Secondo il rapporto del World Economic Forum sugli effetti del cambiamento climatico sulla salute umana, entro il 2050 a causa dell’aumento delle temperature globali potrebbero essere oltre mezzo milione in più le persone esposte a malattie trasmesse da insetti come Dengue, malaria e Zika.
Già oggi, però, quelle che vengono classificate come malattie tropicali neglette (NTDs) colpiscono circa 1,7 miliardi di persone nel mondo. Si tratta di un gruppo eterogeneo di patologie, molte delle quali infettive, causate da virus, funghi, batteri e tossine, accomunate dall’essere diffuse nelle zone povere e marginalizzate del mondo, specialmente tropicali e subtropicali, con scarse risorse.
I massimi esperti internazionali faranno il punto su queste malattie a Verona il 30 gennaio in un convegno organizzato dall’Irccs di Negrar.
«Malgrado le difficoltà di finanziamenti, soprattutto a seguito dell'epidemia di Covid-19 che in molti Paesi ha causato l'interruzione dei programmi di controllo, gli sforzi internazionali hanno permesso di eliminare alcune di queste malattie e di ridurne la prevalenza» sottolinea Federico Gobbi, direttore del Dipartimento di Malattie infettive e tropicali dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e professore di Malattie infettive all’Università di Brescia.
Per contrastare ed eliminare le NTDs, ricorda Denise Mupfasoni del Dipartimento NTDs dell’Oms, «l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato una road map per le malattie tropicali dimenticate per il decennio 2021-2030 nella quale sono definiti gli obiettivi globali per prevenire, controllare ed eradicare queste patologie».
A oggi, trascorsi quattro anni dall’introduzione del Piano dell'Oms, i risultati raggiunti, osserva Dora Buonfrate, direttrice del Centro collaboratore dell’Oms per la strongiloidosi e le altre malattie tropicali neglette, «sono confortanti, infatti si è raggiunta l’eliminazione di almeno una malattia tropicale negletta in 54 Paesi tra i cento previsti dalla road map e sono oltre 600 milioni le persone che non avranno più necessità di cure, con un significativo risparmio in termini di risorse economiche e sanitarie». Tuttavia, avverte, «siamo ancora lontani dal target ottimale fissato dalla road map dell’Oms, pari al 90% di riduzione» e pertanto, aggiunge Gobbi, c’è ancora «molto lavoro da fare per diminuire le infezioni e la circolazione delle malattie e per ridurre il pericolo a livello globale».
In Italia, 2024 anno record di casi di DengueLa scorsa estate ha segnato il record nel nostro Paese di casi di Dengue a trasmissione autoctona: 213 che vanno ad aggiungersi ai 474 casi d’importazione.
La Dengue è una malattia infettiva, non trasmissibile da uomo a uomo, ma attraverso la zanzara tigre, che è presente in Italia dal 1990. Asintomatica in più del 50% dei casi, può manifestarsi con sintomi simili a quelli dell’influenza, febbre alta, mal di testa, dolori dietro agli occhi e soprattutto forti dolori ai muscoli, caratteristica per cui la Dengue è conosciuta come “febbre spaccaossa”. In una minima percentuale può evolversi in febbre emorragica con perdita di sangue da diversi organi e può avere esiti anche letali. Non esiste terapia farmacologica specifica e il vaccino, introdotto in commercio nel 2023, è indicato solo per i viaggiatori che si recano spesso in zone endemiche o dove è presente un’epidemia.
«In Italia nei prossimi anni assisteremo molto probabilmente a epidemie sempre più importanti di Dengue – prevede Gobbi - complice l’innalzamento della temperatura che favorisce la sopravvivenza e la proliferazione della zanzara vettore della malattia. Ma dobbiamo prepararci a epidemie autoctone anche di chikungunya e di altre malattie tropicali neglette».
Svolgere serenamente il proprio lavoro di medici e, come cittadini, continuare ad avere «un servizio di cure pubblico, umano, condiviso e universale, come sancisce la nostra Carta costituzionale». Un duplice obiettivo, questo, per raggiungere il quale sono «essenziali» la definizione di atto medico; la revisione della responsabilità medica; rendere attrattiva e riqualificare la professione medica; garantire la tutela dei professionisti e la sicurezza sui luoghi di lavoro; rinsaldare il rapporto medico-paziente; la definizione di un nuovo patto per la salute; l'adozione di un approccio “One Health”.
È, in sintesi, quanto di legge a conclusione del “Manifesto” unitario sottoscritto dalla quasi totalltà delle organizzazioni sindacali dei medici che a vario titolo lavorano per il Servizio sanitario nazionale, dagli ospedalieri agli specialisti ambulatoriali ai medici di famiglia ai pediatri di libera scelta, dipendenti e convenzionati.
Il documento è stato presentato sabato 25 gennaio, quando i sindacati hanno riunito i rispettivi Direttivi nazionali, e hanno annunciato la mobilitazione sotto lo slogan unitario “Investire sui medici per salvare il Servizio sanitario nazionale”.
«Nasce oggi un movimento che ci auguriamo possa essere sempre più largo e che non riconosce leadership personali o sindacali – si legge ancora nel “Manifesto” - ma si identifica in un’idea diversa di sanità, un’idea diversa di professionista. Nasce un movimento che punta a dialogare contestualmente con Istituzioni che abbiano un ruolo ben definito e con i cittadini, rispetto ai quali abbiamo il dovere e il diritto di riacquisire un rapporto che sostituisca quello economicistico verso cui è virato. Nasce oggi una mobilitazione allargata alla società, ai medici tutti».
