La decisione del Governo statunitense di congelare temporaneamente i finanziamenti al Programma presidenziale d’emergenza per la lotta all’Hiv/Aids (PEPFAR) e tutti gli altri aiuti per l’estero per almeno 90 giorni ha avuto effetti immediati sulle persone affette da Hiv, avverte Medici senza frontiere (Msf). Sebbene gli Stati Uniti abbiano chiarito che alcuni programmi di trattamento potranno continuare almeno fino ad aprile, Msf si dice preoccupata che gli aspetti più importanti del Programma stesso rimangano congelati.
«A più di tre settimane dalla decisione del Governo americano di congelare i fondi PEPFAR, c'è ancora molta confusione e incertezza sui tagli applicati a questa vitale àncora di salvezza per milioni di persone» sostiene Avril Benoît, direttrice generale di Msf USA. «Nonostante una deroga limitata che copre alcune attività – prosegue - in molti Paesi i nostri team stanno vedendo persone che hanno già perso l’accesso alle cure salvavita e non sanno se o quando il loro trattamento continuerà». Pertanto Msf chiede al Governo degli Stati Uniti di «riattivare immediatamente i finanziamenti per tutti gli interventi PEPFAR e per altri aiuti sanitari e umanitari di fondamentale importanza».
Anche se Msf non riceve finanziamenti dal Governo statunitense e non sarà direttamente interessata dai tagli o dal congelamento di PEPFAR, molte delle sue attività dipendono dai programmi che sono stati interrotti.
«Quando Msf iniziò a curare le persone affette da Hiv/Aida in Sudafrica 25 anni fa, non c’erano farmaci antiretrovirali sugli scaffali – ricorda Tom Ellman, direttore dell’unità medica di Msf in Sudafricai – e ogni diagnosi sembrava una condanna a morte e le comunità cercavano disperatamente di frenare la diffusione del virus».
Da allora, il sostegno di PEPFAR ha contribuito a salvare più di 25 milioni di vite e ha incoraggiato la lotta contro l’Hiv a diventare davvero globale. «Qualsiasi interruzione dei servizi e delle cure contro l’Hiv è fonte di stress e sofferenza per le persone in cura e rappresenta un’emergenza quando si tratta di cure contro l’Hiv. I medicinali contro l’Hiv - ricorda Ellman - devono essere assunti quotidianamente altrimenti le persone corrono il rischio di sviluppare resistenze o complicazioni mortali».
L’attività di PEPFAR è profondamente interconnessa e dipende da altre componenti del sistema di aiuti degli Stati Uniti, in particolare dal supporto fornito da USAID e dall’assistenza tecnica fornita dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC). La programmazione sostenuta dal PEPFAR, inoltre, è stata fortemente integrata negli aspetti chiave dei sistemi sanitari dei Paesi partner negli ultimi venti' anni e le conseguenze di queste interruzioni sono di vasta portata. Per questo alcuni dei servizi interessati vanno oltre il semplice trattamento e prevenzione dell’Hiv, come in Uganda, dove gli aspetti di sorveglianza e risposta alle malattie infettive finanziati dal PEPFAR, compreso il virus Ebola, sono stati interrotti.
Uno studio coordinato dall’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Istc) ha utilizzato per la prima volta l’intelligenza artificiale (Ia) per individuare i fattori più importanti per la diagnosi precoce di Alzheimer e Parkinson, differenziando uomini e donne. In particolare, sono stati sottoposti a un algoritmo di Ia l’esito di una serie di test neuropsicologici, dati neurofisiologici e genetici condotti su un campione misto (uomini e donne sia sani/e sia malati/e con l’obiettivo di identificare e differenziare in base al sesso i principali fattori predittivi associati all’insorgenza delle due malattie.
I risultati della ricerca, frutto di un lavoro interdisciplinare che ha coinvolto anche l’Area di Ricerca Milano 4 del Cnr, la Fondazione Mondino, l’Università di Pavia, la Fondazione Santa Lucia, le Università di Roma Sapienza e Tor Vergata e AI2Life, una start-up sviluppata in seno al Cnr-Istc, sono pubblicati in due distinti articoli del Journal of the Neurological Sciences.
La novità dello studio consiste nell’aver adottato un approccio integrato nell’analisi dei test, coerentemente con la teoria sviluppata al Cnr-Istc secondo cui entrambe le patologie potrebbero essere manifestazioni di una sola malattia chiamata Neurodegenerative Elderly Syndrome. «Nell’analisi dei test – racconta il responsabile scientifico della ricerca, Daniele Caligiore, dirigente di Ricerca al Cnr-Istc e direttore della Advanced School in Artificial Intelligence- siamo partiti dall’analizzare le differenze tra pazienti sani e pazienti malati, indipendentemente dal fatto che fossero uomini o donne: esistono, infatti, molti studi che confrontano l’esito dei test predittivi sulla base del genere, ma non considerano che alcune caratteristiche possono essere rilevanti per entrambi i gruppi, indipendentemente dai valori assoluti dei punteggi dei test. Le nostre ricerche – precisa - affrontano per la prima volta questo problema mediante un algoritmo di machine learning spiegabile, in grado cioè di rendere trasparente il processo decisionale usato, aumentando l’affidabilità e favorendo l’adozione in ambito medico».
Nel caso dell’Alzheimer, l’algoritmo ha analizzato i risultati di semplici test neuropsicologici sulla base di parametri “predittori” come la memoria, l’orientamento, l’attenzione e il linguaggio (MMSE), la memoria verbale a breve termine (AVTOT) e la memoria episodica a lungo termine (LDELTOTAL). «Il sistema di machine learning che abbiamo sviluppato mostra come MMSE è un predittore più efficace dell’Alzheimer nelle donne – spiega il ricercatore - mentre negli uomini è essenziale per il monitoraggio a lungo termine. LDELTOTAL è più predittivo nelle donne per l’insorgenza della malattia, mentre AVTOT è più rilevante negli uomini. Inoltre, il livello di istruzione incide in modo diverso sul rischio di Alzheimer, con le donne che presentano un rischio maggiore».
Il modello di machine learning sviluppato per la ricerca sul Parkinson ha invece identificato caratteristiche chiave (neuropsicologiche, genetiche e corporee) che possono essere legate all’insorgenza della patologia. Relativamente agli uomini emerge che sono da considerare tra i principali predittori dell’insorgenza del Parkinson dati che misurano la rigidità muscolare e le disfunzioni del sistema nervoso autonomo; mentre per le donne sono più rilevanti i dati sulle disfunzioni urinarie per predire la malattia. Il modello di machine learning ha individuato come predittori significativi del Parkinson anche l'età e la storia familiare del campione, con un impatto maggiore negli uomini. Inoltre, sembrano essere più rilevanti, sempre in ambito maschile, i test che misurano la fluidità verbale semantica e i dati sulla variante legata al gene dell’alfa-sinucleina, una proteina coinvolta nello sviluppo di malattie neurodegenerative come il Parkinson.
«I risultati di queste ricerche evidenziano l’importanza di integrare approcci diagnostici specifici per sesso nella pratica clinica per migliorare la gestione di Alzheimer e Parkinson: compito della ricerca - commenta Caligiore - sarà quello di affinare sempre più i test neuropsicologici e i biomarcatori predittivi, con un’attenzione particolare al sesso così da supportare trattamenti personalizzati. Inoltre, il nostro studio rappresenta un esempio concreto di come l’Ia possa supportare efficacemente la medicina – sottolinea - combinando l’analisi delle caratteristiche individuali con una visione sistemica: gli algoritmi di machine learning, infatti, possono integrare e analizzare dati specifici del paziente, fisiologici, genetici o legati allo stile di vita, per prevedere l’insorgenza della malattia, monitorarne la progressione e, allo stesso tempo, offrire trattamenti mirati e personalizzati».
È disponibile una nuova terapia, che riapre di fatto la partita con la mielofibrosi, un raro tumore del sangue che in Italia colpisce 350 persone all’anno con un’incidenza maggiore tra i 60 e i 70 anni: solo nel 15% ne ha meno di 55. Il farmaco si chiama momelotinib ed è stato approvato recentemente anche nel nostro Paese dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).
La mielofibrosi spesso è asintomatica. In alcuni casi il paziente lamenta stanchezza, un po’ di inappetenza, dolori muscolari e articolari, qualche linea di febbre. E la bilancia dice che è dimagrito. La prima cosa a cui si pensa è l’influenza. O si dà la colpa all’età.
Invece «di mezzo ci sono i geni e alcune loro mutazioni» spiega Alessandro Vannucchi, professore di Ematologia dell’Università di Firenze. Tre in particolare: la principale, che accomuna oltre la metà dei pazienti è la mutazione V617F di JAK2, «un gene importante per il controllo della produzione delle cellule del sangue, che, se mutato, risulta associato a una loro proliferazione incontrollata». La seconda mutazione per frequanza è quella del gene CALR, presente nel 25-35% dei casi e alla base della produzione di una proteina, la calreticulina, coinvolta nella regolazione di processi come la proliferazione, la crescita, la migrazione e la morte cellulare. L’ultima mutazione è nel gene MPL, coinvolto invece nella produzione di piastrine, riscontrata nel 3-5% dei pazienti.
Negli stadi più avanzati, la mielofibrosi ha un forte impatto sulla qualità di vita. «La situazione complessiva – racconta Antonella Barone, presidente dell’Associazione italiana pazienti con malattie mieloproliferativa (Aipamm) – può essere aggravata dal fatto che colpisce per lo più gli anziani, persone fragili, che assumono farmaci per altri disturbi cronici e che, rispetto alla popolazione generale, hanno un rischio maggiore di malattie a carico del cuore e dei vasi sanguigni». Circa il 40% dei pazienti presenta un'anemia da moderata a grave già al momento della diagnosi, ma si stima che quasi tutti ne andranno incontro nel corso del tempo. In alcuni casi (10-15 su 100) la mielofibrosi può evolvere in una patologia più grave: la leucemia mieloide acuta.
