Un nuovo studio real world (GAINER) ha mostrato che la formulazione di compresse orodispersibili di rimegepant è un trattamento acuto efficace e ben tollerato per l'emicrania in una popolazione italiana.
Lo studio ha arruolato 103 partecipanti, tra cui quelli con emicrania episodica (75,7%) ed emicrania cronica (24,3%), molti dei quali avevano precedentemente fallito molteplici trattamenti preventivi per l'emicrania. L'endpoint primario dello studio era la libertà dal dolore a due ore dalla somministrazione ed è stata raggiunta dal 44,7% dei partecipanti. La libertà dal dolore è stata più alta nel gruppo di emicrania episodica (50%) rispetto al gruppo di emicrania cronica (28%).
Sono stati osservati anche altri esiti positivi, con il 70,9% dei partecipanti che ha ottenuto sollievo dal dolore a tre ore, il 56,3% che ha ottenuto la libertà dal sintomo più fastidioso dell'emicrania e il 64,1% che non ha avuto dolore a 24 ore senza bisogno di farmaco di salvataggio.
Eventi avversi sono stati segnalati nel 15,5% dei casi, per lo più di natura lieve, tra cui affaticamento, sintomi gastrointestinali, sonnolenza e difficoltà cognitive transitorie.
Secondo gli autori dello studio i risultati suggeriscono che il rimegepant è un trattamento acuto dell'emicrania «efficace e ben tollerato in un contesto del mondo reale, anche in pazienti con emicrania cronica e una storia di fallimenti di molteplici trattamenti preventivi. I risultati si espandono sui dati esistenti dei trial clinici randomizzati – aggiungono - fornendo informazioni sull'utilizzo del rimegepant in una popolazione di pazienti più diversificata, rappresentativa della pratica clinica».
Meno che in passato. Ma di parto e gravidanza si muore ancora. Nel 2023 sono state 260 mila le donne decedute dando alla luce un bambino, nelle settimane immediatamente precedenti o in quelle successive. È vero che sono il 40% in meno rispetto all’inizio del millennio, ma sono ancora troppe. Soprattutto preoccupano due elementi: innanzitutto, dopo rapidi miglioramenti tra il 2000 e il 2015, dal 2016 si è assistito a un brusco rallentamento nei progressi; inoltre, i recenti tagli ai finanziamenti ai programmi di sostegno alla salute globale rischiano di arrestare gli avanzamenti nella lotta alla mortalità materna o addirittura di farci tornare indietro. Sono questi i dati salienti del rapporto ‘Trends in maternal mortality’, realizzato da Unicef, Oms, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa), Banca Mondiale e NFPA, World Bank Group e dal Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu pubblicato oggi in occasione della Giornata Mondiale della Salute dedicata quest’anno proprio alla salute materna e infantile.
«Sebbene questo rapporto mostri barlumi di speranza, i dati evidenziano anche quanto sia ancora pericolosa la gravidanza in gran parte del mondo, nonostante esistano soluzioni per prevenire e curare le complicazioni che causano la maggior parte delle morti materne», ha dichiarato il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. «Oltre a garantire l'accesso a un'assistenza di qualità per la maternità, sarà fondamentale rafforzare i diritti riproduttivi e sanitari delle donne e delle ragazze - fattori che rafforzano le loro prospettive di ottenere risultati sani durante la gravidanza e oltre», ha aggiunto.
Il rapporto conferma tendenze di lungo periodo: se per una parte del mondo la mortalità materna è ormai un fenomeno limitato a casi quasi isolati, in altre resta una dei principali problemi di sanità pubblica. In Europa, per esempio, nel 2023 sono morte 7 donne ogni 100 mila bambini nati, mentre in alcune aree dell’Africa - come quella Occidentale - si raggiungono i 691 decessi ogni 100 mila bimbi. Non solo, se in Europa, la mortalità per complicanze della gravidanza e del parto rappresenta lo 0,3% della mortalità femminile in età fertile, in Africa centrale, 1 donna su 5 muore per questa ragione.
La situazione è particolarmente grave nei Paesi in cui sono in corso situazioni di emergenza umanitaria, come i conflitti. È qui che si concentrano circa due terzi delle morti materne a livello globale. Per le donne che vivono in questi contesti, i rischi sono impressionanti: 1 ragazza di 15 anni su 51 rischia di morire per cause legate alla maternità nel corso della sua vita, rispetto a 1 su 593 in Paesi più stabili. I rischi maggiori si registrano in Ciad e nella Repubblica Centrafricana (1 su 24), seguiti da Nigeria (1 su 25), Somalia (1 su 30) e Afghanistan (1 su 40).
«Quando una madre muore durante la gravidanza o il parto, anche la vita del suo bambino è a rischio. Troppo spesso, entrambi muoiono per cause che sappiamo come prevenire», ha dichiarato la direttrice generale dell'Unicef Catherine Russell. A preoccupare, in questo momento sono soprattutto i tagli ai finanziamenti globali per i servizi sanitari: «stanno mettendo a rischio un numero sempre maggiore di donne in gravidanza, soprattutto nei contesti più fragili, limitando il loro accesso alle cure essenziali durante la gravidanza e al sostegno di cui hanno bisogno al momento del parto», ha aggiunto Russell. «Il mondo deve investire con urgenza in ostetriche, infermiere e operatori sanitari di comunità per garantire che ogni madre e ogni bambino abbiano la possibilità di sopravvivere e prosperare», ha concluso.
Prevenire la sclerosi multipla, vaccinando contro il virus di Epstein Barr. Non, tuttavia, in maniera indifferenziata, ma mirando solo alle forme de virus che favoriscono la comparsa della malattia autoimmune. È la strategia messa a punto da ricercatori del Centro Sclerosi Multipla dell’Università Sapienza – Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea di Roma, illustrata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).
Nel 2022 uno studio pubblicato sulla rivista Science ha scoperto che l’infezione con il virus di Epstein Barr, responsabile della mononucleosi, potrebbe rappresentare l’innesco che, nel corso della vita, dà poi il via alla comparsa della sclerosi multipla. Da quel momento, l’idea di prevenire la comparsa della malattia agendo, grazie a un vaccino, alla radice del problema ha preso piede. C’è però un problema: circa il 90% delle persone entra in contatto con il virus di Epstein Barr, il più delle volte senza particolari conseguenze. Pensare di vaccinare tutta la popolazione contro il virus potrebbe non essere semplice.
Una soluzione potrebbe essere fornita dal nuovo studio che mostra come soltanto alcuni sottotipi di virus, interagendo con specifiche peculiarità genetiche possedute dalla persona, aumentano il rischio di provocare la sclerosi multipla.
«Questo risultato apre la strada alla possibilità di una vaccinazione selettiva, limitata a coloro che presentano le varianti del virus più ‘a rischio’, riducendo al minimo le resistenze alla vaccinazione e garantendo, al contempo, una protezione a chi ne ha più bisogno», commenta Marco Salvetti del Centro Sclerosi Multipla del Sant’Andrea-Sapienza.