La mobilitazione annunciata dai sindacati (Anaao Assomed, Cimo-Fesmed, Als, Gmi, Fimmg, Fimp, Sumai, Smi, Snami, Ftm) ha il sostegno della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) e vedrà la partecipazione di Cittadinanzattiva. Inizierà con manifestazioni locali e regionali per portare «all’attenzione dei cittadini e delle Istituzioni regionali le nostre istanze, le nostre proposte, le nostre aspettative» e avrà il suo culmine a maggio, con una manifestazione nazionale a Roma.
«Non ci fermeremo – avvertono comunque i sindacati - finché non vedremo un cambiamento reale che restituisca dignità ai medici, accessibilità alle cure e un futuro al nostro Servizio sanitario nazionale».
Filippo Anelli è stato riconfermato alla Presidenza dei medici italiani. Si è infatti conclusa con la sua nomina a presidente la tre giorni elettorale che, da venerdì 24 a domenica 26 gennaio a Roma, ha visto i presidenti degli Ordini territoriali e quelli delle Commissioni Albo odontoiatri (Cao) esprimere le proprie preferenze per il rinnovo dei vertici della Fnomceo, la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.
Vicepresidente è stato confermato Giovanni Leoni, segretario Roberto Monaco, mentre il nuovo tesoriere è Brunello Pollifrone, presidente Cao di Roma. Tutti, così come Anelli, sono stati eletti all’unanimità dai componenti del nuovo Comitato centrale.
A votare, 105 presidenti d’Ordine su 106 e tutti i 106 presidenti delle Cao.
En plein, per i componenti medici del Comitato Centrale, per la lista “Innovare la Professione”, guidata da Anelli, eletta con l’80% delle preferenze. Finisce 8 a 1, invece, la corsa per la Commissione Albo odontoiatri, a favore della lista “Unità e cambiamento”, capitanata da Andrea Senna, che vede tra i nove più votati anche il presidente uscente, Raffaele Iandolo. Proprio Senna (presidente Cao Milano) è stato eletto, all’unanimità, presidente della Cao nazionale; vicepresidente Nicola Cavalcanti (Presidente Cao Bari) , segretario Antonio Natale (presidente Cao Siena).
La Fnomceo e gli Ordini che la compongono «hanno contribuito in maniera sostanziale a raggiungere elevati livelli di tutela della salute nel nostro Paese – sottolinea Anelli al termine delle elezioni – attraverso il Servizio sanitario nazionale o la libera professione. Ed è proprio il Servizio sanitario nazionale a rappresentare uno strumento straordinario di democrazia, in quanto consente ai cittadini di poter ottenere la tutela della salute, diritto fondamentale previsto dalla Costituzione. Se ai cittadini chiediamo quale sia l’emergenza più critica – prosegue - la risposta è la sanità, con le liste d’attesa e la fuga dei professionisti dal Servizio sanitario nazionale, che porta alla carenza di personale sanitario. D’altro canto, il disagio dei medici è accentuato dalla carenza dei professionisti, dai carichi di lavoro e da un definanziamento costante. In questo contesto, va ringraziato il ministro Orazio Schillaci, medico, per il suo impegno per sostenere il Servizio sanitario nazionale e i professionisti, impegno che va sorretto e rafforzato».
«Si apre per gli Odontoiatri una nuova stagione – commenta dal canto suo Andrea Senna – in sinergia con la componente medica. Tutti insieme dobbiamo lavorare per realizzare il nostro programma e far evolvere le nostre professioni».
Tra i punti programmatici del nuovo Comitato Centrale, che rimarrà in carica sino al 2028, l’adozione del nuovo Codice di deontologia medica, attualmente in fase di revisione.
Un "D-Day" per denunciare le Aziende sanitarie che non rispettano le norme sulla sicurezza e che provocano stress correlato al lavoro.
Ad annunciarlo è l'Anaao Assomed, il principale sindacato della dirigenza medica e sanitaria del Servizio sanitario nazionale.
«L'operazione, ormai non più sotterranea, di delegittimazione del ruolo del medico e dell'infermiere in Italia prosegue anche sulla stampa» sostiene Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato. E cita a esempio un recentissimo articolo che «mette addirittura in dubbio l’autenticità del burnout: i medici si dichiarerebbero in burnout senza esserlo, ma solo perché “fa figo”, mettendo tra l’altro in discussione i dati ufficiali del ministero della Salute e dell'Ocse, secondo i quali questa sindrome colpisce il 51% dei medici».
D'altra parte, secondo Di Silverio, «parlare di burnout è pericoloso perché significherebbe ammettere che metà dei medici non è in grado di curare. Ma è più facile accusare i medici di opportunismo, far percepire alla popolazione che il problema dell'accesso alle cure non è il disinvestimento decennale in sanità, ma sono i medici stessi. Secondo questa narrativa – aggiunge - i medici sarebbero o pazienti psichiatrici o lavativi megalomani e masochisti che fingono di essere in burnout per apparire alle cronache».
Messaggi simili «fanno male ai professionisti – prosegue Di Silverio - e minano ulteriormente il rapporto di fiducia medico-paziente, già deteriorato nel tempo. Sarebbe, invece, più utile parlare dei medici, dei dirigenti sanitari e degli infermieri come professionisti seri che, nonostante tutto, non abbandonano la nave come avviene in altri Paesi per molto meno. Sarebbe più utile infondere fiducia nel medico e proteggere mediaticamente, legislativamente e socialmente una figura che, continuando così, sarà a breve in via di estinzione».
Per questo l'Anaao Assomed organizzerà a febbraio un "D-Day" per denunciare le aziende sanitarie inadempienti in fatto di sicurezza sul lavoro: «Denunceremo le condizioni di lavoro disastrose in cui migliaia di professionisti cercano di destreggiarsi ogni giorno tra burocrazia, aggressioni, tecnologie obsolete e obblighi amministrativi che non ci appartengono» annuncia Di Silverio.
