e quasi 200 esperti. Siamo orgogliosi che Cnao ricopra il ruolo di leader dell’area delle radioterapie innovative».
A fronte dei 2 milioni e mezzo di cittadini che nel 2010 vivevano in Italia con una pregressa diagnosi di tumore, si è passati a circa 3,6 milioni nel 2020, il 37% in più di quanto osservato solo dieci anni prima. In Europa, sono 23,7 milioni le persone a cui è stato diagnosticato un cancro, con un aumento del 41% tra il 2010 e il 2020 (da 16,8 a 23,7 milioni).
«La radioterapia rappresenta un pilastro fondamentale nella cura dei tumori, al fianco della chirurgia e delle terapie sistemiche» spiega Lisa Licitra, direttrice scientifica di Cnao. In Italia, circa il 60% dei pazienti oncologici necessita della radioterapia durante il percorso di cura. Strumenti innovativi e altamente specializzati, come l’adroterapia, consentono importanti progressi. «L’adroterapia – interviene Ester Orlandi, responsabile del Dipartimento clinico Cnao e ricercatrice al Dipartimento di Scienze clinico-chirurgiche, diagnostiche e pediatriche dell’Università di Pavia – è una forma di radioterapia per la cura di tumori spesso inoperabili o resistenti ai tradizionali trattamenti radioterapici».
La “Rete europea di competenza sulle risorse mediche ad alta tecnologia” si colloca all’interno della Joint Action (JA) dell’Unione europea sugli European Networks of Expertise (Reti europee di competenza – NoEs) coordinata dal team di Paolo Casali dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano.
La combinazione di più biomarcatori può permettere di individuare le persone a maggior rischio di sviluppare demenza tra quelle che soffrono di un disturbo cognitivo lieve, che sono quindi i candidati ideali per erogare precocemente i primi trattamenti che agiscono sui meccanismi biologici di sviluppo della malattia come quelli di recente approvati dalle Autorità per il Farmaco americane e di prossima approvazione da parte dell’agenzia europea. Lo dimostrano i primi risultati del progetto Interceptor, promosso e finanziato nel 2018 dal ministero della Salute e dall'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), presentati oggi durante un convegno organizzato dall’Osservatorio Demenze del Centro Nazionale Prevenzione delle Malattie e Promozione della Salute (CNaPPS) dell’Istituto Superiore di Sanità, dal Dipartimento Neuroscienze – Unità Clinica della Memoria del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e dal Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele.
Fermare la demenza sul nascere, prima che i suoi devastanti effetti sul cervello prendano forma e diventino irreversibili, è l’obiettivo a cui sta lavorando da anni la ricerca farmacologica. L’obiettivo non è stato ancora raggiunto, ma negli ultimi anni, alcuni farmaci hanno mostrato di essere in grado di arrestare o far regredire alcuni processi biologici alla base della demenza.
Per ottenere la loro massima efficacia è necessario che il trattamento venga iniziato prima di giungere alla malattia conclamata, in quella fase che viene definita disturbo cognitivo lieve. Si tratta di un disturbo caratterizzato da leggeri deficit di memoria e che può essere accompagnato da disturbi ad altre funzioni cognitive, come il linguaggio, le abilità visuo-spaziali, le funzioni esecutive, le capacità di ragionamento.
Non è però ancora demenza. E non è detto che un paziente che soffra di disturbo cognitivo lieve progredisca verso la fase avanzata della malattia: anzi, solo il 30-40% lo avviene.
Identificare le persone con disturbo cognitivo lieve destinati alla progressione di malattia è dunque fondamentale per identificare i pazienti che possono beneficiare dei nuovi trattamenti.
Il progetto Interceptor è nato a questo scopo.
Lo studio è nato sul finire del 2016 in risposta alla possibile approvazione da parte della Food and Drug Administration del primo farmaco contro l'amiloide, il cui accumulo nel cervello viene ad oggi considerato una delle principali cause della demenza di Alzheimer. Promotore e coordinatore è stato il Paolo Maria Rossini, all’epoca il direttore dell’Unità Operativa di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e attualmente responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele- Roma.
La ricerca ha seguito 351 partecipanti con declino cognitivo lieve in 19 centri clinici diffusi in tutto il territorio nazionale. I pazienti sono stati sottoposti a una serie di esami per rilevare numerosi biomarcatori. Al termine dello studio i ricercatori hanno identificato otto marker utilizzabili per prevedere quali pazienti hanno maggiori probabilità di progredire verso la demenza. In particolare, il modello attraverso l’utilizzo combinato degli otto biomarker, ha mostrato una capacità dell’81% di distinguere le delle persone con disturbo cognitivo lieve che convertiranno a demenza da quelle che resteranno stabili.
«Ulteriori risultati, vista la vastità delle informazioni raccolte, saranno certamente disponibili nei prossimi mesi e anni, inclusi quelli ottenibili attraverso algoritmi di Intelligenza Artificiale», spiega Rossini. «Da queste analisi sono emersi importanti rilievi scientifici ed organizzativi per la lotta alle demenze, in particolare per una diagnosi precoce ed anche per una prevenzione efficace».
«Il Progetto Interceptor rappresenta un passo avanti fondamentale verso l’individuazione di biomarcatori in grado di predire chi, affetto da disturbi cognitivi lievi, avrà in seguito maggiori possibilità di sviluppare l’Alzheimer. Consentendo così un utilizzo più mirato di terapie altamente costose, che rischierebbero altrimenti di mettere in seria crisi l’intero sistema di assistenza sanitaria», ha affermato il presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Robert Nisticò.
Il presidente dell’Iss Rocco Bellantone ha sottolineato «il ruolo estremamente importante dell’Istituto in questo progetto di grande rilevanza per la sanità pubblica che si è concretizzato nell’elaborazione di un modello predittivo per il calcolo del rischio a 3 anni di conversione dal MCI a demenza di Alzheimer».
«Le malattie neurodegenerative rappresentano una delle maggiori sfide del nostro tempo», ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci. «In Italia oltre un milione di persone sono affette da malattie neurodegenerative, quasi 900 mila presentano deterioramento cognitivo lieve, condizione che può evolvere in demenza. Consideriamo poi i 4 milioni di caregiver impegnati nell'assistenza di tutte queste persone. Calcoliamo, quindi, che in Italia le persone coinvolte, che hanno a che fare con le demenze, sono circa sei milioni», ha concluso il ministro.