«La ricerca mostra anche come il virus sia associato alla sclerosi multipla in modo specifico, non riscontrabile in molte delle altre malattie autoimmunitarie esaminate», dice Rosella Mechelli, dell’Università Telematica San Raffaele di Roma.
«Si tratta di risultati molto importanti e innovativi, che ci forniscono una chiave per spiegare perché un'infezione diffusa nel 90-95% della popolazione mondiale possa favorire l'esordio della sclerosi multipla solo in una piccola porzione di individui», dichiara Paola Zaratin direttore della Ricerca Scientifica di Aism-Fism.
Morire di parto nel 2025. Ancora 260 mila donne perdono la vita ogni anno nel mondo Decessi scesi del 40% dall’inizio del millennio, ma preoccupano due elementi: dal 2016 i progressi stanno rallentando e i tagli agli aiuti internazionali rischiano di vanificare i passi avanti Leggi tutto Sclerosi multipla, si lavora per prevenirla con un vaccino su misura Soltanto alcune varianti del virus sono in grado di aumentare il rischio di sviluppare la malattia. Immunizzare contro di loro potrebbe impedire di ammalarsi Leggi tutto Le mille Italie dell’assistenza domiciliare integrata Leggi tutto Aumentano le persone assistite, ma restano molte criticità Istat. Italia: Calano popolazione, nuovi nati e decessi. Cresce la speranza di vita Leggi tutto Nel 2024 le nascite sono state 370 mila, diminuite sul 2023 del 2,6%. Con 1,18 figli per donna viene superato il minimo di 1,19 del 1995, anno nel quale nacquero 526 mila bambini. 651 mila i decessi Altre notizie Egualia: se non verrà confermata l'esenzione dei farmaci dai dazi, sarà «un boccone amaro» per i pazienti USA» Tumore al seno, un italiano su due non è consapevole dell’importanza dell’aderenza terapeutica. “The Life Button” un bottone per non “perdere il filo” delle cure Il cambiamento climatico causa epidemia di malattie respiratorie. Manifesto degli allergologi pediatri Alcol. Consumo moderato o astinenza completa: uno studio per valutare gli effetti Pubblicità Progresso e Servier Italia insieme per promuovere la salute del cuore Virus respiratorio sinciziale, via libera Ue a vaccino anche tra i 18 e i 59 anni Farmindustria, «Europa crei un ecosistema davvero pro-innovation» Sindrome del bambino scosso: in un caso su quattro è letale Save the Children, per affrontare la denatalità servono politiche strutturali Terapie combinate: dal labirinto normativo a un percorso chiaro per i pazienti
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Gli Usa importano il 70% dei principi attivi in volumi dal resto del mondo e per circa 700 molecole l'Europa è l'unico fornitore.
Due cifre che spiegano perché, spiega Stefano Collatina, presidente di Egualia, l'Associazione delle aziende di medicinali fuori brevetto, «i dazi sui prodotti farmaceutici danneggerebbero sia l’industria statunitense che quella europea, ma soprattutto danneggerebbero i pazienti: l’esenzione per questi prodotti era stata concordata dalle economie avanzate aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) proprio per garantire il massimo accesso alle cure essenziali a livello planetario.
Se non si conferma l’esenzione per i prodotti farmaceutici, avverte Egualia, gli eventuali dazi imposti anche su questi beni all’Europa finirebbero per aumentare la dipendenza degli USA dalla Cina per i medicinali essenziali. Riportare le produzioni da una regione del globo a un’altra richiede molti anni e non sempre è praticabile. «Peraltro – aggiunge Collatina - non possiamo dimenticare il ruolo della produzione farmaceutica italiana in conto terzi: insieme al Governo italiano e alle Istituzioni europee dobbiamo fare il possibile per tutelare questa specificità italiana dalla guerra commerciale che si sta scatenando. Non vorremmo che indirettamente i dazi generalizzati questo settore cruciale per la nostra industria».
Che gli Stati Uniti vogliano rafforzare la propria manifattura farmaceutica e le proprie le catene di fornitura «è comprensibile» prosegue il presidente di Egualia. «Ed è lo stesso obiettivo che si è posta l’UE con l’avvio della riforma farmaceutica, del Critical Medicines Act e il Biotech Act – sottolinea - ma questo andrà a vantaggio e non a danno del diritto dei pazienti ad accedere ai medicinali di cui necessitano. L’obiettivo dell’Europa e del Governo italiano – conclude - deve essere quello di puntare sul mantenimento e sulla crescita di competitività e capacità manifatturiera mantenendo al contempo la massima apertura al commercio e alla cooperazione internazionale».
In Italia il tumore al seno è la neoplasia più frequente nelle donne, con circa 54 mila nuove diagnosi ogni anno, di cui circa il 70 per cento di tipo HR+/HER2-. La sopravvivenza a cinque anni è dell’88 per cento, ma variabile a seconda del tipo di tumore e dello stadio della malattia alla diagnosi.
È una neoplasia sia molto conosciuta e, secondo i dati di un’indagine condotta da Adnkronos in collaborazione con EMG Different, gli italiani sono consapevoli dell’importanza di seguire le cure prescritte dopo un intervento al seno. Solo uno su due, però, sa che farlo correttamente contribuisce a ridurre recidive e mortalità.
Per accendere i riflettori sul tema dell'aderenza alla terapia, Lilly, con il patrocinio di Europa Donna Italia, Fondazione IncontraDonna e Salute Donna, lancia la campagna di awareness ed empowerment rivolta a pazienti e caregiver "The Life Button - il bottone che ti lega alla vita".
Simbolo della Campagna, presentata venerdì 4 aprile, è un bottone rosa e rotondo, che diventa il simbolo dell’aderenza terapeutica, un richiamo concreto al valore del restare legati al proprio percorso di cura, passo dopo passo. Non è un semplice oggetto: è un promemoria, un segno che parla di costanza, motivazione e coraggio. E, nella Campagna, racconta che l’aderenza non è un dovere individuale, ma una responsabilità condivisa. Medici, caregiver, amici, familiari: tutti possono aiutare una donna a “non perdere il filo”, a non mollare, a credere nel valore del trattamento giorno dopo giorno.
Eventi avversi, fattori psicologici e una mancata conoscenza sono alla base del fatto che dal 30% al 50% delle pazienti interrompe la terapia prima del tempo.
«Negli anni tanto è stato fatto per la prevenzione di questo tumore – ricorda però Grazia Arpino, professoressa all’ Università Federico II di Napoli – oggi la maggior parte delle donne guarisce in modo definitivo e abbiamo assistito a una riduzione della mortalità del 6 per cento. Adottare stili di vita sani aumenta la possibilità di vivere più a lungo e in salute, ma sicuramente l’aderenza terapeutica ha un ruolo fondamentale per prevenire e per diminuire al minimo il rischio di recidive».