«Chiunque attacchi i medici e i dirigenti sanitari – avverte infine il leader dell'Anaao Assomed - attacca tutti noi. E noi reagiremo con forza, anche nelle sedi legali. Chiediamo al ministro della Salute di intervenire sugli attacchi degli avvocati avvoltoi, di intervenire sulla depenalizzazione dell'atto medico e di dare un segnale di presenza, perché l'assenza è durata troppo tempo. E lo ribadiremo – conclude Di Silverio - sabato 25 gennaio a Roma insieme a tutti i colleghi e le colleghe che vorranno seguirci. Il tempo è scaduto».
Il colangiocarcinoma intraepatico (CCA) e la leucemia mieloide acuta (LMA) sono tumori rari e complessi con importanti bisogni medici non soddisfatti, soprattutto in termini di tempestività della diagnosi e opzioni terapeutiche. Ora però è disponibile anche in Italia ivosidenib, prima e unica target therapy per queste due forme tumorali che presentino una mutazione nel gene IDH1. È un nuovo trattamento orale a bersaglio molecolare, inibitore dell'enzima isocitrato deidrogenasi 1 (IDH1) mutato, coinvolto nella genesi di molti tumori.
Ivosidenib ha ottenuto la designazione di farmaco orfano per due indicazioni di trattamento: in monoterapia nei pazienti adulti con colangiocarcinoma localmente avanzato o metastatico con mutazione IDH1, precedentemente trattati con almeno una linea di terapia sistemica; in associazione con azacitidina, nei pazienti adulti con nuova diagnosi di leucemia mieloide acuta con una mutazione IDH1 che non sono idonei per la chemioterapia di induzione standard.
Il CCA è un tumore primitivo del fegato, raro e altamente maligno, che origina dai dotti biliari. La sua incidenza (circa 5.400 nuovi casi all'anno in Italia) è in aumento, ma la diagnosi avviene spesso tardivamente a causa di sintomi generici e dell’assenza di criteri diagnostici specifici. Circa il 40% dei pazienti presenta almeno un'alterazione potenzialmente trattabile con una terapia mirata, tra cui la mutazione IDH1 è riscontrata nel 15% dei pazienti con CCA intraepatico con un impatto prognostico negativo: la sopravvivenza a cinque anni è infatti molto bassa, il 17% negli uomini e il 15% nelle donne.
La disponibilità di ivosidenib, commenta Lorenza Rimassa, professoressa di Oncologia medica alla Humanitas University, «apre nuove prospettive terapeutiche nel trattamento del CCA intraepatico per una sottopopolazione di pazienti con limitate opzioni di cura e bisogni ancora insoddisfatti. L’efficacia del farmaco è stata dimostrata dallo studio ClarIDHy in cui emerge che nei pazienti trattati con ivosidenib la sopravvivenza libera da progressione mediana si è attestata a 2,7 mesi rispetto a 1,4 mesi nel gruppo placebo».
La LMA colpisce prevalentemente la popolazione anziana, con un'età mediana alla diagnosi di 68 anni. In Italia ha un’incidenza di 3,5 casi ogni 100 mila persone all'anno (oltre 2 mila nuovi casi annui). Il tasso di sopravvivenza a cinque anni rimane basso, attestandosi al 24%. È una neoplasia ematologica aggressiva che ha origine nel midollo osseo, producendo un eccesso di globuli bianchi anomali, caratterizzati da mutazioni del Dna che alimentano la progressione della malattia. Le mutazioni del gene IDH1, in particolare, sono riscontrabili nel 6-10% dei casi.
La LMA «è una malattia ematologica insidiosa e ancora complessa da trattare» sottolinea Adriano Venditti, direttore dell'Ematologia al Policlinico Tor Vergata di Roma. Tuttavia, per i pazienti adulti con nuova diagnosi e mutazione IDH1, non eleggibili alla chemioterapia di induzione standard, l’approvazione di ivosidenib è una nuova opportunità terapeutica. Dallo studio AGILE emerge infatti che il 54% dei pazienti trattati con la combinazione di ivosidenib e azacitidina ha dimostrato una remissione completa rispetto al braccio di controllo e un miglioramento statisticamente e clinicamente significativo della sopravvivenza globale mediana, che è risultata di 24 mesi per i pazienti trattati con ivosidenib in combinazione con azacitidina, rispetto ai 7,9 mesi osservati nel gruppo trattato con azacitidina e placebo».
Fondamentale è l’impiego di test di profilazione molecolare come il Next Generation Sequencing (NGS), «fortemente raccomandato in tutti i casi in cui si debbano determinare diverse alterazioni genomiche» spiega Nicola Normanno, direttore scientifico dell'Istituto romagnolo per lo studio dei tumori "Dino Amadori". «È importante sottolineare – aggiunge - che la prognosi dei pazienti con mutazioni di IDH1 può essere profondamente modificata dalla disponibilità di inibitori specifici. Grazie a ivosidenib, infatti, possiamo offrire ai pazienti una terapia target che agisce su un meccanismo molecolare comune a due patologie molto diverse tra loro, ampliando significativamente l'orizzonte delle possibilità terapeutiche».
Ivosidenib è una target therapy che permette il trattamento sia di tumori solidi sia di neoplasie ematologiche attraverso un unico meccanismo d'azione.
«Servier ha fatto della lotta contro il cancro una delle sue priorità – racconta Marie-Georges Besse, direttrice Medical Affairs del Gruppo in Italia - e siamo orgogliosi, ma al contempo consapevoli della grande responsabilità di essere l’unica azienda a sviluppare una franchise terapeutica dedicata alle neoplasie IDH mutate. Il nostro impegno nella ricerca e sviluppo di nuove terapie è rivolto ai tumori rari e difficili da trattare. Attualmente, sono in corso studi clinici di Fase III su differenti indicazioni di ivosidenib, tra cui il condrosarcoma e la sindrome mielodisplastica, con l’obiettivo di offrire ai pazienti nuove opzioni terapeutiche efficaci e rispettose della qualità di vita».