L’unica terapia oggi potenzialmente in grado di guarire è il trapianto di midollo, ma è riservato a una piccola percentuale di pazienti, in genere sotto i 70 anni, per via della complessità e dei rischi a esso associati.
Momelotinib, la nuova terapia approvata dall'Aifa, è un inibitore orale di JAK1/JAK2 e del recettore dell'activina A di tipo 1, il primo medicinale autorizzato, spiega Francesco Passamonti, professore di Ematologia all’Università statale di Milano, «per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con anemia da moderata a severa che sono affetti da mielofibrosi primaria, mielofibrosi post policitemia vera o mielofibrosi post trombocitemia essenziale e che sono naïve agli inibitori della chinasi Janus o già trattati con ruxolitinib», come recita il parere positivo degli Enti regolatori.
L'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha approvato l’immissione in commercio e la rimborsabilità di spesolimab di Boehringer Ingelheim per il trattamento delle riacutizzazioni (flare) della psoriasi pustolosa generalizzata (Gpp) negli adulti e negli adolescenti sopra i 12 anni.
La Gpp è una malattia rara (meno dell’1% di tutti i casi di psoriasi), più comune nelle donne, si presenta tra i 50 e i 60 anni e la sua incidenza è di circa 50 nuovi casi l’anno.
Come spiega Francesco Cusano, Past President dell'Associazione dermatologi-venereologi ospedalieri Italiani e della sanità pubblica (Adoi), la Gpp «si manifesta con un'eruzione diffusa di pustole sterili su base eritematosa che si associa talora a sintomi sistemici quali dolore, febbre, malessere generale, affaticamento e manifestazioni extracutanee come colestasi e artrite. Queste improvvise acutizzazioni sono chiamate “flare” e, se non riconosciute e trattate tempestivamente, possono portare a un aggravamento della condizione clinica e in rari casi a decesso».
Spesolimab è un farmaco biologico, un anticorpo monoclonale umanizzato del tipo immunoglobulina G1 (IgG1) antagonista del recettore umano dell’interleuchina 36R (IL36R), di cui blocca la segnalazione. Il legame di spesolimab con IL36R impedisce l’attivazione successiva da parte dei suoi ligandi (IL36 alfa, beta e gamma) e l’attivazione a valle di vie pro-infiammatorie.
La sicurezza ed efficacia di spesolimab sono state analizzate nello studio Effisayl 1. Il farmaco, ricorda Maria Concetta Fargnoli, vicepresidente della Società italiana di dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle malattie sessualmente trasmesse (Sidemast), «ha mostrato un rapido controllo delle manifestazioni cutanee entro una settimana dal trattamento. La prevenzione delle riacutizzazioni della GPP con un trattamento efficace e ben tollerato coprirebbe un bisogno altamente insoddisfatto, riducendo l'impatto delle comorbidità e della mortalità associata».
La malattia «ha un impatto devastante sulla quotidianità e sul vissuto del paziente» sottolinea Valeria Corazza, presidente dell'Associazione psoriasici italiani amici della fondazione Corazza (Apiafco). Quando è in fase di riacutizzazione, con una esposizione cutanea molto estesa che colpisce parti del corpo esposte, come le mani e il viso, «diventa assai difficile una convivenza – aggiunge - e la stessa vita relazionale e personale viene messa a dura prova, La GPP è dolorosa, la sensazione è che queste pustole brucino la pelle, come un mantello di fuoco che avvolge il corpo. Dopo tanto tempo, abbiamo finalmente una terapia che agisce rapidamente in questa fase, restituendo ai pazienti serenità e una migliore qualità di vita».
«Essere ben informati quando si parla di malattie rare o comunque meno note, come nel caso della GPP, diventa addirittura essenziale – sostiene Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttrice dell'Osservatorio malattie rare (Omar) – tanto per i pazienti quanto per tutti gli operatori sanitari che in qualche modo potrebbero vedere il paziente; è importante che l’informazione sia diffusa, di facile accesso, corretta e sempre aggiornata».
«Siamo orgogliosi di aver sviluppato la prima terapia mirata per chi convive con questa grave patologia» assicura infine Morena Sangiovanni, presidente di Boehringer Ingelheim Italia. «Riuscire a fare la differenza per i pazienti è ciò che ispira la nostra missione e la nostra scienza».
Poco meno di un anno fa i ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma avevano annunciato i risultati di una sperimentazione in cui un gruppo di bambini e ragazzi affetti da neuroblastoma, il più frequente tumore solido - oltre a quelli cerebrali - che colpisce i bambini, era riuscito a controllare la malattia e in alcuni casi a spegnerla per periodi molto lunghi grazie all’utilizzo di cellule Car-T. Si tratta di cellule ottenute utilizzando cellule immunitarie (nello specifico, i linfociti T) modificate geneticamente per riconoscere le cellule tumorali attraverso un ‘bersaglio’ presente sulla superficie (denominato GD2) e, in tal modo, ucciderle selettivamente.
In quel caso erano stati utilizzati i linfociti degli stessi pazienti. Tuttavia, non tutti i malati dispongono di una riserva di linfociti T sufficientemente ‘in forze’ da dimostrarsi poi efficaci una volta modificati. Da qui l’idea di utilizzare quelle da donatore compatibile. Sulla carta, spiega Franco Locatelli, responsabile del Centro studi clinici oncoematologici e terapie cellulari del Bambino Gesù, «le cellule Car-T allogeniche svolgono un'attività antitumorale anche superiore rispetto alle Car-T autologhe poiché i linfociti da cui sono generate provengono da soggetti mai precedentemente esposti a trattamenti chemioterapici che influiscono anche sullo stato di salute dei linfociti».
Bisognava però verificare questa ipotesi, per assicurarsi sia dell’efficacia sia della loro sicurezza. È quanto è avvenuto in una nuova sperimentazione i cui dati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista Nature Medicine.
La sperimentazione ha testato questa strategie in 5 pazienti dai 4 agli 11 anni con forme di neuroblastoma refrattarie ai trattamenti o recidivanti. Due di loro erano già stati sottoposti a trattamento con Car-T con cellule autologhe.
Il nuovo trattamento ha mostrato di essere in grado di contrastare efficacemente il tumore. Tre pazienti hanno infatti ottenuto una remissione completa, cioè la scomparsa dei segni della malattia; 1 è andato incontro a una remissione parziale, vale a dire una riduzione consistente dei segni del tumore; nell’ultimo paziente non sono stati osservati effetti diretti sul tumore, ma la malattia si è stabilizzata per alcuni mesi.
Nonostante questi risultati, in questo gruppo di pazienti il trattamento non è riuscito a spegnere del tutto la malattia, che in 4 dei 5 malati è successivamente recidivata o progredita. Per due di loro, però, al termine dello studio il tumore era ancora stabilizzato quando erano trascorsi, rispettivamente, 20 e 24 mesi dal trattamento. Il quinto paziente era, invece, ancora in remissione completa.
«Questi risultati rappresentano una svolta importante perché dimostrano l’efficacia e la sicurezza delle cellule Car-T allogeniche», continua Locatelli. «La terapia genica allogenica ha la possibilità di affiancarsi a quella autologa per incrementare la possibilità di offrire il trattamento con cellule Cart-T anche a quei pazienti che per la pregressa storia non potrebbero beneficiarne o che hanno già fallito il trattamento con le cellule Car-T autologhe», conclude Locatelli.
Il neuroblastoma è il tumore solido extracranico più frequente dell’età pediatrica e rappresenta circa il 7-10% dei tumori nei bambini tra 0 e 5 anni. In Italia vengono formulate circa 120-130 nuove diagnosi all’anno. Questo tumore ha origine dai neuroblasti, cellule presenti nel sistema nervoso simpatico, e può insorgere in diversi distretti corporei tra cui il più frequente è la parte centrale del surrene. Ancora oggi, il neuroblastoma ha una prognosi significativamente meno buona di altre neoplasie dell’età pediatrica, essendo responsabile dell’11% delle morti per cancro in età pediatrica: nelle forme metastatiche o ad alto rischio di ricaduta la probabilità di guarigione definitiva è del 45-50%; in caso di ricaduta o di malattia refrattaria alle cure convenzionali (chemio e radioterapia), la possibilità di sopravvivere senza malattia a 2 anni non supera il 10-15%.
Otto persone su dieci con epilessia temono di essere giudicate “difettose”; il 76% dichiara di provare vergogna se non riesce a controllare le crisi in pubblico, il 72% di sentirsi inadeguato per via della propria malattia e solo il 30% nega di sentirsi inferiore rispetto agli altri.
Sono alcuni risultati di una ricerca, la prima in Italia, su vergogna e vivere con l'epilessia, condotta dal punto di vista della persona e dei suoi familiari dall'Associazione italiana epilessia (Aie), che ha inviato al proprio target di 3.300 persone due questionari, uno per le persone con epilessia, l’altro per i familiari, ottenendo 468 risposte complete suscettibili di valutazione. I risultati, presentati in una conferenza stampa a Roma giovedì 13 febbraio, mostrano quanta parte abbia l'emozione "vergogna" nella quotidianità di chi ha l'epilessia come compagna di vita.
«Se sei solo non succede: ti vergogni solo quando sei di fronte agli altri – dice Tarcisio Levorato, presidente dell’Associazione italiana epilessia (Aie) - ma la solitudine pesa nel mondo della persone con epilessia come un macigno che nessun farmaco riesce a risolvere. La vergogna è uno stato d'animo che mostra la risposta delle persone con epilessia a stigma e discriminazione subiti, percepiti o interiorizzati che rischiano di vanificare i vantaggi delle terapie, pregiudicandone percezione e quotidianità».