Sempre dall’indagine condotta da Adnkronos in collaborazione con EMG Different emerge anche che solo il 23 per cento degli intervistati si sente davvero informato sul tema dell’aderenza terapeutica e nove italiani su dieci vorrebbero una comunicazione più ampia e inclusiva al riguardo.
«La principale paura legata a una malattia come quella del tumore al seno – conferma Alessandra Fabi, direttrice dell'Unità Medicina di precisione in senologia al Policlinico Gemelli di Roma - è senza dubbio quella di un ritorno del tumore e di non accorgersene in tempo. Seguire le indicazioni del medico è necessario affinché la terapia possa dare il massimo del suo beneficio e avere il suo effetto terapeutico, ma questo non è sempre facile, a causa dei forti effetti collaterali, della stanchezza, scoraggiamento, che troppo spesso inducono a voler interrompere le cure prima del tempo. Noi come medici dobbiamo impegnarci per evitare che questo accada – avverte - e instaurare un rapporto di fiducia tra medico e paziente, che sia fonte di un supporto, sostegno e confronto costante».
«Pazienti e caregiver che ogni giorno affrontano questa patologia – interviene Federico Villa, Associate Vice President Corporate Affairs & Patient Access, Italy Hub, Lilly - sono al centro di quello che facciamo. Ecco perchè abbiamo fortemente voluto la campagna "The Life Button", per provare a modo nostro a soddisfare un bisogno informativo ma anche per dare un segnale di vicinanza alle pazienti e a chi sta al loro fianco, fornendo gli strumenti necessari per affrontare il percorso terapeutico con consapevolezza e un supporto emotivo ricordando loro l'importanza di aderire al trattamento».
È uno degli ambiti in cui il PNRR prevede interventi più decisi. E i primi risultati si vedono. Tuttavia, la strada per realizzare un’assistenza domiciliare integrata che risponda in maniera efficace al fabbisogno di una popolazione che cambia è ancora lunga. È quanto emerge da un rapporto realizzato da Salutequità.
Prima le buone notizie. Nel 2023 la maggior parte delle Regioni ha raggiunto l’incremento di numero di anziani assistiti a casa previsto dal PNRR: due (Umbria e PA Trento) raddoppiato l’obiettivo; quattro invece non hanno raggiunto i propri obiettivi ovvero Sicilia, Campania, Sardegna, Calabria.
Sulla presa in carico, rispettivamente degli over 65 e over 75 risultano più prossimi all’obiettivo 2026: Molise (7,26% e 11,97%), Abruzzo (5,80% e 9,57%), Basilicata (4,98% e 8,51%), Toscana (4,70% e 7,55%) e Umbria (4,62% e 7,40%) che hanno fatto registrare la più alta percentuale di anziani assistiti in Adi. Quelle più distanti dall’obiettivo sono Calabria (1,67% e 2,87%), Sardegna (2,15% e 3,60%), Puglia (2,49% e 4,16%), Valle d’Aosta (3,23% e 5,02%) e Campania (3,25% e 5,64%).
A voler vedere il bicchiere mezzo vuoto, salta all’occhio l’insufficiente intensità di cura, cioè la quantità di assistenza, secondo il monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza del Ministero della Salute. In particolare, sulla base di un coefficiente di intensità assistenziale (Cia), che indica la frequenza con cui il paziente ha ricevuto cure domiciliari nel periodo di cura e i livelli 1, 2 e 3 sono riferiti alla bassa, media e alta complessità assistenziale, nel 2022, sei Regioni (Lombardia, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) si collocavano al di sotto della soglia minima per l’indicatore CIA 1; mentre erano 4 le Regioni sotto la soglia dell’indicatore CIA 2 (: PA Trento, Friuli Venezia Giulia, Calabria e Sardegna) e tre di CIA 3 (Valle d’Aosta, PA Bolzano e Calabria).
Non va meglio per quel che riguarda le ore di assistenza erogate a ciascun anziano over 65: si osserva una diminuzione media annua del 2,6% tra il 2018 e il 2023, passando da 18 a circa 15,8 ore. Si conferma l’eterogeneità tra le Regioni: la Calabria nel 2023 ha erogato in media oltre 56 ore a fronte di un numero di assistiti simile alla Basilicata, dove le ore si sono fermate a circa 38; anche tra Lombardia ed Emilia-Romagna, con una platea di over 65 simile, le ore di assistenza fornite sono state significativamente diverse, rispettivamente 10,9 e 15,0.
Anche il passaggio dall’ospedale alle cure a domicilio risulta insufficiente: nel 2023 solo l’1% delle dimissioni ordinarie e lo 0,3% di dimissioni protette hanno avuto attivazione di Adi.
Sullo sfondo il tema della carenza di personale. In particolare, preoccupa quella degli infermieri, che assicurano il 67% dell’Adi attuale. Ad esempio, quelli di famiglia e di comunità nel 2022 erano di appena 1.464 unità, pari ad appena il 7,6% del fabbisogno indicato nel DM 77 di 19.314. Inoltre, solo il 40% delle Asl ha un assistente sociale in organico, il 53,2% ha assunto almeno un operatore sociosanitario, con un valore che scende di oltre 10 punti nel Sud Italia (41,7%). E
«Il rischio che corriamo è fare bella figura con l’Europa e al contrario una pessima figura con i pazienti perché stiamo puntando su un modello prestazionale che bada più alla quantità delle persone che hanno un accesso sanitario a casa e non invece a una vera presa in carico al domicilio per chi ha bisogno di cure più intense e continuative. Proprio sugli aspetti qualitativi andrebbero assegnati obiettivi specifici alle Regioni», ha affermato il presidente di Salutequità Tonino Aceti. «Non possiamo perdere la grande occasione del PNRR per produrre vero valore nel servizio sanitario pubblico. Serve una capacità di monitoraggio e intervento centrale più incisiva per garantire un'attuazione uniforme e tempestiva dell'Intesa Stato Regioni su accreditamento ADI. È necessario superare la carenza di professionisti specializzati e assicurare l’uso della tecnologia, con l'adozione di strumenti digitali realmente accessibili. Infine, dobbiamo già da ora attrezzarci per garantire un incremento strutturale del Fondo Sanitario Nazionale che vada oltre le risorse temporanee del PNRR, per evitare il collasso delle cure domiciliari», ha concluso.
Il cambiamento del clima ha contribuito all’aumento del 30% le malattie allergiche e respiratorie in tutto il mondo negli ultimi due decenni. L’Organizzazione mondiale della sanità prevede che nel 2050 la metà dell’intera popolazione mondiale sarà colpita da allergie, in particolare i bambini. Sotto accusa l’aumento delle temperature globali, l’alterazione dei modelli meteorologici e l’intensificazione di eventi climatici estremi.