Una ricerca condotta dall'Istituto Neuromed in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e altri centri internazionali ha evidenziato come un particolare recettore nervoso, mGlu3, possa avere un’azione protettiva nell’evoluzione della malattia di Parkinson. Pubblicato sulla rivista npj Parkinson's Disease, lo studio suggerisce una strada per approcci terapeutici più efficaci.
Il recettore mGlu3, che appartiene al gruppo dei recettori metabotropici per il glutammato, è stato studiato sia in modelli animali sia in pazienti umani.
Per quanto riguarda i primi, i ricercatori hanno esaminato topi geneticamente privi di questo recettore, confrontandoli con topi nei quali il recettore era normalmente funzionante. Tutti gli animali sono stato esposti a una specifica sostanza (MPTP) che riproduce molti aspetti fisiologici del Parkinson. I risultati dell’esperimento hanno mostrato che gli animali privi di mGlu3 avevano un livello di danno neuronale e di infiammazione cerebrale più grave rispetto ai topi normali.
Successivamente sono state analizzate varianti del gene che codifica per l’mGlu3 (GRM3) in oltre 700 pazienti con Parkinson, messi a confronto con 800 partecipanti al Progetto Moli-sani che non erano affetti dalla patologia. Alcune delle varianti genetiche sono risultate legate a sintomi più gravi nei pazienti, di tipo sia motorio sia cognitivo, mentre nei test di plasticità cerebrale i pazienti portatori delle varianti mostravano risposte ridotte. Nei partecipanti sani, invece, non sono state osservate alterazioni significative, suggerendo che le varianti esercitino il loro effetto negativo principalmente in presenza della malattia.
ß«Secondo i nostri dati – racconta Luisa Di Menna, ricercatrice del Laboratorio di Neurofarmacologia del Neuromed e prima autrice dello studio - i recettori mGlu3 possono influenzare la vulnerabilità delle cellule nervose, nonché le risposte infiammatorie, nel corso della malattia di Parkinson. Questo ci fa pensare a nuove strade terapeutiche che possano agire su quel recettore in modo da rallentare la progressione della patologia».
Lo studio, commenta Ferdinando Nicoletti,-professore di Farmacologia alla Sapienza di Roma, «suggerisce che i recettori mGlu3 sono coinvolti nella fisiopatologia della malattia regolando sia i meccanismi di neurodegenerazione/neuroprotezione sia la plasticità corticale. I nostri risultati sono promettenti e potrebbero gettare le basi per una nuova strategia terapeutica volta a rallentare la progressione della malattia di Parkinson».
Domenica 26 gennaio ricorre la Giornata mondiale dei malati di lebbra, istituita settantadue anni fa da Raoul Follereau.
In occasione della Giornata, l'Associazione italiana amici di Raoul Follereau (Aifo Ats) organizza in molte Regioni italiane diverse iniziative per informare e sensibilizzare le persone sulla malattia che, nonostante sia curabile, è ancora un problema sanitario importante in diversi Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina, dove persistono condizioni socioeconomiche precarie che ne favoriscono la trasmissione. Centinaia di volontari Aifo saranno nelle piazze e parrocchie d’Italia con il “Miele della solidarietà” e il “Kit - Stare bene è un diritto” il cui ricavato finanzierà i progetti sociosanitari nel mondo, in particolare quelli per la lotta alla lebbra.
Il tema scelto per il 2025 è l’abbraccio come concetto che unisce. Lo slogan “Chi è malato guarisce solo se qualcuno lo abbraccia”, infatti, intende porre l’accento sulla centralità della persona e non della malattia e sottolineare l’importanza dell’inclusione, della cura e del sostegno per chi è malato, a partire dalle persone colpite dalla lebbra e per tutti coloro che vivono ai margini.
Nel 2023 sono stati registrati in totale 182.815 casi globali di lebbra con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente, come emerge dall’ultimo rapporto annuale sull’andamento della lebbra nel mondo pubblicato a settembre 2024 dall’Organizzazione mondiale della sanità. La concentrazione delle persone diagnosticate è soprattutto in tre Paesi: India, Brasile e Indonesia. Tra i nuovi casi il 5,7% sono bambini/e minori di 15 anni, mentre il 39,9% dei casi globali si riscontrano tra le donne.
«Aifo lavora prevalentemente in Paesi dove non esistono diritti, figuriamoci le opportunità - ricorda il presidente, Antonio Lissoni - ma il nostro lavoro è creare consapevolezza sui propri diritti, umani e sociali e cercare con ostinata determinazione di creare condizioni di crescita, di autonomia, mostrare a chi è più vulnerabile che ce la può fare. Ecco, questo è il significato della Giornata mondiale dei malati di lebbra: cura, ma non solo, formazione, ma non solo, soprattutto capacità di creare opportunità perché chi non lo è mai stato possa sentirsi persona, in grado di gestire la propria vita».
In Mozambico, classificato al 183° posto tra i 198 Paesi più poveri al mondo, Aifo ha incontrato Dario, la cui vita è stata segnata dalla lebbra: «La malattia non è solo fisica: l’esclusione e la discriminazione causano profonde ferite nella psiche delle persone colpite. Dario è stato fortunatamente diagnosticato per tempo e ha iniziato il suo percorso di cura e speranza grazie all’aiuto di Aifo».