«Il fatto è che l’epilessia non è solo biologia – interviene Giancarlo Di Gennaro, direttore del Centro Epilessie dell'Istituto Neuromed - e nella clinica dell’epilessia occorre tenerne conto».
L’epilessia, che in Italia è “segreta” compagna di vita del 1% della popolazione, è una patologia cronica caratterizzata da crisi ricorrenti. L’offerta terapeutica consente il controllo delle crisi in circa il 70% dei casi, mentre il restante 30% è costituito da epilessia farmacoresistente suscettibile di interventi che vanno dall’impianto dello stimolatore del nervo vago alla chirurgia.
Nella ricerca, Il 74% delle persone ha risposto che la propria epilessia limita il modo con cui gli altri le percepiscono e solo il 45% dice di non preoccuparsi che la propria malattia possa esser vista come un fallimento personale.
«Nel caso della persona con epilessia il sentimento della vergogna è interpersonale – spiega Liliana Grammaldo, neuropsicologa del Centro delle Epilessie del Neuromed - e ha a che fare con la possibilità, che diventa spesso certezza per via del pregiudizio, che la mia crisi epilettica sarà considerata qualcosa di sconveniente che finisce per sforare nel demoniaco».
Il 55% dei rispondenti ai questionari della ricerca dichiara che se qualcuno chiede informazioni sulla malattia non cambia discorso ed è ben disposto a parlarne. «Perché la persona con epilessia non si vergogni della propria malattia deve avere l’opportunità di esser convita che possa affidare una parte della sua vita all’altro e che l’altro la possa e la voglia tenere con sé» spiega Grammaldo.
La maggior parte delle risposte dei familiari al questionario fa emergere una minore percezione di negatività, ma su un punto convergono con la preoccupazione delle persone con epilessia: fare errori relativi alla gestione della malattia turba più di qualunque cosa l’84% delle persone con epilessia, percentuale che alla stessa domanda per il familiari corrisponde l’88%.
«L’informazione e la comunicazione con il medico sono centrali» commenta Angelo Labate, coordinatore nazionale del Gruppo di studio Epilessia della Società italiana di neurologia (Sin) e professore di Neurologia all’Università di Messina. «Servono a realizzare una relazione terapeutica in cui la persona con epilessia possa tenere in mano le redini della propria epilessia e ottenere il massimo dalla propria terapia» precisa. Ma c’è di più: «Lo aiuta a costruire sicurezza e consapevolezza nell’affrontare la quotidianità».
Le persone che soffrono di epilessia, rileva infine Ilenia Malavasi, componente della Commissione Affari sociali della Camera, firmataria della proposta di legge "Disposizioni concernenti la tutela dei diritti e la piena cittadinanza delle persone affette da epilessia", «sono soggette a un duplice tipo di discriminazione: la prima, quella più evidente e di cui si parla di più, riguarda le difficoltà che si incontrano nei percorsi scolastici e occupazionali, così come nella vita affettiva o personale. La seconda è una forma di discriminazione più sottile e, possibilmente, ancora più dolorosa, perché è quasi "autoinflitta"». Una persona con malattia «non ha nulla di cui doversi vergognare – conclude - ma, anzi, ha un portato di conoscenze preziosissimo da condividere il più possibile con tutti, per arrivare a una concreta soluzione di tanti problemi».
Il prossimo 15 febbraio aprirà la nuova residenza Ail a Vimodrone. Situata vicino ai principali Dipartimenti di Ematologia di Milano, va ad aggiungersi alle 14 Case alloggio Ail già a disposizione dei malati di tumore del sangue in seno al progetto “AIL Accoglie. Una Casa per chi è in cura”.
La nuova residenza è stata progettata per ospitare degenze prolungate legate a chi deve effettuare complessi iter terapeutici, sottoporsi al trapianto di midollo osseo e alle terapie CAR–T. Si sviluppa su una superficie di 600 metri quadrati e comprende sei appartamenti indipendenti che offrono un totale di 16 posti letto. È dotata di una sala polifunzionale e di ampi spazi comuni dove gli ospiti possono interagire e trascorrere il tempo in ambienti dedicati, confortevoli e pensati per il benessere di tutti. Anche il cortile antistante è stato pensato per poter condividere momenti di socialità all’aria aperta.
Ai pazienti sarà garantito un servizio di accompagnamento gratuito alle terapie in day hospital presso tutti i Dipartimenti di Ematologia del territorio, e gli ospiti e i loro caregiver potranno accedere al servizio di sostegno psicologico, anch’esso gratuito.
Un gruppo di ricercatori dell‘Istituto europeo di oncologia e del Politecnico di Milano, coordinati da Luigi Nezi, Group Leader del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Ieo, e Marco Rasponi, professore del Dipartimento di Elettronica, informatica and bioingegneria del Politecnico, hanno messo a punto un “gut-on-chip” (un modello miniaturizzato dell’intestino umano su un dispositivo delle dimensioni di un chip) in grado di riprodurre le caratteristiche principali dell’infiammazione intestinale e predire la risposta di pazienti con melanoma al trattamento con immunoterapia.
I risultati sono stati appena pubblicati su Nature biomedical Engineering.
L’interazione fra microbiota e immunoterapia è nota da tempo ed è il risultato sia di effetti sistemici sia di processi locali, soprattutto a livello dell'intestino, dove vivono la maggior parte dei batteri che popolano il nostro organismo. Questi ultimi, tuttavia, si possono studiare solo in modelli animali poiché non ci sono ragioni cliniche per sottoporre a colonscopia e biopsia al colon un paziente che riceve l’immunoterapia per melanoma. Eppure l’infiammazione intestinale è uno degli effetti collaterali principali di questo trattamento che spesso costringe a interrompere la terapia.
Da qui l’idea dei ricercatori di applicare al colon la tecnologia “organi-su-chip” con dettagli specificamente studiati per mettere a fuoco il legame fra microbiota intestinale e immunoterapia.
La tecnologia uBeat di proprietà del Politecnico di Milano, inizialmente sviluppata per riprodurre le contrazioni del cuore, è stata utilizzata per ricreare il movimento peristaltico del tratto intestinale. Grazie ai continui movimenti generati da uBeat, spiega Rasponi,«è possibile far differenziare le principali popolazioni intestinali a partire da organoidi umani, riproducendo su chip un ambiente altamente realistico. La capacità di guidare processi biologici così complessi mediante la sola ingegnerizzazione apre prospettive molto promettenti, soprattutto nella realizzazione di modelli in vitro umanizzati destinati a sostituire l’utilizzo di animali in numerosi ambiti».
I ricercatori hanno scoperto che il microbiota dei pazienti con melanoma che non risponde all’immunoterapia «ha pronunciate caratteristiche pro-infiammatorie – aggiunge Mattia Ballerini, primo autore dello studio - che danneggiano l’integrità della barriera epiteliale dell’intestino e promuovono la produzione di molecole in grado di regolare il sistema immunitario».
Il nuovo dispositivo ha permesso di studiare nel dettaglio i meccanismi molecolari attraverso i quali il microbiota interagisce con le cellule dell’epitelio intestinale. «Queste caratteristiche possono essere utilizzate in clinica come marker per prevedere la risposta a immunoterapia e stratificare i pazienti – precisa Nezi - così da poter somministrare la cura solo a chi più probabilmente ne beneficerà». Il vantaggio potrebbe essere duplice: migliore qualità di vita dei pazienti e allo stesso tempo un notevole risparmio per il sistema sanitario nazionale. Inoltre, l’utilizzo del gut-on-chip «potrà evitare a pazienti resistenti alla terapia il rischio di inutili effetti collaterali – prosegue Nezi - dando ai loro oncologi la possibilità di somministrare eventuali terapie che li predispongano a una migliore risposta. Per far questo basterà prelevare un campione fecale e testarne gli effetti sul nostro gut-on-chip. Infine, è importante sottolineare che stiamo utilizzando questo sistema per studiare i meccanismi molecolari coinvolti nella risposta all’immunoterapia in altri tumori, dove i benefici per i pazienti risultano ancora marginali. Il nostro obiettivo – conclude Nezi - è generare in questo modo nuove opportunità di sviluppo per terapie innovative basate sulla modulazione del microbiota intestinale, per fornire a sempre più pazienti l’accesso a cure efficaci».
Quasi la metà (47%) degli adolescenti tra i 14 e i 18 anni sceglie siti e articoli online per informarsi sulle pratiche sessuali; oltre un quarto (il 26%) pensa sia frequente subire o assistere a discriminazioni legate all’orientamento o all’identità sessuale, il 22% a discriminazioni sessiste, mentre più di uno su tre (il 35%) a episodi di body shaming. Quasi uno su quattro (il 24%) ritiene la pornografia una rappresentazione realistica dell’atto sessuale, mentre il 17% dei ragazzi e delle ragazze è d’accordo che l’autoproduzione di materiale pornografico possa aiutare a soddisfare alcune necessità economiche.
Sono alcuni dati di un’indagine realizzata da Save the Children in collaborazione con IPSOS nell’ambito della ricerca “L’educazione affettiva e sessuale in adolescenza: a che punto siamo?”, pubblicata in occasione di San Valentino.
«Dalla ricerca emergono passi avanti significativi nel dialogo tra giovani e genitori sui temi della sessualità. Tuttavia – commenta Antonella Inverno, responsabile Ricerca e analisi dati di Save the Children - il digitale rimane la risorsa principale delle informazioni su questi aspetti e colpiscono i dati sullo scarso accesso ai servizi sanitari, ai consultori e la percentuale molto limitata di adolescenti che si sottopongono al test Hiv, così come la resistenza di stereotipi e false credenze».