«Il riscaldamento globale causa un anticipo della stagione pollinica in molte regioni del mondo - osserva Miraglia del Giudice, presidente della Società italiana di allergologia e immunologia pediatrica (Siaip), dal XXVII Congresso nazionale della Società scientifica (a Milano dal 3 al 5 aprile) – che permette l’aumento della concentrazione di biossido di carbonio, sostanza in grado di stimolare una maggiore produzione di polline da parte, ad esempio, di betulle e ambrosia, responsabili di moltissime reazioni allergiche».
I bambini pagano il prezzo più alto: «L’aumento dell’ozono troposferico – aggiunge il Gianluigi Marseglia, Past president di Siaip – può aggravare rinite allergica, asma, dermatite atopica. Uno studio svedese sottolinea come l’esposizione a pollini nei primi mesi di vita o addirittura nella vita intrauterina sia associato a una maggiore probabilità di sensibilizzazione allergica e insorgenza di malattie respiratorie». Secondo i dati di Save the Children, in Italia l’8,4% dei piccoli tra i sei e i sette anni soffre di asma correlata all’inquinamento. L’ 81,4% vive in zone inquinate da polveri sottili, il 100% in otto regioni: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte Puglia, Trentino e Veneto. Questi inquinanti (in particolare PM2,5 e PM10) «penetrano profondamente nei tessuti respiratori – precisa Miraglia del Giudice – provocano una infiammazione cronica che influenza negativamente il sistema immunitario e aumenta così la suscettibilità alle allergie»
Secondo uno studio pubblicato su Allergy, i livelli di CO2 atmosferica sono aumentati del 48% rispetto all’epoca pre-industriale, stimolando una maggiore produzione di pollini. Le concentrazioni di polline di ambrosia, per esempio, sono quadruplicate negli ultimi trenta anni e si prevede che continueranno a crescere. Inoltre, la durata della stagione pollinica è aumentata mediamente di venti giorni, esponendo milioni di persone a sintomi allergici più gravi e prolungati. Si stima che nei bambini sotto i quattro anni vi sia stato un incremento a livello globale del 17% nei casi di asma correlati a questo fenomeno.
Oltre ai pollini, anche le muffe rappresentano una minaccia crescente: l’aumento delle precipitazioni e delle inondazioni favorisce la proliferazione delle spore di Alternaria e Cladosporium, note per il loro ruolo scatenante nelle allergie respiratorie e negli attacchi d’asma. La prevalenza di sensibilizzazione a questi allergeni è aumentata di circa il 30% negli ultimi due decenni. Le condizioni climatiche estreme stanno amplificando la diffusione delle spore fungine, note per il loro impatto sulle patologie respiratorie. Inoltre, la scarsa qualità dell’aria indoor, aggravata da edifici non adeguatamente ventilati e costruiti con materiali inquinanti, contribuisce alla diffusione della Sick Building Syndrome (SBS), un insieme di sintomi allergici e respiratori legati agli ambienti chiusi non salubri. Interventi per migliorare la qualità degli edifici sono essenziali per prevenire queste problematiche e ridurre l’impatto sulle malattie allergiche.
Per contrastare l’impatto crescente delle allergie legate al cambiamento climatico, sostiene la Società scientifica, «è essenziale un approccio globale» e sottolinea l’importanza di sviluppare programmi di ricerca congiunti a livello europeo e internazionale per monitorare e studiare gli effetti dei cambiamenti climatici sulle allergie.
Il Manifesto Siaip per contrastare le allergie legate al cambiamento climatico
Ecco, in sintesi, le otto regole d’oro stilate dagli specialisti.
1. Piani di controllo dell’inquinamento;
2. Rafforzamento delle strategie di sanità pubblica attraverso misure come il miglioramento della ventilazione e il controllo dell’umidità;
3. Eliminazione fonti inquinanti indoor, come il fumo di sigaretta e di sigarette elettroniche;
4. Progettazione urbana sostenibile, per esempio con aumento delle aree verdi, riduzione del’inquinamento atmosferico, miglioramento della qualità degli edifici;
5. Monitoraggio pollinico e creazione di sistemi di allerta precoce;
6 . Educazione e sensibilizzazione, informando la popolazione sui rischi e sulle strategie preventive;
7. Ricerca e innovazione per migliorare la gestione delle allergie ambientali;
8. Collaborazione internazionale.
Confrontare gli effetti dell’astensione totale e del consumo moderato di vino all’interno di un modello alimentare basato sulla dieta mediterranea. È questo l'obiettivo di un trial europeo randomizzato e controllato che coinvolgerà oltre 10 mila adulti di età compresa tra i 50 e i 75 anni, finanziato dallo European Research Council (ERC). Lo studio UNATI (University of Navarra Alumni Trialist Initiative) è stato presentato da Miguel A. Martínez-González, professore di Salute pubblica all’Università di Navarra, nel suo intervento al Congresso internazionale Lifestyle, Diet, Wine & Health, promosso da Wine Information Council (WiC), IRVAS (Istituto per la Ricerca sul Vino e la Salute) e Wine in Moderation (WiM), che si è svolto a Roma dal 26 al 28 marzo scorsi.
«Si tratta del primo trial al mondo progettato per valutare scientificamente se l’eliminazione totale dell’alcol sia davvero più salutare rispetto a un consumo moderato di vino, quando inserito in uno stile alimentare mediterraneo» spiega Martínez-González. «Un regime alimentare che, integrato con stili di vita sani e attività fisica ricorda - ha dimostrato di ridurre significativamente il rischio di infarto, ictus, diabete e mortalità generale».
Gli esperti riuniti al Congresso hanno ribadito che la salute non dipende da un singolo alimento o nutriente, ma deriva dall’insieme di scelte alimentari consapevoli, stili di vita attivi e fattori culturali. Hanno inoltre evidenziato come sia fondamentale adottare un approccio integrato e fondato su solide evidenze scientifiche, capace di sostenere una longevità sana, attiva e personalizzata.
«Questo Congresso – sostiene Attilio Giacosa, presidente di IRVAS – ha rappresentato un momento fondamentale per il dialogo tra scienza, cultura e salute pubblica. Siamo soddisfatti di aver contribuito a creare uno spazio di confronto rigoroso, in cui il vino è stato analizzato nel suo contesto naturale: quello della dieta mediterranea e di stili di vita equilibrati. La qualità degli interventi e la solidità delle evidenze presentate – aggiunge - confermano la necessità di continuare a investire nella ricerca nutrizionale, superando narrazioni polarizzate e non evidence-based in favore di una valutazione scientifica, integrata e personalizzata».
Scarsa aderenza alle cure e insuccesso terapeutico sono fenomeni ancora troppo diffusi: circa il 50% dei pazienti ipertesi, infatti, non segue la terapia così come prescritta dal medico e la metà la sospende dopo un anno dalla prima prescrizione con pesanti ripercussioni, oltre che per il paziente, anche per la collettività e per il Servizio sanitario nazionale.