Il progetto Dare (Disfagia assistenza remota) ha coinvolto più di 75 pazienti ed è stato voluto dall'Associazione per la lotta all’ictus cerebrale (Alice Italia Odv), che ha messo a disposizione delle persone che presentano difficoltà di deglutizione post ictus una piattaforma web con una lista di 26 video con istruzioni facilmente accessibili tramite un singolo link o QR code.
Deglutire è un’azione molto più complessa di quello che si potrebbe pensare. Mediamente lo facciamo più di mille volte al giorno per bere, mangiare ed eliminare la saliva che si forma in gola. Proprio la difficoltà a deglutire, la disfagia, è una delle conseguenze che può manifestarsi dopo essere stati colpiti da ictus cerebrale. Si stima, infatti, che una percentuale compresa tra il 27 e il 64% delle persone colpite da ictus manifesti questa complicanza entro i primi tre giorni dall’evento acuto; una complicanza che può presentarsi con vari livelli di gravità: dalla occasionale difficoltà a deglutire solo alcuni tipi di cibo alla totale impossibilità di alimentarsi, arrivando, nei casi più gravi, fino al non riuscire a gestire la propria saliva.
Oltre a causare problemi di disidratazione e malnutrizione, la disfagia può anche provocare la polmonite “ab ingestis” (da aspirazione di materiale estraneo), che si verifica in una percentuale di pazienti tra il 19,5% e il 42% entro i primi cinque giorni dopo l’ictus. In alcuni casi il problema si risolve da solo nell’arco di pochi giorni, mentre in altri può permanere fino a sei mesi e oltre.
«La presenza di disfagia può aumentare il livello di stress soprattutto quando diventa una condizione prolungata – osserva Maurizio Massucci, direttore della Struttura di Riabilitazione intensiva ospedaliera dell'Azienda Usl Umbria 1, uno degli ideatori del progetto - e la gestione è spesso a carico dei caregiver che diventano i principali responsabili della preparazione dei pasti modificati e di tutti gli aspetti correlati. Il ruolo del caregiver è di vitale importanza perché può fungere da rinforzo con atteggiamenti positivi per favorire un miglior recupero, può essere di sostegno durante il percorso riabilitativo e ridurre il livello di preoccupazione legato alla difficoltà di questa situazione».
Il paziente e/o il suo caregiver, al proprio domicilio, utilizzando un Pc o un semplice smartphone, può accedere in modo anonimo con un click dal sito di Alice alla piattaforma visualizzando solo i contenuti selezionati per lui dal team (sarà sempre comunque necessario contattare il servizio che lo ha in carico in caso di aggravamento o modificazioni del quadro clinico-funzionale iniziale).
«Siamo orgogliosi di questa prima fase di sperimentazione – assicura Andrea Vianello, presidente di Alice Italia – e ci auguriamo che possa consentire il successivo sviluppo di un servizio ampliato e permanente. Si tratta di uno strumento che può facilitare la gestione domiciliare della disfagia, migliorare lo stress quotidiano di chi ne è colpito, e del suo familiare/caregiver e anche ridurre le possibili complicanze legate a un non corretto comportamento o, in generale, a una scarsa consapevolezza di come risolvere i problemi conseguenti a questa problematica».
Nella fase pilota del progetto la piattaforma poteva gestire contemporaneamente duecento pazienti assegnati a operatori sanitari distribuiti sul territorio nazionale.Il progetto prevede però la possibilità di estensione delle capacità della piattaforma, in modo da poter moltiplicare sia il numero di operatori sia di pazienti.
Essere costituite da almeno dieci anni: è questo il requisito per poter aderire al Registro unico delle associazioni della salute (Ruas) che raccoglierà gli Enti del Terzo settore attivi in ambito sanitario. Ed è proprio questo requisito che desta preoccupazione tra le organizzazioni dei pazienti, in particolare quelle di persone con malattie rare. Nell'ultima Legge di Bilancio, infatti, è stata prevista e disciplinata l’istituzione del Ruas, i cui criteri per l’adesione, tuttavia, potrebbero non includere le Associazioni di pazienti con malattie rare, impedendo loro di partecipare ai principali processi decisionali individuati dal ministero della Salute e alle fasi di consultazione della Commissione scientifica ed economica (Cse) dell'Aifa nelle aree da questa indicate.
Non per nulla sono già 43 le firme sulla lettera indirizzata ai parlamentari dalle Associazioni e Organizzazioni di pazienti e di cittadini dell’InPags Network.
«Molte delle organizzazioni operanti nel contesto delle patologie rare hanno origine dagli stessi pazienti o dalle loro famiglie che ricevono una diagnosi, ancora troppo spesso, dopo molti anni di attesa» sottolinea il gruppo dell’InPags Network. «Negli ultimi cinque anni – ricorda la lettera - la ricerca scientifica ha consentito di arrivare a diagnosticare moltissime malattie rare; questo importante risultato ha aumentato il numero di organizzazioni che oggi si sono costituite per portare avanti le istanze dei propri associati».
Alla luce di ciò, il criterio introdotto con la Legge di Bilancio limiterebbe «la partecipazione di un rilevante numero di Associazioni che, considerando l’eterogeneità e la complessità delle patologie rare, potrebbe dare un valido contributo soprattutto all’Agenzia italiana del farmaco. Queste Associazioni, seppur “giovani”, vivendo quotidianamente la malattia potrebbero ben rappresentare l’impatto che la stessa genera sulla vita delle persone che ne sono affette e delle loro famiglie».