Inoltre, aggiunge Inverno, «preoccupa fortemente il comune sentire rispetto alle discriminazioni subite o testimoniate e ad alcuni comportamenti a rischio, come il binge drinking associato alla sessualità, anche se si tratta di dati basati sulla percezione delle e degli adolescenti rispetto ai loro coetanei».
In concomitanza con la pubblicazione della ricerca, Save the Children ha lanciato la campagna “#Facciamoloinclasse”: a partire dal 14 febbraio nelle 15 città in cui sono attivi i gruppi locali del Movimento giovani per Save the Children, i ragazzi e le ragazze organizzeranno attività di sensibilizzazione rivolte ai coetanei, nelle scuole e non solo, con l'obiettivo di coinvolgerli nella campagna e far sentire anche la loro voce.
Il video realizzato per l'iniziativa, che ha per protagonista Aurora Ramazzotti, simula un quiz con domande sulla sessualità e l'affettività a ragazze e ragazzi di diverse generazioni per sottolineare l’importanza di fornire a tutte e tutti gli strumenti necessari per vivere questi temi in modo responsabile e consapevole.
Sessualità ed emozioni
Sono amore (47%), piacere (43%) e scoperta (37%) le parole che gli adolescenti associano maggiormente alla sessualità, ma emergono anche delle emozioni negative come insicurezza (13%, avvertita in particolare dalle ragazze, tra le quali la percentuale sale al 18% rispetto al 9% dei ragazzi), ansia (11%), vergogna (10%).
Il 60% degli intervistati dichiara di sentirsi a proprio agio a discutere di sessualità (63% dei ragazzi e 56% delle ragazze), una percentuale che sale al 71% tra chi ha una relazione intima, rispetto al 50% di chi non la vive. Dal punto di vista dei genitori, il 75% dichiara di sentirsi a proprio agio nel parlare di sessualità con i figli (80% dei padri e 71% delle madri). Dati che da una parte sottolineano un’apertura fra genitori e figli nel discutere questi temi, anche se va sottolineato il dato del 40% di adolescenti che non si sentono a proprio agio a parlarne.
Le prime esperienze sessualiIl 66% degli adolescenti tra i 14 e i 18 anni dichiara di aver avuto un’esperienza sessuale (72% dei ragazzi e 59% delle ragazze). La curiosità e la scoperta sono le motivazioni principali che hanno spinto gli intervistati a vivere le prime esperienze sessuali (per il 55%), seguite dal desiderio di intimità e affetto (52%) e dalla percezione che fosse il momento giusto (43%). Preoccupante il dato che riguarda il 16% (18% nei ragazzi) che lega la prima esperienza alla pressione sociale (“non sentirsi diversi”) e il 9% alla pressione dei partner o di altre persone (8%), oltre che agli adolescenti che dichiarano di averlo fatto perché si sono lasciati andare sotto l’effetto di sostanze (5%).
Rispetto alle prime esperienze prevalgono emozioni positive: secondo il 24% rafforzano le relazioni intime, per il 21% rendono più felici e soddisfatti e per il 20% più grandi e maturi. Tuttavia, si registrano anche vissuti negativi, tra cui vergogna e chiusura (5%), perdita di interesse verso le amicizie e la vita sociale (5%), cambiamenti comportamentali (4%), depressione e ansia (4%).
Le fonti d’informazioneÈ principalmente al web che gli adolescenti ricorrono quando cercano informazioni da soli sulla sessualità. Il 47% degli intervistati sceglie siti web e articoli online per informarsi sulle pratiche sessuali e il 57% quando vuole approfondire il tema delle infezioni sessualmente trasmissibili. Seguono, ma a grande distanza, altre fonti che includono libri o manuali scientifici per le infezioni sessualmente trasmissibili (22%) e video pornografici per le pratiche sessuali (per il 22%). Questi ultimi, sono utilizzati soprattutto dai più grandi (16-18 anni) per informarsi sulle pratiche sessuali.
Ma, quando non cercano in autonomia, a chi si rivolgono ragazze e ragazzi per avere informazioni? Per quanto riguarda le infezioni sessualmente trasmissibili, i genitori sono indicati come prima fonte di informazioni (46%), seguiti da amici o amiche (42%). Invece, per le pratiche sessuali, gli amici sono la fonte principale (57%), seguiti dai genitori (31%).
L’accesso ai serviziSolo il 24% degli adolescenti saprebbe con certezza a chi rivolgersi in caso di urgenza legata alla sessualità, mentre il 54% lo saprebbe solo probabilmente, ma più di uno su cinque (il 22%) non saprebbe a chi chiedere (probabilmente no 18% e sicuramente no 4%). I genitori sono più ottimisti: solo l'11% ritiene che il figlio/la figlia non saprebbe a chi rivolgersi in caso di necessità.
L'82% degli adolescenti non ha mai fatto un test HIV. Tra il 16% che lo ha fatto (principalmente maschi, 20%), il 6% si è rivolto alla farmacia o ha usato un self-test, il 5% al consultorio o a un checkpoint e il 5% in ospedale. Totalmente in linea con quanto dichiarato dai figli, il 17% dei genitori ha accompagnato il proprio figlio a fare il test dell'HIV almeno una volta.
Solo il 12% degli adolescenti è stato in un consultorio, con una percentuale leggermente maggiore tra le ragazze (15%). L'8% avrebbe voluto accedervi ma non lo ha fatto, mentre il 77% dichiara di non averne sentito il bisogno. Coerentemente con questo dato, il 13% dei genitori afferma di aver accompagnato i propri figli al consultorio. Le principali barriere all'accesso per chi avrebbe voluto andare, ma non lo ha fatto, sono la vergogna (31%) e la difficoltà a recarvisi da soli (26%). Inoltre, il 24% di chi avrebbe voluto andare, ma non lo ha fatto, segnala l'assenza di un consultorio nelle vicinanze.
Dal punto di vista dei genitori, il pediatra o il medico di famiglia sono considerati i principali alleati nella promozione della salute sessuale dei figli (49%). Seguono psicologi (24%), scuola (23%), consultori (23%) e altri medici specialisti (22%).
La percezione sui comportamenti sessualiOltre alle esperienze dirette, l’indagine ha voluto approfondire anche alcune opinioni degli adolescenti sui comportamenti dei loro coetanei. In particolare, è stato chiesto agli intervistati quale fosse la loro percezione rispetto alla frequenza con cui i ragazzi e le ragazze della loro fascia di età mettono in atto determinati comportamenti legati alla sessualità. Il 66% di loro ritiene possa succedere che le ragazze abbiano esperienze sessuali dopo aver bevuto molti alcolici (binge drinking) e il 69% che subiscano pressioni dal partner per avere rapporti intimi senza preservativo. Il 65% pensa che le ragazze seguano profili di informazione sessuale sui social e il 62% che guardino contenuti erotici di creator amatoriali accedendo a piattaforme per adulti. Per quanto riguarda i ragazzi, invece, l’83% degli adolescenti ritiene che guardino contenuti erotici di creator amatoriali e video pornografici (82%), il 79% film e serie TV che trattano di sesso e sessualità, mentre il 73% pensa che possano avere esperienze sessuali a seguito del binge drinking.
Inoltre, il 61% ritiene che i ragazzi usino app di incontri (il 55% lo pensa per le ragazze), il 62% che diffondano contenuti intimi (foto e video propri) tramite sexting (il 55% per le ragazze); il 60% pensa che i ragazzi possano entrare in contatto con esperienze sessuali pericolose (il 54% lo pensa per le ragazze).
Le discriminazioniPiù di un adolescente su 4 tra i 14 e i 18 anni (il 26%) pensa sia frequente subire o assistere a discriminazioni legate all’orientamento o all’identità sessuale, il 22% a discriminazioni sessiste, mentre più di uno su tre (il 35%) a episodi di body shaming. A pensare che accada “qualche volta” sono il 32% riguardo alle discriminazioni per orientamento e identità sessuale, il 37% a quelle sessiste, il 31% a quelle legate all’aspetto corporeo. Questi fenomeni sembrano intensificarsi nella fascia d’età 16-18 anni, tra chi ha avuto esperienze sessuali e/o è in una relazione.
Le preoccupazioni dei genitoriL’82% dei genitori indica le infezioni sessualmente trasmissibili tra le preoccupazioni principali sulla sessualità dei propri figli, ma le paure non si limitano al solo ambito medico: il 75% teme relazioni tossiche, il 72% le violenze sessuali, il 71% la possibilità di avere rapporti sotto effetto di alcool o droghe, il 67% il revenge porn. Più di un genitore su dieci (il 13%) si è trovato ad affrontare relazioni intime ‘tossiche’ dei propri figli.
La pornografia e gli stereotipi sul piacereIl 30% degli adolescenti intervistati è molto e o abbastanza d’accordo con l’affermazione che la pornografia sia un passatempo nei momenti di noia, il 29% è molto e abbastanza d’accordo sul fatto che sia un modo veloce per apprendere molte cose sul sesso, mentre il 26% è molto e abbastanza d’accordo con l’affermazione che sia utile per comprendere meglio la sessualità. Circa un adolescente su 4 (24%) crede che la pornografia offra una rappresentazione realistica dell’atto sessuale, per il 22% di loro è usuale condividere contenuti intimi tramite smartphone. Infine, preoccupante il dato secondo il quale il 17% degli adolescenti si dichiara molto e o abbastanza d’accordo con l'affermazione “autoprodurre materiale pornografico mi aiuta a soddisfare alcune necessità economiche”.
L’analisi evidenzia inoltre la resistenza di alcuni stereotipi: il 43% degli intervistati concorda con l’idea che il sesso sia sempre piacevole per entrambi i partner, mentre il 38% di ragazze e ragazzi consultati ritiene che le ragazze sappiano quasi sempre come raggiungere l’orgasmo, rivelando come quello del piacere femminile sia ancora un tema di cui si parla poco nella coppia. Solo il 12% considera il sesso online equivalente al sesso dal vivo.