Sensibilizzare la popolazione sull’importanza di seguire correttamente le cure nelle malattie cardiovascolari è dunque l’obiettivo di “Prendi a cuore la tua salute”, una campagna sociale di Fondazione Pubblicità Progresso in collaborazione con Servier che affronta il tema dell’aderenza terapeutica nelle malattie croniche cardiometaboliche, uno dei più importanti problemi di salute pubblica a livello globale: ogni anno nel mondo si sfiorano i 19 milioni di decessi e in Italia ictus, infarto e altre malattie del cuore causano la morte di oltre 240 mila persone.
«L'aderenza terapeutica non è solo una questione di seguire le prescrizioni mediche – sostiene Andrea Farinet, presidente della Fondazione Pubblicità Progresso - è un impegno consapevole verso la propria salute e qualità di vita. Attraverso questa iniziativa, vogliamo sensibilizzare pazienti, caregiver e professionisti sanitari sull'importanza di collaborare attivamente per prevenire complicanze gravi e migliorare la vita delle persone. È una sfida che richiede il contributo di tutti gli attori coinvolti, perché solo insieme possiamo contribuire al benessere individuale e sociale».
La scarsa aderenza alle cure si traduce in un danno non solo per la salute delle singole persone, ma anche per la società e il sistema sanitario: in Europa, aiutare i pazienti ad assumere correttamente le terapie prescritte permetterebbe di salvare circa 200 vite e di ridurre significativamente l’impatto economico, riducendo le spese sanitarie di circa 125 miliardi di euro l’anno.
«Siamo onorati di essere al fianco di Fondazione Pubblicità Progresso, che da 50 anni in Italia è sinonimo di comunicazione sociale promuovendo progetti informativo-educativi rivolti all’opinione pubblica su temi inerenti il senso civico, la cultura e la salute» assicura Gilles Renacco, presidente del Gruppo Servier in Italia. «Un plauso va alla nuova campagna» che, commenta Renacco, è stata creata «nell’ottica di diffondere consapevolezza sul ruolo di comportamenti virtuosi, come l’aderenza alle terapie, per il bene del singolo paziente, dell’intera collettività e del Servizio sanitario nazionale».
Il cuore della campagna è uno spot TV che dal 27 marzo, in occasione della Giornata mondiale dell’aderenza e per le settimane seguenti, viene trasmesso dalle principali emittenti televisive nazionali.
Pfizer ha annunciato che la Commissione europea (CE) ha approvato la modifica dell'autorizzazione all'immissione in commercio per il vaccino bivalente contro il virus respiratorio sinciziale (RSV), estendendo l'indicazione per includere la prevenzione della malattia del tratto respiratorio inferiore (LRTD) nelle persone di età compresa tra 18 e 59 anni. Pertanto viene estesa la precedente autorizzazione per le persone di età pari o superiore a 60 anni
L'approvazione si basa sui risultati dello studio clinico di fase 3 (NCT05842967) MONeT (RSV IMmunizatiON Study for AdulTs at Higher Risk of Severe Illness), che ha indagato la sicurezza, la tollerabilità e l'immunogenicità del vaccino negli adulti di età compresa tra 18 e 59 anni a rischio di LRTD associata a RSV a causa di determinate condizioni mediche croniche. È stato inoltre supportato dalle migliaia di persone vaccinate negli studi clinici che hanno coinvolto il farmaco in questa fascia di età. I risultati di MONeT e di altri studi sono stati pubblicati su riviste peer-reviewed.
Il RSV negli adulti di età pari o superiore a 18 anni causa circa 158 mila ricoveri ospedalieri all'anno negli adulti con conseguenze che possono essere gravi o persino potenzialmente letali.
«Con un'indicazione che include anche le donne in gravidanza tra la 24a e la 36a settimana di gestazione per aiutare a proteggere i neonati dalla nascita fino a sei mesi di età – commenta Alexandre de Germay, Chief International Commercial Officer, Executive Vice President di Pfizer - l'autorizzazione estesa per gli adulti di età compresa tra 18 e 59 anni nell'UE rappresenta un altro passo avanti per la salute pubblica, offrendo il potenziale per ridurre sostanzialmente il carico di RSV nelle prossime stagioni».
L'autorizzazione è valida in tutti i 27 Stati membri dell'UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia.
Un tesoro da 2 mila miliardi di dollari che potrebbe portare progressi nella salute della popolazione e crescita economica. È quello degli investimenti in Ricerca e Sviluppo che le aziende farmaceutiche in tutto il mondo contano di fare da qui al 2030 e a cui l’Italia potrebbe prendere parte. Il nostro Paese, infatti, «ha le capacità di attrarne una parte, grazie alle sue molte eccellenze, pubbliche e private». È quanto afferma Marcello Cattani, presidente di Farmindustria nel corso del convegno “Ricerca e futuro. Il contributo dell’industria farmaceutica per la salute di domani”, tenutosi oggi a Roma.
Quello della ricerca farmaceutica è un tema caldo. Ancor di più in questi giorni con l’imminente entrata in vigore dei dazi sulle importazioni varate dal Governo americano che potrebbero creare uno scossone sul mercato farmaceutico globale già da anni in piena trasformazione. Da una parte la Cina e le economie emergenti scalano posizioni, dall’altra l’Europa è in affanno, pur essendo uno dei cuori pulsanti della ricerca e della produzione farmaceutica globale.
«Nello scenario geoeconomico di oggi il quadro globale appare molto complesso e incerto. Guerra dei dazi, instabilità delle filiere produttive e aumento dei costi di approvvigionamento (+30%), sono argomenti all’ordine del giorno. A ciò si aggiunge il declino della competitività europea e la dipendenza per i principi attivi da Cina e India (75%), così come per l’alluminio (60%)», dice Cattani.
La Cina, in particolare, ha da tempo adottato un atteggiamento aggressivo al mercato farmaceutico e fortemente votato all’attrattività. «Il leader cinese Xi Jinping ha affermato nel giugno 2024 che l’innovazione hi-tech è campo di battaglia tra potenze», ricorda Cattani. «L’Europa deve rapidamente invertire una tendenza che continua a vederla perdere terreno».
Per i rappresentati delle aziende farmaceutiche, ciò significa costruire «un ecosistema davvero pro-innovation», fondato sulla « velocità e la semplificazione burocratica», che rappresentano «le fondamenta necessarie per attrarre investimenti e offrire innovazione». Decisivo, poi, intervenire «tutelando la proprietà intellettuale e facilitando l’uso secondario dei dati clinici per enti pubblici e aziende a fini di ricerca, nel rispetto della privacy».
Scuotere violentemente un neonato per cercare di calmare il suo pianto inconsolabile può causare una forma di trauma cerebrale che in un caso su quattro porta al coma o alla morte: è la Sindrome del bambino scosso (Shaken Baby Syndrome), oggi in Italia ancora troppo poco conosciuta.
Il 5, 6 e 7 aprile, tornano le Giornate nazionali di prevenzione che portano, in 70 città di 18 regioni italiane, gli infopoint della campagna “NONSCUOTERLO!” per spiegare cos’è la Shaken Baby Syndrome e come prevenirla.