«Siamo convinti che la partecipazione, specialmente nelle decisioni della Commissione scientifica ed economica di Aifa, debba avvenire seguendo regole ben definite e strutturate – dice Francesco Macchia, Managing Director di Rarelab, che coordina l’Inpags Network - e accogliamo, quindi, con favore l’attenzione verso il tema della rappresentanza posto nella Legge di Bilancio. Riteniamo, però, che i criteri stabiliti dal Legislatore siano troppo restrittivi – aggiunge - in particolare nel contesto delle malattie rare, e che dovrebbero, invece, essere inclusivi e tenere in considerazione la specifica natura delle Associazioni e Organizzazioni che rappresentano i pazienti con malattie rare, difficilmente comparabili per loro natura stessa ad altre realtà rappresentative».
Fare fronte, con un opportuno passo indietro, alla uscita della visita al fondo dell’occhio dai Lea e reinserirla quanto prima per evitare il grave impatto che questa decisione potrà avere sulla salute delle persone con diabete e sulla sostenibilità del Servizio sanitario.
È questa la richiesta dell'Associazione italiana diabetici Fand che lancia l’allarme e fa appello all’importanza imprescindibile della prevenzione.
«Come organizzazione che rappresenta la persone con diabete - dichiara il presidente Emilio Augusto Benini - siamo preoccupati» perchè questa fuoriuscita della visita al fondo dell’occhio dai Lea, «che rappresenta una pericolosa battuta d’arresto con inevitabili ripercussioni sui pazienti. Nel corso degli anni si sono registrati numeri in diminuzione relativamente alla retinopatia diabetica – ricorda Benini - e questo è dovuto principalmente a due fattori: il buon controllo glicemico dei pazienti grazie ai farmaci e la prevenzione svolta proprio dagli oculisti attraverso le visite ai pazienti. Ora con l’uscita dai Lea della visita al fondo dell’occhio, si mette a rischio questo secondo importante baluardo, cioè la prevenzione. Per questo motivo come Fand chiediamo che si faccia, urgentemente, un passo indietro rispetto a questa eliminazione dissennata e si ripristini questa condizione essenziale».
Questa «malaugurata scelta - aggiunge la vicepresidente Fand, Manuela Bertaggia - non potrà che tradursi nei prossimi anni in un forte aumento di complicanze oculistiche per i pazienti con diabete. Ma non solo: tutto questo non potrà che avere anche delle ripercussioni forti in termini di tenuta del sistema. La visita al fondo dell’occhio ha dimostrato di essere un caposaldo anche su questo fronte. È fondamentale puntare sulla prevenzione, che non va intesa come mera spesa – conclude - ma come investimento che, consentendo di risparmiare nel medio-lungo periodo, promuove fattivamente la sostenibilità del sistema sanitario».
«Uhhhh questo è un grande» ordine esecutivo. Con queste parole, il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato il documento che dispone l’uscita del Paese dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il dado è dunque tratto. Dopo che il primo tentativo, a pochi mesi dal termine del suo primo mandato, non è andato a buon fine dall’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden, ora Trump ha tutto il tempo per mettere in atto la sua uscita dall’Oms. Stop, dunque, al “trasferimento di eventuali fondi” dall’organizzazione internazionale, “ritiro del personale”, stop ai “negoziati sull'accordo pandemico dell'Oms e sugli emendamenti al regolamento sanitario internazionale”, si legge nell’ordine esecutivo.
Le ragioni dell’uscita, Trump le ha dichiarate in diretta, con sprezzante logica contabile. “Quando ho terminato il mio mandato pagavamo 500 milioni di dollari all’Oms, la Cina per 1,4 miliardi di persone - noi 325 milioni e loro 1,4 miliardi -pagano 39 milioni. E noi 500 milioni. Mi sembra un po’ ingiusto”, ha detto. “Questa è stata la ragione per il ritiro. Loro mi hanno offerto di tornare per 39 milioni ma quando Biden è tornato per 500 milioni, lui sapeva che poteva tornare indietro per 39 milioni”, conclude. “Cina paga 39 milioni e noi 500 milioni e la Cina è un Paese più grande”.
Il documento ripristina lo status quo del luglio 2020, quando Trump aveva disposto il primo ritiro degli Usa dall’Oms. All’epoca l’uscita degli Usa era legata alla “cattiva gestione da parte dell'organizzazione della pandemia di Covid-19 che è sorta a Wuhan, in Cina e di altre crisi sanitarie globali, alla sua incapacità di adottare le riforme urgentemente necessarie e alla sua incapacità di dimostrare l'indipendenza dall'influenza politica inappropriata degli Stati membri”, si legge.
Ora ci si chiede quale possa essere il futuro dell’Oms. Gli Usa finora sono stati il principale finanziatore. Nel biennio 2024-2025 hanno stanziato circa 1 miliardo di dollari su un budget dell’organizzazione di 6,5 miliardi (a cui tocca aggiungere circa 2 miliardi di risorse legate a interventi di emergenza o specifiche finalità).
Risorse che sono andate a finanziare per il 23,35% programmi per “l’accesso a servizi sanitari essenziali”, per il 23,05 la risposta a emergenze sanitarie “acute”, per il 18,43% il programma per l’eradicazione della poliomielite nel mondo, il 7,62% all’identificazione di minacce alla salute attraverso strumenti di sorveglianza, il 5,43% per i programmi di preparazione alle emergenze.
Un finanziamento prezioso che, per circa la metà, è stato diviso tra l’Africa e quella che l’Oms classifica come regione Orientale del Mediterraneo, che si estende dalla Tunisia al Pakistan e in cui si situano alcune delle principali emergenze sanitarie globali: Sudan, Somalia, Siria, Palestina, Afganistan.
L’uscita degli Usa rende più difficile il supporto a queste popolazioni, in un momento in cui - ha ricordato pochi giorni fa l’Oms - il mondo è interessato da un numero enorme di crisi sanitarie, 17 delle quali sono classificate come di grado 3, il più grave. Per rispondere a queste emergenze l’Oms aveva chiesto 1,5 miliardi aggiuntivi.