“È ancora troppo alto il numero di adolescenti che considera la pornografia uno strumento di apprendimento sul sesso – osserva Antonella Inverno –con il rischio di alimentare false credenze e stereotipi legati alla sessualità. Preoccupano inoltre e meritano un approfondimento ulteriore i dati che riguardano la produzione e condivisione di contenuti intimi su piattaforme on line a cui i minorenni non dovrebbero avere accesso”.
Il dialogo in famigliaIl 68% dei giovani dichiara di aver ricevuto un’educazione sessuale in famiglia (20% “sicuramente sì”, 48% “probabilmente sì”), con una maggiore prevalenza tra i ragazzi e le ragazze della fascia d’età 14-15 anni. A specchio, l’80% dei genitori afferma di aver fornito un’educazione sessuale ai propri figli, il 51% a partire dalla fascia 11-13 anni, mentre un 21% riferisce di aver affrontato l’argomento ancora prima, in particolare le madri.
Il 75% dei giovani descrive l’educazione sessuale ricevuta in famiglia come rispettosa dei tempi, degli spazi e delle curiosità, rivelando un dialogo familiare più diffuso e attento di quanto ci si potrebbe aspettare. Tuttavia, emerge anche come l’educazione sia ancora fortemente focalizzata sulla prevenzione dei rischi (64%). Il 56% definisce libero il dialogo in famiglia sulla sessualità, mentre il 19% degli adolescenti riporta disagio e imbarazzo e il 9% ritiene che la sessualità venga percepita in famiglia come qualcosa di negativo, da reprimere, o che venga affrontata troppo tardi.
Anche dal punto di vista dei genitori, l’educazione sessuale fornita ai propri figli è descritta come rispettosa nel 79% dei casi, focalizzata sulla prevenzione nel 66% e improntata a un dialogo libero nel 63%, in linea con quanto dichiarato dai giovani.
L’educazione sessuale e affettiva a scuolaMeno di 1 studente su 2 (47%) dichiara di aver ricevuto un’educazione sessuale a scuola, con un’ampia disparità territoriale. La percentuale è infatti superiore al 55% al Nord (57% nel Nord-Ovest, il 61% nel Nord-Est), mentre scende sotto il 40% al Centro (39%) e al Sud e nelle Isole (37%).
Nella maggior parte dei casi, l’educazione sessuale a scuola è stata affrontata in modo sporadico: il 44% riporta di aver partecipato a lezioni che si sono svolte solo per qualche settimana, mentre il 32% parla di un unico evento isolato di una giornata. I corsi, nella maggior parte dei casi (53%) sono tenuti da personale esterno alla scuola, seguiti da iniziative condotte da personale interno (28%) o da un mix di entrambi (15%). L’82% di chi ha partecipato a corsi di educazione sessuale a scuola li ha considerati in ogni caso utili e arricchenti.
Più di 9 genitori su 10 (95%) ritengono utile fare educazione affettiva e sessuale a scuola, dando la giusta attenzione alle diverse fasce d'età (38% estremamente d'accordo, 31% molto d'accordo e 26% abbastanza d'accordo) e una quota solo leggermente inferiore, il 91%, è d'accordo con l'utilità di istituire l'educazione sessuale e affettiva come materia obbligatoria per i giovani (estremamente d'accordo il 27%, molto d'accordo il 35% e abbastanza d'accordo il 29%). Parallelamente, il 92% ritiene necessario fornire un supporto formativo ai genitori stessi per affrontare i temi della sessualità con i propri figli. Il 68% dei genitori, tuttavia, ritiene che i bambini della scuola primaria siano troppo piccoli per ricevere un’educazione sessuale (un dato che potrebbe riflettere una scarsa conoscenza della gradualità prevista dai programmi, che in questa fascia d’età si concentrano su aspetti emotivi, sul genere e sul consenso, con l’obiettivo di prevenire situazioni di violenza e promuovere uno sviluppo più armonico e sano del bambino). Il 49% dei genitori pensa che l’educazione sessuale possa incoraggiare i giovani a fare esperienze sessuali; il 36% condivide l’idea che questa possa andare contro i valori culturali e religiosi di molte famiglie, ma il 64% del campione si dichiara per nulla o poco d’accordo con questa affermazione.
La campagna #FacciamoloinclasseIn concomitanza con la pubblicazione della ricerca, l’Organizzazione ha lanciato la campagna “#Facciamoloinclasse”, insieme al Movimento Giovani per Save the Children, la rete di ragazze e ragazzi dai 14 ai 25 anni impegnati nella difesa dei diritti di adolescenti e giovani, per l’introduzione di percorsi obbligatori di educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole. Il video ironico, che ha per protagonista Aurora Ramazzotti, TV host & content creator - simula un quiz con domande sulla sessualità e l'affettività a ragazze e ragazzi di diverse generazioni per sottolineare l’importanza di fornire a tutte e tutti gli strumenti necessari per vivere questi temi in modo responsabile e consapevole.
A partire dal 14 febbraio nelle 15 città in cui sono attivi i gruppi locali del Movimento giovani per Save the Children, i ragazzi e le ragazze organizzeranno attività di sensibilizzazione rivolte ai coetanei, nelle scuole e non solo, con l'obiettivo di coinvolgerli nella campagna e far sentire anche la loro voce.
Oggi in Italia le donne impegnate nelle Steam (acronimo per Scienza, tecnologia, arte, ingegneria e matematica), sono circa 400 mila, cioè il 34% del totale di chi opera in questi settori, considerati di interesse prevalentemente maschile. Una visione ormai obsoleta, a cui la Società italiana di radiologia medica e interventistica (Sirm) intende porre rimedio. È questo infatti uno degli obiettivi della Società italiana di radiologia medica e interventistica (Sirm), ribadito in un convegno organizzato martedì 11 febbraio a Roma, in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, che ha visto confrontarsi specialisti del settore sul tema della sostenibilità in radiologia.
«L’Italia è uno dei Paesi che storicamente ha spinto meno le donne verso gli studi e le professioni scientifiche - ricorda Nicoletta Gandolfo, presidente Sirm – probabilmente a causa di retaggi culturali. Eppure negli ultimi anni stiamo assistendo a un aumento della nostra inclusione sia nelle scienze che tra le posizioni apicali: significa che ci si è resi conto che per interpretare il mondo è necessario anche il nostro sguardo, in grado di offrire punti di vista differenti e di svecchiare il linguaggio in ogni ambiente. La radiologia, nello specifico, parla sempre più al femminile: le posizioni di medici nucleari, radiologi e fisici sanitari oggi sono spesso ricoperte da donne».
Il tema della disparità di genere «è più che mai attuale – interviene Stefania Montemezzi, coordinatrice Commissione Dei (Diversità, equità e inclusione) – ma come Sirm abbiamo deciso di andare oltre e di spenderci a favore di qualunque tipo di discriminazione e divario. La nostra Società scientifica è stata la prima a dotarsi di un gruppo dedicato alla rappresentazione non solo delle donne ma anche delle minoranze, per promuovere l’inclusione nel mondo medico-scientifico».
Con il convegno dell'11 febbraio «abbiamo voluto affrontare un tema comune alla radiologia internazionale – precisa Luca Brunese, presidente eletto Sirm – cioè la gestione delle risorse in ottica di sostenibilità. L’adozione di pratiche corrette, però, non si limita all’ottimizzazione economica, in cui rientra l’utilizzo “green” dei macchinari di maggior consumo come la Tac, ma riguarda anche la riduzione dell’impatto ambientale dei prodotti che utilizziamo, dai device tecnologici fino ai mezzi di contrasto e ai materiali radiologici, per cui sono fondamentali anche accurate politiche di smaltimento e recupero. In questa visione rientra anche una maggiore digitalizzazione, che caratterizzerà gli ospedali del futuro, con un incrementato utilizzo di telemedicina e intelligenza artificiale. Si tratta di cambiamenti auspicabili – conclude Brunese - che però rendono urgente affrontare la questione della responsabilità etica».
Esacerbata dai danni della guerra, negli ultimi anni la necessità di cure mediche contro l’ictus in Ucraina è quasi raddoppiata, con le popolazioni sfollate che spesso non hanno accesso alle cure tempestive di cui avrebbero bisogno. È nato da questo bisogno un progetto che Royal Philips sta sviluppando in collaborazione con la Banca Mondiale e il ministero della Salute ucraino.
L’iniziativa prevede che vengano forniti 25 sistemi Philips Azurion, strumenti avanzati e ottimizzati di terapia guidata dalle immagini per il trattamento dell’ictus in fase acuta, in tutte le principali regioni del Paese, tra cui Dnipro, Sumy, Charkiv, Leopoli, Zaporižžja e Odessa. Finora sono stati installati 19 sistemi che stanno già aiutando i medici ucraini a fornire cure ottimizzate ai pazienti colpiti da ictus. Questi sistemi supportano procedure neurovascolari complesse, come le trombectomie, che possono invertire gli effetti dell’ictus.
«Ogni anno, circa 140.000 cittadini ucraini vengono colpiti da ictus e molti di essi rischiano la disabilità o la morte a causa di un trattamento tardivo», ha dichiarato Carla Goulart Peron, chief medical officier di Philips. «Questa collaborazione garantisce ai pazienti residenti nelle regioni meno servite l’accesso a tecnologie salvavita».