L’iniziativa è organizzata dalla Fondazione Terre des Hommes e Società italiana di medicina di emergenza e pediatria (Simeup), con Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze), Fimp (Federazione italiana medici pediatri) e la Rete ospedaliera per la prevenzione del maltrattamento infantile.
I più colpiti da questa forma di trauma cerebrale sono i bambini tra le due settimane e i sei mesi di vita, periodo di massima intensità del pianto del lattante, che può assumere caratteristiche tali da portare il genitore o chi si prende cura del bambino a reagire in maniera incontrollata e violenta, scuotendo il lattante.
Come risulta dalla Prima indagine sui casi di bambini e bambine vittime di Shaken Baby Syndrome in Italia realizzata da Terre des Hommes con la Rete ospedaliera contro il maltrattamento infantile nel 2023, in un caso su quattro questo gesto può causare il coma o la morte del neonato, ma molti altri sono gli effetti devastanti che pochi secondi di scuotimento possono provocare, compromettendo per sempre il futuro e la crescita del bambino: danni cerebrali, problemi alla vista o all’udito, disturbi comportamentali o di coordinazione motoria.
«È fondamentale che genitori, caregiver e operatori sanitari riconoscano i segnali di rischio – spiega Stefania Zampogna, presidente Simeup - e comprendano quanto sia importante intervenire con consapevolezza. La prevenzione passa dalla formazione e dalla vicinanza alle famiglie, soprattutto nei momenti di maggiore fragilità».
La Sindrome del bambino scosso «è una forma di maltrattamento infantile spesso inconsapevole - sottolinea Federica Giannotta, responsabile Advocacy e programmi Italia di Terre des Hommes – che può derivare dalla scarsa informazione e totale inconsapevolezza delle drammatiche conseguenze che la perdita di controllo, anche solo per pochi secondi, può avere sul neonato. Non sempre quindi è frutto di una reale intenzione di nuocere al bambino. Per questo può essere facilmente evitata con una corretta informazione e formazione dei genitori e di chiunque altro si prenda cura del bambino. È importante illustrare quali comportamenti non vanno mai adottati per cercare di calmare il pianto del neonato – prosegue - e che, se si sente di stare perdendo il controllo, piuttosto che incorrere in comportamenti dannosi, può essere utile allontanarsi un breve istante dal bambino, lasciandolo in un luogo sicuro, recuperare un proprio equilibro e chiedere aiuto».
Il ruolo di pediatri e operatori di pronto soccorso è fondamentale per riconoscere e prevenire i casi di Shaken Baby Syndrome. In un caso su tre di quelli analizzati nell’indagine di Terre des Hommes, infatti, i bambini colpiti da questa sindrome erano stati già condotti in Pronto soccorso e presentavano altri segni di maltrattamento.
L’elenco aggiornato degli Infopoint e di tutte le città coinvolte è su nonscuoterlo.it.
Per affrontare la denatalità «sono necessarie politiche strutturali, che rendano prioritario l’investimento sull’infanzia». A sostenerso è Giorgia D’Errico, direttrice delle Relazioni istituzionali di Save the Children, commentando i dati diffusi dall’Istat.
«Oggi in Italia la nascita di un bambino è un fattore di impoverimento – sottolinea - e troppo spesso i genitori affrontano i primi mille giorni, essenziali per la crescita, in solitudine, senza un’adeguata rete di servizi. Il supporto ai giovani e alla prima infanzia andrebbero invece messi al centro di tutte le scelte politiche, da quelle sui servizi sanitari a quelle relative all’istruzione, al contrasto alla povertà e all’occupazione giovanile e femminile, adottando misure strategiche di lungo periodo piuttosto che interventi una tantum».
Secondo D'Errico, «occorre inoltre costruire e rafforzare quelli che chiamiamo “spazi per crescere” dai presidi socio-sanitari di prossimità, agli asili nido e luoghi sicuri dove i più piccoli possano crescere e apprendere, in particolare nelle aree più deprivate. È inoltre fondamentale potenziare le misure a sostegno dell’occupazione femminile e di un’equa distribuzione del lavoro di cura – conclude - che ancora oggi pesa prevalentemente sulle donne, come l’estensione del congedo di paternità».
Oggi in Italia sono più di 140 le terapie combinate, usate in numerose aree terapeutiche come l’oncologia, la cardiologia, l'endocrinologia, l'infettivologia e la psichiatria. Lo sviluppo delle conoscenze cliniche ha infatti evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, l’importanza di associare più principi attivi per il trattamento di alcune malattie, al duplice fine di raggiungere contemporaneamente più target terapeutici diversi e di massimizzare l’efficacia della terapia.
Il progetto “ComboConnect-Bridging access gaps in combination therapies”, realizzato da MTA in collaborazione con Ispor Italy-Rome Chapter, il cui report è stato presentato mercoledì 26 marzo a Roma, si pone l’obiettivo di analizzare il contesto delle terapie combinate attraverso il coinvolgimento di esperti in ambito regolatorio e di legislazione farmaceutica, pagatori, economisti, farmacisti e clinici, per creare conoscenza e rispondere alle problematiche di accesso di queste terapie, allo scopo di minimizzare i rischi di ritardo e ottimizzare l’accesso dei pazienti alle cure, garantendo la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, ma soprattutto il benessere e la salute delle persone.
«Le criticità- spiega Dario Lidonnici, Founder e Managing Director di More Than Access (MTA) - sono connesse all’immissione in commercio, al rimborso e alla gestione delle terapie combinate, soprattutto nel caso in cui i titolari di Aic siano diversi. In particolare, la gestione regolatoria risulta complicata quando uno dei titolari di Aic non richiede una variazione del label EMA. L’analisi illustrata nel Report evidenzia chiaramente l’esigenza di operare lungo alcune aree di miglioramento dal punto di vista normativo/regolatorio e legislativo, come la promozione della collaborazione tra imprese dallo sviluppo fino all’accesso delle terapie di combinazione».
Secondo Pier Luigi Canonico, Past President di ISPOR Italy-Rome Chapter, «sarebbe molto utile promuovere linee guida sin dal livello EMA, analoghe a quelle stilate per le associazioni fisse, che vadano oltre le attuali normative focalizzate sui medicinali in monoterapia, al fine di stabilire criteri univoci per la gestione delle combinazioni e di ridurre i ritardi e i disallineamenti tra i Paesi europei».
Dall’analisi svolta si evidenzia l’esigenza di operare lungo alcune aree di miglioramento dal punto di vista regolatorio e legislativo, verso un framework che colga le peculiarità e affronti le difficoltà di questa tipologia di trattamenti, riconoscendo la complessità attuale dell'iter regolatorio e di accesso delle terapie combinate ed evitando di proporre un percorso totalmente nuovo che potrebbe rendere ancora più complessa la loro gestione.