All’orizzonte, inoltre, si affaccia l’emergenza aviaria, che per il momento sta dilagando negli animali e che vedono proprio negli Stati Uniti uno dei focolai più preoccupanti con quasi mille allevamenti bovini interessati.
«Il ritiro dall'Oms non ‘Rende l'America di nuovo sana’, ma diminuisce gravemente l'influenza americana e la sua posizione nel mondo, minacciando i suoi interessi nazionali e la salute della popolazione», si legge in un editoriale pubblicato sul British Medical Journal, che riassume la posizione di gran parte del mondo sanitario globale.
Dal canto suo, l’Oms, ha risposto alla decisione di Trump con una nota in cui esprime il suo rammarico. “L'Oms svolge un ruolo cruciale nella protezione della salute e della sicurezza delle persone del mondo, compresi gli americani, affrontando le cause alla radice della malattia, costruendo sistemi sanitari più forti e rilevando, prevenendo e rispondendo alle emergenze sanitarie, compresi i focolai di malattie, spesso in luoghi pericolosi dove gli altri non possono andare”, si legge, ricordando come gli Stati Uniti siano un membro fondatore dell’Oms e abbiamo contribuito a raggiungere traguardi di salute globale epocali come la sconfitta del vaiolo.
“Speriamo che gli Stati Uniti riconsiderino e non vediamo l'ora di impegnarci in un dialogo costruttivo per mantenere la partnership tra gli Stati Uniti e l'OMS, a beneficio della salute e del benessere di milioni di persone in tutto il mondo”, aggiunge.
Generare evidenze scientifiche innovative grazie all’analisi di dati di pratica clinica: è questo il principale obiettivo del Protocollo d'intesa biennale biennale sottoscritto lunedì 20 gennaio tra Alleanza contro il cancro (Acc), la Rete oncologica nazionale del ministero della Salute coordinatrice del progetto Health Big Data, e Farmindustria, l'Associazione delle imprese farmaceutiche che operano in Italia.
La partnership si concretizzerà in uno studio osservazionale retrospettivo (cioè una ricerca che analizza eventi passati per studiare correlazioni, senza intervenire direttamente sui pazienti) basato su algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale, con un focus specifico per generare evidenze nel campo della gestione del dolore nella continuità assistenziale. Saranno messe a disposizione le competenze tecnico-scientifiche necessarie al disegno dello studio e supporto logistico mentre Farmindustria organizzerà incontri di approfondimento e metterà a disposizione il know-how delle circa duecento aziende associate.
L'accordo è «un passo fondamentale verso una ricerca più innovativa e concreta - sostiene Ruggero De Maria, presidente di Alleanza contro il cancro - incentrata sulla valorizzazione dei dati clinici reali e sull’applicazione di metodologie avanzate, come l’intelligenza artificiale. La collaborazione tra le Reti del ministero della Salute e Farmindustria crea un modello virtuoso di sinergia pubblico-privata, capace di trasformare la pratica clinica in evidenza scientifica di alto valore. Questa partnership offre inoltre – aggiunge - un'opportunità unica per comprendere il dolore oncologico e migliorarne la cura, con l'obiettivo di portare ai pazienti terapie sempre più efficaci e tempestive».
Il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani, spiega che «sono quattro le novità introdotte dal Protocollo che vede per la prima volta Farmindustria partecipare, seppur indirettamente, insieme agli Irccs coinvolti, a uno studio clinico retrospettivo. La prima – precisa - è l’uso di una “federazione” di banche dati sul modello del nascente European Health Data Space. La seconda riguarda la semplificazione nel ricorso all’uso secondario dei dati per Ricerca e sviluppo. Il terzo è l’utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale per analizzare i dati condivisi nel network. Infine, la generazione di evidenze per valutare nel complesso l’efficacia non solo clinica ma anche economica e sociale dei farmaci. Innovazioni che nel futuro dovrebbero trasformarsi in prassi consolidata. Il Protocollo di collaborazione con Acc – conclude Cattani - rappresenta quindi un ulteriore passo nella direzione per realizzare modelli organizzativi innovativi nel campo della medicina».
La Commissione europea ha dato il via libera all’allargamento della combinazione di prima linea dostarlimab più chemioterapia per tutte le pazienti con carcinoma endometriale primario avanzato o ricorrente. Questa approvazione amplia la precedente, includendo le pazienti che presentano tumori con capacità di riparazione del mismatch (MMRp) e microsatelliti stabili (MSS), vale a dire circa il 75% delle pazienti con diagnosi di cancro dell'endometrio, per le quali le opzioni di trattamento sono ancora limitate.
La decisione della Commissione si basa sui risultati dello studio Ruby, che ha mostrato un aumento mediano della sopravvivenza globale di oltre 16 mesi con la combinazione rispetto alla sola chemioterapia e una riduzione del 31% del rischio di morte.
«I medici – sottolinea Mansoor Raza Mirza, capo oncologo al Copenhagen University Hospital e ricercatore principale dello studio RUBY - aspettano da anni un'opzione immuno-oncologica che possa migliorare significativamente i risultati di sopravvivenza globale per le pazienti con cancro dell'endometrio primario avanzato o ricorrente MMRp/MSS. L'approvazione estesa rappresenta un progresso significativo – assicura - che mantiene questa speranza per tutte le pazienti con tumori dMMR/MSI-H e MMRp/MSS».
I dati sulla sopravvivenza globale erano stati presentati al meeting annuale della Society of Gynecologic Oncology sul cancro femminile il 16 marzo 2024 e pubblicati su Annals of Oncology il 9 giugno 2024. Negli Stai Uniti l’indicazione è stata estesa a tutte le pazienti adulte con carcinoma endometriale primario avanzato o ricorrente nell'agosto 2024.