«Questo programma sta salvando delle vite, riducendo il rischio di disabilità e cambiando il futuro dei pazienti colpiti da ictus», sottolinea il dott. Dmytro Lebedynets, neurologo presso il Feofaniya Clinica Hospital di Kiev e consulente per il tema ictus presso la Banca Mondiale e il Ministero della salute dell’Ucraina. «Con questi strumenti avanzati possiamo fornire cure salvavita tempestive e precise, anche in caso di emergenza. È unasvolta per i nostri pazienti: ora tutte le regioni del nostro Paese saranno in grado di fornire l’intero spettro di cure ai pazienti colpiti da ictus».
È una delle più importanti sfide che sta affrontando la sanità e in futuro è destinata diventare ancora più complessa con il progressivo invecchiamento della popolazione. Oggi in Italia Italia, si stima che la fragilità riguardi il 17% della popolazione sopra i 64 anni, con picchi del 33% negli over 85.
Quello della fragilità è un tema complesso e articolato, in cui svolgono un ruolo di primo piano i fattori biologici: ha a che fare con il calo naturale delle funzioni fisiologiche nel progredire degli anni, che porta una maggiore vulnerabilità. Per questo l’età è un fattore determinante. Tuttavia, chiama in causa anche fattori economici e sociali.
Una simile complessità richiede nuove competenze, che consentano di guardare e affrontare il fenomeno in tutta la sua ampiezza.
È nato da questa esigenza un nuovo Master di secondo livello in "Prevenzione, Cura e Riabilitazione del Paziente Fragile” promosso da Maugeri e Università di Pavia, con il Dipartimento di Medicina interna e Terapia medica, presentato questa mattina presso l’Auditorium dell’Irccs Maugeri di Pavia. Il Master ha l'obiettivo di formare medici altamente qualificati nella gestione del paziente fragile, caratterizzato da presenza di malattie croniche complesse, comorbilità, instabilità clinica, politerapia, ridotta autosufficienza.
«Lo scenario della fragilità in una società complessa come quella attuale cambia rapidamente e richiede una lettura condivisa che non si limiti a identificare il paziente fragile con l’anziano, sebbene riguardi in misura maggiore questa fascia d’età», afferma il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Rocco Bellantone, nella sua Lectio Magistralis. «Serve formare la futura classe medica a riconoscere la fragilità, a intercettarla precocemente, perché su questa capacità, in una prospettiva in cui l’aspettativa di vita è significativamente aumentata, non solo si gioca la possibilità di proteggerne la qualità ma anche quella di garantire la sostenibilità delle cure per tutti», aggiunge il presidente Iss. «Serve insegnare ai diversi specialisti a conoscere la fragilità e a lavorare insieme per affrontare questa condizione includendo più prospettive e mettendo al centro il paziente», conclude Bellantone.
Attenzione, però. La fragilità non riguarda solo gli anziani. Una fetta non trascurabile della popolazione giovane colpita da patologie congenite o acquisite può trovarsi in condizioni di fragilità e avere necessità di percorsi dedicati.
Gestire la complessitàLe mille sfaccettature della fragilità non possono essere affrontate singolarmente. Studi recenti dimostrano come un modello multidisciplinare, basato su valutazioni multidimensionali (come la VMD in geriatria) e tecnologie avanzate (robotica, piattaforme virtuali), possa ridurre del 30% gli eventi avversi e migliori l’autonomia funzionale, specie dopo ictus o traumi.
Dati consolidati mostrano che oltre il 65% dei pazienti over 65 presenta almeno due patologie croniche concomitanti, rendendo essenziale una presa in carico che coinvolga diverse specialità mediche. Numerosi studi confermano inoltre che la presa in carico da parte di team multidisciplinari non solo riduce mortalità e ricoveri ma migliora anche la qualità della vita e riduce la disabilità. Allo stesso tempo, tuttavia, è necessaria l'adozione di strategie riabilitative personalizzate, adattate alle esigenze specifiche del paziente: ciò si è mostrato efficace nel migliorare le capacità funzionali e cognitive, anche in presenza di patologie complesse.
«La formazione di professionisti specializzati nella gestione del paziente fragile è di fondamentale importanza, soprattutto considerando la carenza di tali figure nel sistema sanitario attuale. L'aver dato vita a questo Master rappresenta un passo decisivo nella nostra missione di innovare i modelli assistenziali dedicati ai pazienti fragili», dichiara Luca Damiani, presidente esecutivo di Maugeri. «In Italia, si era stimato un fabbisogno di oltre 5 mila medici nell’ambito riabilitativo – sottolinea - evidenziando una significativa carenza di professionisti nel settore. Investire nella medicina riabilitativa da parte delle Istituzioni e nella formazione di tali professionisti è quindi essenziale per garantire percorsi di cura efficaci e sostenibili, rispondendo alle crescenti esigenze di una popolazione sempre più anziana e affetta da patologie croniche».
Il Master
Il Master si articolerà in 1.500 ore complessive suddivise in cinque moduli, uno per ciascuno dei quattro settori clinici (neurologico, pneumologico, cardiologico, internistico) e un quinto modulo dedicato alla ricerca e alla statistica e sarà articolato in lezioni frontali, tirocini pratici ed esercitazioni con discussione di casi clinici, per offrire un'esperienza didattica completa e altamente professionalizzante.
L'obiettivo è formare professionisti capaci di gestire transizioni terapeutiche, polifarmacoterapie e interventi personalizzati, con un focus su giovani e anziani, in linea con le linee guida OMS sulle Key Action Areas.
Il percorso formativo è rivolto a laureati in Medicina e Chirurgia e fornirà strumenti avanzati per la diagnosi, la gestione e la prevenzione della condizione di fragilità, affrontando tematiche cruciali come la malnutrizione e la sarcopenia. Un'attenzione particolare sarà rivolta all'uso di nuove tecnologie e modelli organizzativi sanitari per garantire la continuità delle cure e il coordinamento tra i diversi livelli di assistenza. I moduli e le lezioni dei Master prevedono il continuo contatto con specialisti in diversi ambiti sanitari specialistici - psicologi, neuropsicologici, fisiatri e fisioterapisti - complementari non solo al percorso di formazione ma anche allo svolgimento quotidiano della professione.
Maugeri metterà a disposizione del Master la propria rete di strutture sanitarie e il know-how maturato nella gestione delle patologie croniche e degenerative.
«Il Master in “Prevenzione, Cura e Riabilitazione del Paziente Fragile” è un nuovo importante tassello dell’offerta formativa post-laurea dell'Università di Pavia che si compone di 29 Master di I livello, 43 di II livello e dieci corsi di perfezionamento», sottolinea Francesco Svelto, rettore dell’Università di Pavia. «La fragilità richiede un approccio multidisciplinare che sappia unire prevenzione, cura e riabilitazione – aggiunge - offrendo soluzioni innovative e personalizzate, oltre che sostenibili per il sistema sanitario. Anche per questo, centrale è la collaborazione con Maugeri, che da sempre si occupa di fornire assistenza di eccellenza ai pazienti fragili e che inoltre ringrazio per avere voluto sostenere i giovani professionisti attraverso l'erogazione di borse di studio».
Le cure palliative pediatriche in Italia mostrano segnali di miglioramento, ma restano ancora molte criticità che impediscono una piena attuazione di questi servizi essenziali.
È quanto emerge dallo studio “Cure palliative pediatriche specialistiche in Italia: dove stiamo andando? Lo studio “Palliped 2022-2023” pubblicato di recente sulla Rivista italiana di pediatria.
L'Organizzazione mondiale della sanità definisce le cure palliative pediatriche come l'attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino e comprende il supporto attivo alla famiglia.
A livello globale, si stima che 22 milioni di neonati, bambini e adolescenti affetti da malattie inguaribili potrebbero beneficiare delle cure palliative pediatriche.
In Italia in particolare, circa 30 mila minori hanno diritto alle cure palliative pediatriche, 11 mila di questi di servizi specialistici, ma solo il 25% riesce ad accedervi.
Secondo i dati raccolti dalla ricerca, finanziata con il contributo non condizionato della Fondazione Maruzza Lefebvre D’Ovidio, il numero di bambini presi in carico dalle cure palliative pediatriche è aumentato dal 15% al 25% negli ultimi tre anni, coinvolgendo 18 Centri distribuiti su 14 Regioni italiane e due Province autonome. Tuttavia la copertura territoriale rimane disomogenea, l'assistenza h24 è ancora carente e il personale dedicato, seppur in crescita, è insufficiente per soddisfare le necessità dei circa 10.600 bambini eleggibili alle cure palliative specialistiche. Attualmente, si contano circa sessanta medici e 140 infermieri specializzati, numeri ancora troppo bassi per garantire un servizio efficace e uniforme su tutto il territorio nazionale.
«Siamo sulla strada giusta, ma c'è ancora molto da fare» sostiene Franca Benini, direttrice scientifica della Fondazione e docente in Pediatria al Dipartimento di Salute donna-bambino dell'Università di Padova e responsabile del Centro regionale Veneto di Terapia del dolore e cure palliative pediatriche, che ha condotto lo studio. «Il numero di bambini e famiglie seguiti è aumentato – prosegue - ma l'organizzazione e la disponibilità di personale sanitario non hanno registrato miglioramenti significativi. Speriamo che il programma formativo nazionale rivolto ai medici specializzandi in Pediatria, possa aumentare le competenze e garantire risorse mediche dedicate alle cure palliative pediatriche e stimolare analoghi percorsi formativi per tutte le atre professionalità».
Le cure palliative pediatriche, oltre a garantire la qualità della vita ai piccoli pazienti, sono fondamentali anche per il benessere delle loro famiglie. «Una rete sanitaria efficiente – osserva Benini - permette ai genitori di continuare a lavorare e di mantenere una stabilità sociale ed economica. Senza questi servizi, molte madri sono costrette a lasciare il lavoro, con gravi ripercussioni sull'intero nucleo familiare».