«Sul pricing delle combinazioni – sostiene Claudio Jommi, professore di Economia aziendale all’Università del Piemonte Orientale e presidente eletto di ISPOR Italy-Rome Chapter - bisogna tenere conto delle difficoltà di definire il contributo delle diverse componenti della combinazione al valore aggiunto. Una possibile soluzione è mantenere la prassi di attribuire il premio di prezzo al farmaco add-on, assumendo che sia il principale responsabile dei benefici incrementali – suggerisce - e reintrodurre la pratica di determinazione di un prezzo “indication-based”. Questo meccanismo potrebbe incentivare il titolare dell’Aic del farmaco backbone a rinegoziare il prezzo solo per l’indicazione in terapia combinata, considerando l’incremento dei volumi derivanti dal maggiore utilizzo del farmaco, favorendo così un equilibrio tra sostenibilità e innovazione».
Al 31 dicembre 2024 il dato provvisorio della popolazione residente in Italia era di 58 milioni 934 mila persone, in calo di 37 mila rispetto alla stessa data dell’anno precedente. La diminuzione prosegue ininterrottamente dal 2014 e quella registrata nel 2024 (-0,6 per mille) è in linea con quella dei due anni precedenti (-0,4 per mille del 2023 e -0,6 per mille nel 2022).
Nel 2024 le nascite sono state 370 mila, diminuite sul 2023 del 2,6%. Con 1,18 figli per donna viene superato il minimo di 1,19 del 1995, anno nel quale nacquero 526 mila bambini.
Calano anche i decessi (651 mila), il 3,1% in meno sul 2023, dato più in linea con i livelli pre-pandemici che con quelli del triennio 2020-22. Il saldo naturale, ovvero la differenza tra nascite e decessi, è quindi ancora fortemente negativo (-281mila unità).
Rilevante la crescita della speranza di vita: per il complesso della popolazione residente, la speranza di vita media alla nascita risulta di 83,4 anni, quasi cinque mesi di vita in più rispetto al 2023, sia per le donne sia per gli uomini, ma è di 85,5 anni per le prime e di 81,4 anni per i secondi.
Sono alcuni dati tratti dal Report dell'Istituto nazionale di statistica (Isat) reso noto lunedì 31 marzo.
La speranza di vita non è uguale per tuttiNel Nord la speranza di vita alla nascita è di 82,1 anni per gli uomini e di 86,0 per le donne. Il Trentino-Alto Adige si conferma ancora come la regione in Italia con la speranza di vita più alta sia tra gli uomini (82,7) sia tra le donne (86,7).
Nel Centro la speranza di vita alla nascita scende a 81,8 anni per gli uomini e 85,7 anni per le donne. In questa ripartizione geografica le Marche sono la regione dove si vive più a lungo, con un valore della speranza di vita alla nascita di 82,2 anni per gli uomini e 86,2 per le donne.
Nel Mezzogiorno si registrano valori più bassi della speranza di vita alla nascita: 80,3 anni per gli uomini e 84,6 anni per le donne. La Campania, nonostante un considerevole recupero, rimane la regione con la speranza di vita più bassa tanto tra gli uomini (79,7) quanto tra le donne (83,8).
Calano i decessiNel 2024 il dato (ancora provvisorio) dei decessi ne segnala 651 mila, 20 mila in meno rispetto al 2023. In rapporto al numero di residenti sono deceduti 11 persone ogni 1.000 abitanti, contro gli 11,4 dell’anno precedente.
Un numero così basso di decessi non si registrava dal 2019. Il calo della mortalità, sottolinea l'Istat, risulta confermato anche dal confronto con i 678 mila decessi teorici che si sarebbero avuti nel 2024 se si fossero manifestati i medesimi rischi di morte del 2019.
Nel quadro di una popolazione che invecchia il numero di decessi tende strutturalmente a crescere perché, naturalmente, cresce il numero delle persone esposte ai rischi di morte, anche nel caso in cui questi rischi non dovessero cambiare da un anno all’altro.
Se questo fenomeno non si verifica, com’è avvenuto appunto nell’ultimo anno, può dipendere, segnala l'Istituto, da diversi fattori: l'andamento delle condizioni climatico-ambientali, l’alterna virulenza delle epidemie influenzali da una stagione alla successiva, un significativo eccesso di mortalità dovuto a precedenti circostanze eccezionali come avvenuto nel periodo pandemico e post-pandemico. Negli ultimi 15 anni si sono osservati diversi picchi significativi (nel 2012, 2015, 2017 e soprattutto nel 2020-2022) ai quali ha sempre fatto seguito un calo della mortalità negli anni immediatamente successivi.
Diminuisce la fecondità, aumenta l'età media del partoIl calo (record) della fecondità riguarda in particolar modo il Nord e il Mezzogiorno. Infatti, mentre nel Centro il numero medio di figli per donna si mantiene stabile (1,12), nel Nord scende a 1,19 (da 1,21 del 2023) e nel Mezzogiorno a 1,20 (da 1,24). Quest’ultima ripartizione geografica detiene una fecondità relativamente più elevata, ma sperimenta la flessione maggiore.
Il calo delle nascite, oltre a essere determinato dall’ulteriore calo della fecondità, spiega l'Istat, è causato dalla riduzione nel numero dei potenziali genitori, a sua volta risultato del calo del numero medio di figli per donna registrato nei loro anni di nascita.
Accanto alla riduzione della fecondità, nel 2024 continua a crescere l’età media al parto, che si attesta a 32,6 anni. Il fenomeno del rinvio delle nascite ha un impatto significativo sulla riduzione generale della fecondità, osserva l'Istituto, poiché più si ritardano le scelte di maternità più si riduce l’arco temporale a disposizione delle potenziali madri per la realizzazione dei progetti familiari.
L’aumento dell’età media al parto si registra in tutto il territorio nazionale, con il Nord e il Centro che continuano a registrare il valore più elevato: rispettivamente 32,7 e 33,0 anni, contro 32,3 anni del Mezzogiorno.
Il primato della fecondità continua a essere del Trentino-Alto Adige, con una media di 1,39 figli per donna nel 2024, comunque in diminuzione rispetto al 2023 (1,43). Seguono Sicilia (1,27 contro 1,32 nel 2023) e Campania (da 1,29 a 1,26). In queste Regioni le madri sono mediamente più giovani: l’età media al parto è di 31,7 anni in Sicilia e 32,3 in Trentino-Alto Adige e Campania.
La Sardegna si conferma la Regione con la fecondità più bassa: nel 2024, il numero medio di figli per donna è di 0,91, stabile rispetto al 2023. Tra le Regioni con i valori più bassi di fecondità ci sono il Molise (1,04), la Valle d’Aosta (con la flessione maggiore, da 1,17 a 1,05) e la Basilicata (1,09, stabile sul 2023). Basilicata, Sardegna e Molise sono anche le Regioni con il calendario riproduttivo più posticipato, dopo il Lazio (33,3 anni): nelle prime due l’età media al parto è di 33,2 anni, per il Molise è uguale a 33,1.