«Per la prima volta – commenta Hesham Abdullah, Senior Vice President, Global Head Oncology, R&D di GSK - tutte le pazienti con cancro dell'endometrio primario avanzato o ricorrente nell'Unione europea hanno un trattamento immuno-oncologico approvato che ha mostrato un beneficio di sopravvivenza globale statisticamente e clinicamente significativo. Siamo orgogliosi che dostarlimab continui a ridefinire il panorama dei trattamenti per queste pazienti».
Mancavano pochi giorni a Natale quando il Rwanda ha dichiarato la fine dell’epidemia di Marburg, un virus simile a Ebola, che in poche settimane ha contagiato 66 persone e ne ha uccise 15. Ieri, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo neanche un mese, ha reso noto che il virus è tornato in Africa: questa volta in Tanzania, nella regione di Kagera. Sono 9 a oggi le persone contagiate e 8 sono decedute. La conferma che si tratti proprio di Marburg non è ancora arrivata ma i sintomi non lasciano molti dubbi: mal di testa, febbre alta, mal di schiena, diarrea, vomito con sangue, debolezza e, in una fase avanzata della malattia, emorragie. Nella zona, inoltre, «i serbatoi zoonotici, come i pipistrelli della frutta, rimangono endemici», spiega l’Oms e già nel 2023 la stessa regione era stato l’epicentro di un’epidemia di Marburg che aveva causato 9 casi e 6 decessi.
Le autorità sanitarie hanno già attivato le misure per identificare eventuali contagi.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha già classificato come alto il rischio sia per il Paese, sia per la più estesa regione centroafricana. I contagi si sono verificati nella regione di Kagera, area posta a ridosso del lago Victoria e confinante con Rwanda, Uganda, Burundi. «La malattia da virus Marburg non è facilmente trasmissibile», dal momento che la trasmissione «nella maggior parte dei casi richiede il contatto con i fluidi corporei di un paziente malato che presenta sintomi o con superfici contaminate da questi fluidi», aggiunge l’Oms. «Tuttavia, non si può escludere che una persona esposta al virus possa essere in viaggio».
Invece, per il momento su scala globale, il rischio di diffusione della malattia è considerato basso. «In questa fase non è confermata la diffusione internazionale, benché ci siano preoccupazioni sui potenziali rischi», continua l’organizzazione internazionale. Anche se l’area non è vicina alla capitale del Paese né ai principali aeroporti internazionali è comunque collegata all’aeroporto di Dar es Salaam e, da qui, passeggeri colpiti dal virus potrebbero andare in tutto il mondo, conclude l’Oms che sottolinea la necessità di rafforzare la sorveglianza e la capacità di gestire eventuali casi.
Il 2024 è stato un anno da record per i trapianti e le donazioni di organo IN Italia. Nell’anno da poco concluso sono state 2.110 le donazioni con un +2,7% rispetto al 2023; 4.692 i trapianti, 226 in più rispetto allo scorso anno (+5,1%). Sono i dati del rapporto sulle donazioni e i trapianti realizzato dal Centro Nazionale Trapianti presentato questa mattina al ministero della Salute.
Il tasso nazionale di donazione è salito a 30,2 donatori per milione di persone: è la prima volta che in Italia si supera quota 30, un livello che colloca il nostro Paese ai primi posti europei per donazioni di organi. Le regioni con il tasso più elevato si confermano Toscana (49,4 donatori pmp), Emilia-Romagna (45,5) e Veneto (44,7). Crescono, però, anche i tassi delle regioni meridionali (Sicilia +5,7, Campania +3,1, Calabria +2,7).
Per quanto riguarda i trapianti, sono stati quelli di cuore (+13%) e di rene (+6,6%) a crescere di più. I trapianti di rene sono stati complessivamente 2.393 (149 in più rispetto allo scorso anno), quelli di cuore 418 (nel 2023 erano stati 370). In aumento anche i trapianti di fegato 1.732 (+1,8%), in lieve calo quelli di polmone (passati da 188 a 174), stabili quelli di pancreas (36).
Tra gli elementi trainanti dell’aumento dell’attività di donazione e trapianto di organi c’è la crescita esponenziale della donazione a cuore fermo, ovvero quella da pazienti la cui morte viene accertata dopo un arresto cardiaco di almeno 20 minuti: le donazioni di questa tipologia sono cresciute del 30,8% arrivando a 276; 621 i conseguenti trapianti. Nel 2024 quelli da donazione a cuore fermo hanno rappresentato il 13,2% di tutti i trapianti realizzati.
Miglioramento anche nel campo del trapianto delle cellule staminali emopoietiche: nel 2024 è stato raggiunto il numero più alto di sempre sia per le donazioni (410) che per i trapianti (1.095) da non consanguinei. In quasi il 90% dei casi le cellule sono state prelevate da sangue periferico, la modalità meno invasiva, molto simile a una donazione di sangue. Crescono anche i donatori di midollo osseo: per la prima volta gli iscritti attivi nel registro IBMDR (ovvero le persone disponibili a donare) hanno superato il mezzo milione (512.194, con un +3,1% rispetto al 2023).
Restano però criticità. La principale è la crescita delle opposizioni nelle dichiarazioni di volontà raccolte nelle anagrafi comunali. Dei 3,7 milioni che le hanno espresso in sede di rinnovo della carta di identità il 36,3% ha detto no alla donazione dopo la morte. In questo momento nel Sistema informativo trapianti sono presenti 21,4 milioni di dichiarazioni di volontà: 15 milioni di consensi e 6,4 milioni di opposizioni. Al contrario, nelle rianimazioni la percentuale di chi ha rifiutato la donazione nel 2024 è scesa a 29,3% (in lieve calo rispetto al 30,3% del 2023).
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