Il 76% dei ragazzi ritiene che la verifica dell'età dovrebbe essere obbligatoria su tutte le piattaforme digitali, mentre gli argomenti per i quali dichiarano di avere più bisogno di informazioni per potersi difendere o per poterli evitare vi sono al primo posto le fake news (40%), seguite da privacy e dati personali (34%), cyberbullismo (32%) e adescamento (31%).
Sono alcuni risultati dell’indagine di Telefono azzurro e BVA-Doxa presentata lunedì 10 febbraio a Milano in occasione dell’evento organizzato per il Safer Internet Day 2025.
Dall’indagine emerge tra i giovani una mancanza di consapevolezza sui potenziali effetti negativi dei social media che evidenzia la necessità di programmi educativi mirati. Il 63% degli intervistati dichiara di aver provato almeno un’emozione mentre era sui social: il 24% invidia verso la vita degli altri, il 21% si è sentito diverso/a, il 19% inadeguato/a.
I ragazzi e le ragazze dichiarano inoltre che se fossero vittima di violenza sessuale online, lo segnalerebbero soprattutto ai genitori (76%), solo il 40% alle Forze dell’ordine (40%) e il 14% agli amici. In caso di contenuti online potenzialmente dannosi o illeciti riguardanti altri minori o di episodi di cyberbullismo contro altri, la quasi totalità dei ragazzi segnalerebbe il fatto (98%-99%) e più del 70% anche in questo caso ai genitori.
Dallo studio emerge poi che il 44% dei ragazzi ritiene l’age verification uno strumento utile per proteggere i minori, mentre il 33% la ritiene fastidiosa, ma necessaria e solo il 15% la considera inutile. Il 76% ritiene che dovrebbe essere obbligatoria su tutte le piattaforme che offrono contenuti potenzialmente inappropriati per i minori e il 37% indica in 16 anni l'età “giusta” fino alla quale è necessaria la verifica. La consapevolezza dell’importanza dell’age verification è comunque più alta tra i genitori, dove la percentuale di chi la ritiene una pratica utile e necessaria sale al 71%.
Anche in merito all’intelligenza artificiale una delle preoccupazioni principali dei ragazzi (40%) è legata alle fake news, ovvero al timore di non riuscire a capire quali siano le informazioni affidabili e quali no. L’Ia sta modificando profondamente anche lo scenario del cyberbullismo e dello sfruttamento sessuale online, introducendo nuovi rischi legati alla generazione e alla diffusione di contenuti di abuso e violenza. I deepfake, in particolare, costituiscono una delle minacce più preoccupanti legate all’Ia nel contesto di CSAM (Child Sexual Abuse Material) e CSEM (Child Sexual Exploitation Material). I giovani affermano infatti che un deepfake che li ritrae causerebbe in loro forti disagi emotivi: il 40% teme, per esempio, che tali contenuti possano distruggere le loro relazioni sociali e la loro reputazione.
«Affrontare la sfida di costruire un ambiente digitale più sicuro e inclusivo richiede un impegno globale» commenta il presidente di Telefono azzurro, Ernesto Caffo. «È fondamentale investire in infrastrutture sostenibili – sostiene - rafforzare la governance delle piattaforme digitali per proteggere i diritti dei minori e promuovere una cooperazione internazionale che riduca le disuguaglianze». Anche le piattaforme, per Caffo, «devono farsi promotrici di questo cambiamento e privilegiare il benessere di bambini e adolescenti rispetto agli interessi commerciali, promuovendo l’educazione digitale sia per i più giovani che per genitori ed educatori. È una responsabilità collettiva verso un futuro in cui ogni bambino possa prosperare in un ambiente digitale sicuro e favorevole al suo sviluppo. Ogni passo in questa direzione – conclude - rappresenta un investimento per un domani più equo, sostenibile e inclusivo per tutti i minori del mondo».
Andrea Mandelli è stato confermato presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi) per il quadriennio 2025-2029. La proclamazione è avvenuta al termine delle elezioni che si sono tenute a Roma dal 7 al 9 febbraio per il rinnovo delle cariche del Comitato centrale e del Collegio dei revisori.
Altissima la partecipazione al voto, al quale hanno preso parte 97 Ordini provinciali su 100, esprimendo una scelta nel segno della continuità. Oltre alla conferma di Andrea Mandelli alla presidenza, il nuovo Comitato Centrale ha confermato Luigi D’Ambrosio Lettieri nel ruolo di vicepresidente, Maurizio Pace alla carica di segretario e Mario Giaccone a quella di tesoriere.
«Per me è un onore e un grande orgoglio – assicura Mandelli - continuare a rappresentare i 105 mila farmacisti italiani; continuerò a svolgere questo ruolo mettendo le mie energie e le mie competenze al servizio di tutta la comunità professionale per proseguire il percorso straordinario di evoluzione che ci ha visti protagonisti in questi anni, avendo sempre ben saldo l’obiettivo di rafforzare il nostro ruolo e le nostre competenze per apportare valore al Servizio sanitario nazionale, a beneficio dei cittadini».
Come Federazione !continueremo a guardare all’innovazione e alla sostenibilità come due aspetti centrali per il futuro della professione – aggiunge Mandelli - e per il contributo che possiamo dare al Paese. Continueremo a portare stimoli e a essere aperti al confronto con tutti gli attori del sistema salute per costruire una sanità più efficiente e sostenibile, centrata sulle esigenze reali dei pazienti».
Gli esiti riportati dai pazienti nell’utilizzo di un farmaco dovrebbero diventare uno dei fattori chiave nella valutazione, negoziazione di prezzi e rimborsi e accesso a livello regionale dei medicinali.
Questo l’indirizzo emerso nel corso del convegno “Value Added Medicines nella prospettiva dei pazienti”, organizzato lunedì 10 febbraio a Roma per presentare i risultati di un progetto dedicato al contributo dei Patient-Reported Outcome (PRO) e dei Patient-Reported Experience (PRE) nella valutazione e nell’accesso al mercato dei farmaci e in particolare delle Value Added Medicines (VAM).
Lo studio è stato realizzato da un team coordinato da Claudio Jommi (Dipartimento di Scienze del farmaco dell’Università del Piemonte orientale), sostenuto dal Gruppo VAM di Egualia e condiviso con rappresentanti di Favo, Eupati e Cittadinanzattiva.
Obiettivo dello studio, spiega Jommi, «è da una parte riconoscere che la priorità del Ssn è e deve rimanere su farmaci a valore terapeutico aggiunto, elemento che peraltro include strutturalmente la qualità di vita correlata allo stato di salute. Dall’altra è importante valorizzare l’esperienza dei pazienti, purché supportata da dati robusti, attraverso una generale considerazione delle evidenze che emergono e che, assieme all’impatto organizzativo, fanno parte del Dossier di Prezzo erRimborso. Ma si può andare oltre – sostiene Jommi - se si assume che una più facile gestione di una terapia possa aumentare aderenza e persistenza e, quindi, l’efficacia del farmaco. In questo caso si può prevedere che l’impresa farmaceutica avanzi la richiesta di un premio di prezzo contenuto o altre modalità incentivanti, con successiva conferma a massimo tre anni sulla base di dati real-world. Si tratterebbe di accordo di rimborso o prezzo condizionati alla conferma di una maggiore aderenza o persistenza al trattamento, da implementare con un Managed Entry Agreement».
La speranza delle aziende produttrici «è che la ricerca e sviluppo di soluzioni terapeutiche basate sulle molecole consolidate sulle quali si concentra la nostra expertise possa essere riconosciuta e pienamente valutata nella definizione delle condizioni di accesso al mercato – interviene il presidente di Egualia, Stefano Collatina – anche in considerazione del valore aggiunto generato da una maggiore accettabilità e semplicità di utilizzo che caratterizza le Value Added Medicines. Auspichiamo poi che questi domini di valore siano considerati anche come componenti della qualità nella gestione delle procedure d’acquisto pubbliche, evitando che gli accordi nazionali, come i MEA richiamati dal professor Jommi, possano poi essere inficiati da approcci competitivi a livello locale. Il nostro Paese – conclude Collatina - rischia di perdere l’opportunità di migliorare l’assistenza farmaceutica se non aprirà alla valutazione di altri domini di valore, accanto a quelli tradizionalmente riconosciuti all’innovazione».
“Siediti, ascolta e comprendi. Un battito d’ali per un grande cambiamento”. È questo il claim della nuova Campagna 2025 di Fondazione Lice presentata lunedì 10 febbraio a Roma in occasione della Giornata internazionale per l’epilessia.
Il colore viola, simbolo del pregiudizio e della discriminazione ancora oggi legati all'epilessia; la Triple Bench, la panchina viola disegnata dal designer statunitense Chris Bangle, fondatore del Big Bench Community Project; il volo di farfalle, a simboleggiare il butterfly effect: questi gli elementi principali che ricorrono nella nuova Campagna che ha l’obiettivo di diffondere una corretta conoscenza delle epilessie e favorire l’abbattimento dello stigma che tuttora circonda le persone che ne sono affette, i loro familiari e caregiver.
«Sarà una grande emozione anche quest’anno – assicura Oriano Mecarelli, presidente della Fondazione Lice – poter assistere all’installazione di nuove panchine viola dedicate all’epilessia, a oggi sono oltre quaranta su tutto il territorio nazionale». L’obiettivo della Campagna per il 2025 è «di far conoscere le problematiche psico-sociali correlate all’epilessia attraverso il linguaggio universale dell'arte – aggiunge - con performance che includeranno danza, musica, teatro e arti visive, come strumento di educazione e consapevolezza, al fine di sensibilizzare il pubblico sulla condizione delle persone che ne soffrono».