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Il disturbo bipolare è una patologia grave e ricorrente, capace di compromettere la qualità della vita e la sfera psicosociale di chi ne soffre. Colpisce oggi oltre un milione di italiani, tra l'1 e il 2 per cento della popolazione generale, con una prevalenza leggermente maggiore nelle donne e un esordio più frequente tra i 15 e i 30 anni. Le diagnosi tardive o errate sono molto comuni: circa il 70 per cento delle persone affette ha ricevuto una diagnosi sbagliata e di queste il 30 per cento anche per più volte. Prima della diagnosi e dell'inizio della cura trascorrono in media circa otto anni dall’esordio.
In occasione della Giornata mondiale sul disturbo bipolare, il 30 marzo, la Società italiana di psichiatria (Sip) richiama dunque l'attenzione sull'importanza della diagnosi precoce e della corretta gestione terapeutica, oltre che sulla necessità di abbattere lo stigma che ancora grava su questa malattia. La data è stata scelta come World Bipolar Day in quanto giorno della nascita di Vincent van Gogh, che si ritiene fosse affetto da disturbo bipolare pur in comorbidità con altri disturbi mentali.
«Nonostante l’ampia diffusione – osserva Liliana Dell’Osso, presidente della Sip – il disturbo bipolare è spesso frainteso, e molte persone con questa condizione affrontano anche il peso dello stigma sociale».
«Sono fondamentali una diagnosi precoce e un intervento terapeutico mirato per migliorare il decorso della malattia – spiega Antonio Vita, vicepresidente Sip - riducendo il suo impatto sulla qualità della vita di chi ne soffre. È necessario ascoltare con attenzione i pazienti e fare un’accurata anamnesi, anche con l’aiuto dei familiari, per evitare di prescrivere terapie inadeguate che possono peggiorare la situazione anziché migliorarla».
Si celebrerà il 25 anno di ogni anno la Giornata nazionale per la prevenzione veterinaria, in concomitanza con la nascita della World Organisation for Animal Health (Woah, ex OIE). L'istituzione della Giornata, approvata definitivamente dal Parlamento italiano lo scorso 26 marzo, «segna un momento storico per la nostra professione e rappresenta un'opportunità strategica di inestimabile valore per potenziare i temi di salute animale, sicurezza alimentare, tutela della biodiversità e, di conseguenza, correlarli indissolubilmente nel concetto di salute pubblica nella sua interezza».
La Federazione nazionale degli ordini dei veterinari italiani (Fnovi) accoglie «con vivo entusiasmo il raggiungimento di questo risultato, che finalmente riconosce con la dovuta enfasi il ruolo insostituibile e proattivo del medico veterinario nella promozione e salvaguardia della sanità collettiva, in un'ottica One Health sempre più urgente e imprescindibile».
Questa Giornata, sostiene la Fnovi, «rappresenta un'occasione privilegiata per portare all'attenzione della cittadinanza, delle Istituzioni e dei media l'importanza cruciale della prevenzione in ambito veterinario» ed è importante anche per valorizzare la competenza e la professionalità dei medici veterinari «non solo nella cura, ma soprattutto nella promozione attiva della salute animale, umana e degli ecosistemi attraverso strategie preventive efficaci e basate sull'evidenza scientifica».
Ed è altrettanto rilevante per sottolineare «il nesso indissolubile tra la salute animale, la salute umana e la salute ambientale, evidenziando la necessità di una collaborazione sinergica e multidisciplinare tra medici veterinari, medici umani, professionisti sanitari, enti di ricerca, Istituzioni pubbliche a tutti i livelli, associazioni di categoria, organizzazioni non governative e la comunità civile».
La Federazione «è pronta ad accogliere e a sviluppare appieno le potenzialità di questa importante celebrazione, con la consapevolezza che la prevenzione non è un costo, ma un investimento cruciale per la resilienza del nostro Paese e per la sostenibilità del nostro sistema sanitario nazionale».
Eccessivi carichi di lavoro, troppo tempo da dedicare ad aspetti burocratici invece che alla pratica clinica, difficoltà nel comunicare con pazienti e i caregiver. Sono alcune delle cause principali che conducono otto giovani oncologi su dieci a soffrire d'ansia, irritabilità, demotivazione, senso di frustrazione e di fallimento e riduzione dell’autostima. In una parola: burnout.
È un problema che gli oncologi under 40 italiani condividono con i colleghi coetanei europei e che può compromettere la qualità dell’assistenza. Una delle azioni da mettere in campo per contrastare il fenomeno, secondo l’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) è rappresentato dalla formazione. Così la Società scientifica, che ha oltre la metà (53%) dei soci sotto i 40 anni, ha organizzato, attraverso il suo Working Group Aiom Giovani, gli “Aiom Games”, tre appuntamenti per mettere in luce i giovani camici bianchi attraverso approfondimenti e dibattiti, l’ultimo dei quali si è svolto venerdì 28 marzo a Roma.
«In Europa, un oncologo su tre di ogni fascia d’età è colpito almeno una volta nella carriera da questa forma di disagio psicologico» ricorda Francesco Perrone, presidente nazionale Aiom. E «i giovani medici, anche per la minore esperienza nel gestire le esigenze dei pazienti oncologici, sono più esposti al rischio di sviluppare questi disturbi». ”Aiom Games” «è un format innovativo – precisa Perrone - che rappresenta un’occasione di apprendimento in un contesto stimolante, con esercitazioni pratiche su diagnosi e terapia oncologica, role playing e dibattiti». Ai “vincitori” è offerta la partecipazione al Congresso dell'European Society for Medical Oncology (ESMO), che si terrà a ottobre a Berlino.
«Il rischio di logoramento per i professionisti che ogni giorno curano i pazienti oncologici è elevato – conferma Angela Toss, coordinatrice del Working Group Aiom Giovani - e il burnout non deve essere sottovalutato, perché ha un impatto negativo sul nostro lavoro. Eccessivi livelli di stress possono spingere molti studenti di Medicina a scegliere altre specializzazioni. Oggi oltre la metà del tempo di una visita ambulatoriale oncologica – sottolinea - è dedicata a documenti, procedure e controlli amministrativi, cioè al cosiddetto “tempo burocratico”, che sottrae spazio all’assistenza. Ed è dimostrato che l’aumento del carico amministrativo è correlato all’esacerbazione del burnout».
I tre appuntamenti di “Aiom Games”, realizzati con il contribuito non condizionato di AstraZeneca, sono stati dedicati al cancro del polmone, sarcomi, tumori ereditari della mammella, carcinomi gastrici e ginecologici, neoplasie prostatiche, epatocarcinoma e tumori delle vie biliari. «Sono patologie in cui l’innovazione in oncologia ha determinato significativi progressi» osserva infine Saverio Cinieri, presidente di Fondazione Aiom, e «più in generale nuove classi di farmaci, trattamenti innovativi, terapie integrate, medicina di precisione e nuovi strumenti diagnostici sono diventati realtà nel nostro lavoro quotidiano».