Nella serata del 10 febbraio numerosi monumenti ed edifici pubblici italiani, come il Colosseo a Roma, si illumineranno di viola. Sempre a Roma, domenica 16 febbraio sarà installata al MAXXI la Triple Bench, attorno alla quale si svolgeranno performance artistiche a cura degli allievi e professionisti della Rome University of Fine Arts (RUFA) e la performance live dello street artist Luca Vollono, che dipingerà dal vivo una grande tela con la rappresentazione del volo di farfalle, simbolo della Giornata. Dal 10 febbraio attività di questo tipo prendono il via in molte altre città italiane.
«Siamo davvero felici di annunciare la Campagna 2025 – sostiene Carlo Andrea Galimberti, presidente Lice – che proseguirà tutto l’anno portando avanti progetti di ampio respiro. Anche in questa nuova edizione, vogliamo ribadire il nostro impegno contro lo stigma sociale nei confronti delle persone con epilessia per continuare a sensibilizzare tutta la comunità. L’epilessia è una malattia cronica che impatta inevitabilmente sulla vita quotidiana di chi ne soffre e di chi se ne prende cura. Lice da sempre sostiene le persone con epilessia, affinché non si arrendano alla propria condizione, lottando per raggiungere una sempre migliore qualità di vita».
Dal mese di marzo si è prevista inoltre l'organizzazione di un contest nazionale dedicato alla comunicazione visiva e al design per gli studenti dei Licei artistici, degli Istituti professionali e per gli allievi di alcune Accademie d’arte, che verranno invitati a creare elaborati artistici sul tema dell’epilessia, utilizzando come fil rouge simbolico la panchina e la farfalla viola. Alla scuola vincitrice Fondazione Lice donerà una panchina viola da collocare nel proprio cortile interno e un premio in denaro. Le opere più significative verranno raccolte in un supporto digitale e diffuse attraverso i canali social di Lice e Fondazione Lice. I partecipanti saranno inoltre invitati a partecipare alle future attività della Fondazione.
Andrea Lenzi, presidente di Health City Institute (HCI), è il nuovo portavoce della Rete delle Cattedre UNESCO italiane (ReCUI) per il mandato 2025-2027. Subentra a Patrizio Bianchi, già ministro dell’Istruzione.
L’elezione si è svolta nei giorni scorsi in occasione del convegno annuale della Rete che si è tenuto presso il Rettorato dell’Università di Roma la Sapienza.
Andrea Lenzi è direttore della UNESCO Chair “Urban Health Through Education and Research for improved health and Well-being in the cities” dell’Università di Roma la Sapienza, professore emerito di Endocrinologia della stessa Università e presidente del Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita della Presidenza del Consiglio dei ministri.
La Rete delle Cattedre UNESCO Italiane si inserisce in un network globale, lanciato nel 1992, di cui fanno parte oltre mille Cattedre in 125 Paesi nel mondo (Programma UNITWIN/UNESCO Chairs). Le Cattedre sono programmi istituiti dall’Organizzazione delle nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura con l’obiettivo di promuovere la cooperazione internazionale tra università e centri di ricerca su temi di grande rilevanza globale, come l’istruzione, la cultura, la sostenibilità, il benessere e la salute.
«È sempre più importante e urgente rafforzare il ruolo della multilateralità e della cooperazione internazionale, cui le Cattedre UNESCO nel mondo contribuiscono per un futuro dell’educazione che possa essere sempre più al servizio della pace» sostiene Lenzi. «Sono onorato del compito conferitomi – aggiunge - ed esprimo un ringraziamento alla Rete italiana per avermi eletto a portavoce, un ruolo che svolgerò con il massimo impegno nel solco di quanto Patrizio Bianchi, con merito e con passione, ha plasmato in questi anni di intenso lavoro».
Per i pazienti con mieloma multiplo che non possono essere sottoposti a trapianto di cellule staminali ematopoietiche è disponibile un nuovo regime terapeutico che riesce a prolungare la sopravvivenza libera da progressione di malattia. Il Comitato per i Medicinali per Uso Umano (Chmp) dell'Agenzia Europea per i Medicinali (Ema), ha infatti dato l’ok all’approvazione di isatuximab, in aggiunta allo standard di cura composto da bortezomib, lenalidomide e desametasone), nel trattamento dei pazienti adulti con mieloma multiplo di nuova diagnosi non eleggibili al trapianto autologo di cellule staminali.
Il mieloma multiplo è un tumore che colpisce le plasmacellule, un tipo di cellule del midollo osseo, causandone una moltiplicazione abnorme. In Italia ogni anno tra 4.500 e 6.000 persona hanno diagnosi di mieloma multiplo; quasi la metà ha più di 70 anni, ma il tumore può colpire anche persone più giovani.
A oggi esistono due approcci al trattamento del mieloma multiplo: una fetta di pazienti - più giovani e senza controindicazioni - può intraprendere la strada del trapianto di cellule staminali ematopoietiche, che serve a ripristinare il sistema ematopoietico responsabile della produzione delle cellule del sangue. È un trattamento che può liberare dalla malattia per lunghi periodi di tempo, ma solo in rari casi può essere risolutivo: la malattia ha infatti una elevata tendenza a recidivare. Inoltre, è un approccio che non è esente da rischi e a cui solo una porzione di pazienti può ricorrere.
Per tutti gli altri si opta per regimi terapeutici che comprendono diversi farmaci. È a una parte di questi che si rivolge la nuova opzione terapeutica approvata dall’Ema, che aggiunge isatuximab a uno dei regimi di trattamento standard.
«Il mieloma è una patologia per la quale negli ultimi venti anni l’ambito terapeutico è stato interessato da una vera e propria rivoluzione», spiega Maria Teresa Petrucci, dirigente medico all’Ematologia dell’Azienda Policlinico Umberto I, del Dipartimento di Biotecnolgie cellulari ed ematologia dell'Università Sapienza di Roma.
«Oggi abbiamo molti pazienti lungosopravviventi – osserva - grazie ai tanti nuovi trattamenti di cui disponiamo. Tra questi, un’associazione di tre farmaci che sono bortezomib, lenalidomide e desametasone ha decisamente migliorato l’outcome. L’aggiunta di isatuximab ha ulteriormente migliorato l’andamento della malattia, con risposte molto profonde e sopravvivenze molto lunghe».
Isatuximab è un anticorpo monoclonale che si lega a una porzione della proteina CD38, un recettore presente in quantità elevata sulla superficie delle cellule di mieloma multiplo. Legandosi alle cellule tumorali, il farmaco ne induce la morte e allo stesso tempo attiva diversi meccanismi immunitari finalizzati a combattere il tumore. Sia in Europa sia in Usa il farmaco è già approvato in associazione con altri regimi terapeutici come seconda o successiva linea di trattamento in pazienti con mieloma multiplo che sia recidivato.
La nuova approvazione da parte dell’Ema rende disponibile isatuximab anche come trattamento di prima linea per i pazienti di nuova diagnosi che non possono accedere al trapianto.
La decisione dell’Agenzia europea si basa sui dati dello studio fase 3 IMROZ.
Dalla sperimentazione, «quello che vediamo con delle osservazioni di quasi 60 mesi sono delle progression free survival, cioè pazienti che sono senza malattia, che si protraggono per anni, con sopravvivenze che vengono proiettate a 90 mesi», illustra Petrucci. Nel dettaglio, lo studio mostra che rispetto al regime senza isatuximab, l’aggiunta del farmaco riduce del 40% il rischio di progressione della malattia o di morte.
«Se pensiamo che si parla soprattutto di pazienti anziani - ricordo che l'età media dei nostri pazienti è di circa 70 anni - a cui possiamo assicurare delle sopravvivenze anche di 90 mesi, si va verso la possibilità di cronicizzare questa malattia grazie all’aggiunta di questo farmaco».
Il trial, inoltre, ha fatto emergere un altro aspetto. «Questo farmaco non agisce in modo negativo sulla qualità di vita. Ciò consente di prolungare le sopravvivenze e di renderle anche accettabilissime, in cui i pazienti fanno vite pressoché normali», conclude Petrucci.
«Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, il mieloma multiplo resta una malattia inguaribile. Sanofi, recependo questa esigenza, ha sviluppato isatuximab, che oggi è il primo trattamento anti-CD38 approvato in Ue in combinazione con la terapia standard per questa tipologia di pazienti», dice Mariangela Amoroso, Country Medical Lead & Medical Head Specialty Care di Sanofi Italia.
L’impegno dell’azienda in campo oncologico e oncoematologico è di lunga data. «La nostra intenzione è quella di sviluppare trattamenti potenzialmente trasformativi che sfruttino il potere dell’immunità innata e adattativa», spiega Amoroso. «È questa l’ambizione di Sanofi: diventare leder globali dell’immunologia. Ciò rappresenta un elemento chiave di tutta la nostra strategia che è basata sull’innovazione scientifica, il focus sui pazienti e le collaborazioni strategiche».
L’azienda, continua Amoroso, punta allo sviluppo di meccanismi d’azione o combinazione che «sono sempre indirizzate a dei potenziali “primi della classe” o i “migliori della classe”. E abbiamo esempi concreti, come isatuximab nel mieloma multiplo, gli NK cell engagers, le terapie CAR-T in vivo, gli anticorpi bipecifici o le terapie cellulari», conclude Amoroso.
Mieloma multiplo, un nuovo trattamento per i pazienti che non possono accedere al trapianto Ok Ue a isatuximab in aggiunta al regime di trattamento standard. Prolunga la sopravvivenza e avvicina alla cronicizzazione Leggi tutto Altre notizie Sincope: ogni anno 2 milioni di italiani perdono i sensi, 187 mila vanno al Pronto soccorso. Un ospedale su tre non ha un Centro dedicato Rinnovati i vertici dell’Associazione per l’integrità della salute e del sistema sanitario e sociale Tumori: dalle esperienze dei pazienti all’impegno comune per il diritto alla salute Tumori, all’Istituto superiore di sanità si punta a battere le cellule dormienti
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