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Aggiornato: 1 ora 51 min fa

Obesità. Appello alle istituzioni: riconoscerla subito come malattia cronica

Mar, 03/04/2025 - 14:45
L'emergenza Feet_on_scale.jpg Immagine: Bill Branson, National Cancer Institute, Public domain, via Wikimedia Commons Una proposta punta a riconoscerla come malattia cronica di interesse sociale e di inserire l'assistenza per le persone obese nei livelli essenziali di assistenza. Oggi Giornata Mondiale dedicata alla malattia

Colpisce 800 milioni le persone nel mondo, che diventeranno 1,9 miliardi entro 10 anni. Costa 4,32 mila miliardi di dollari. La sua diffusione nei bambini raddoppierà entro il 2025. Nonostante ciò, l’obesità continua a non essere riconosciuta come patologia dalle istituzioni e, di conseguenza, i cittadini che ne soffrono a non godere in maniera strutturata dell’assistenza di cui avrebbero bisogno e dei diritti che dovrebbero loro spettare.

Nasce da questa situazione la richiesta lanciata alle istituzioni da un gruppo di società scientifiche e associazioni, in occasione del World Obesity Day, che ricorre ogni anno il 4 marzo: si riconosca subito l'obesità come malattia cronica e la si inserisca nei Livelli Essenziali di Assistenza per garantire un accesso equo alle cure per tutti i pazienti.

La richiesta arriva attraverso una lettera aperta presentata al ministero della Salute nel corso di un convegno dedicato alla Giornata Mondiale che, in Italia è promossa dalle società, network, fondazioni e associazioni aderenti e partner della World Obesity Federation quali la Società Italiana dell'Obesità, la Società Italiana di Diabetologia, l'Italian Obesity Network, IBDO Foundation, OPEN Italy, l'Associazione Amici Obesi, in collaborazione con EASO e ECPO. 

«Questa patologia non è solo una questione estetica o comportamentale, ma una vera e propria malattia cronica che affligge milioni di persone nel nostro Paese, con pesanti conseguenze sulla salute pubblica e sull’economia nazionale», si legge nella lettera. «Secondo i dati più recenti, il tasso di obesità è in costante aumento, colpendo adulti e bambini senza distinzioni».

Un approccio di sistema

Un’epidemia, che, in Italia, colpisce una fetta consistente della popolazione. Secondo l’Italian Barometer Obesity Report 2024, l'11,8 per cento della popolazione adulta italiana soffre di obesità e il 36,1 per cento è in sovrappeso. Tra i bambini di 8-9 anni, circa il 19 per cento è in sovrappeso e il 9,8 per cento è obeso. Inoltre, questi dati evidenziano una tendenza all'aumento dell'obesità in tutte le fasce d'età, con un impatto più marcato nelle Regioni meridionali e nelle aree economicamente più svantaggiate.

Di fronte a questi numeri, su scala nazionale e globale, è sempre più chiaro che l’obesità non può essere combattuta dalle singole persone che ne sono affette, ma richiede interventi sistemici. Non è un caso che lo slogan della giornata di quest’anno sia proprio “Changing systems, healthier lives” ( “Cambiare i sistemi, vite più sane”), proprio per sottolineare l’importanza di porre l’accento sulla necessità di introdurre cambiamenti nei sistemi, e non sulle persone.

In questo approccio si inserisce il tentativo del Parlamento di legiferare in materia. Negli ultimi anni sono state esaminate diverse proposte di legge mirate alla prevenzione e alla cura dell'obesità, tra cui la proposta di Legge n. 741 (Camera dei Deputati) a firma dell’onorevole Roberto Pella, Presidente dell’Intergruppo parlamentare ‘Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili’, che riconosce l'obesità come malattia cronica e la include nei Livelli Essenziali di Assistenza, e che potrebbe rendere presto l’Italia il primo Paese al mondo con una legge specifica sull’obesità.

«Riconoscere l’obesità come una vera e propria malattia e affrontarla come una priorità nazionale, a tutti i livelli istituzionali, è il principale contenuto della proposta di legge, a mia prima firma, che é stata approvata in Commissione XII alla Camera dei Deputati», ha affermato Pella. 

Per cominciare, chiamiamola malattia

«Il riconoscimento dell’obesità come una malattia cronica è un aspetto fondamentale nel contrasto a questa emergenza, che richiede il pieno supporto da parte della società e della politica»,  ha dichiarato Andrea Lenzi, presidente del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita della presidenza del Consiglio dei Ministri e presidente di OPEN Italy. «La governance a livello globale, di Paese e città è importante, ma di solito è frammentaria, bloccata in silos, spesso focalizzata sulla scelta individuale e incapace o non disposta a prendere le distanze da una forte influenza commerciale e da obiettivi politici a breve termine, motivo per cui è necessario lavorare insieme per cambiare percorso per una migliore salute umana e planetaria».

La proposta di legge ha l’obiettivo di superare queste criticità. All’articolo 1 definisce l’obesità «una malattia cronica di interesse sociale». Da ciò, discende l’inserimento della “assistenza ai soggetti affetti da obesità nei livelli essenziali di assistenza”, il suo inserimento nel Piano nazionale della cronicità e, via via, il riconoscimenti di diritti alle persone che ne sono affette.

Malattia, ma anche fattore di rischio

«È importante sottolineare che l’obesità rappresenta una vera e propria malattia e non soltanto un fattore di rischio per altre condizioni cliniche, le quali possono peraltro peggiorare un quadro di comorbidità complesso e articolato. Può essere definita come una malattia eterogenea e multifattoriale influenzata da fattori genetici, ambientali e psicologici», spiega Luca Busetto, vice-president for the Southern Region of European Association for the Study of Obesity. «Occorre considerare l’obesità come una malattia cronica e pensare alla prevenzione e al trattamento dell’obesità al pari delle altre malattie croniche non trasmissibili», dice.  

Allo stesso tempo, però, l’obesità apre la strada ad altre patologie. «Rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo del diabete di tipo 2 e di numerose altre patologie metaboliche», spiega Raffaella Buzzetti, presidente della Società Italiana di Diabetologia e della FeSDI.

«In termini di impatto clinico e di spesa medica per il trattamento anche delle malattie che ne derivano, l’obesità rappresenta una sfida che, se non adeguatamente affrontata, condizionerà le generazioni future con importanti conseguenze negative sul sistema sanitario e sulla nostra società tutta», prosegue Rocco Barazzoni, presidente della Società Italiana dell’Obesità

«È giunto il momento di mettere in atto soluzioni di politica sanitaria e di governance clinica che siano in grado di dare risposte concrete alle persone con obesità e soprattutto che coinvolgano e siano disponibili per l’intera popolazione, al fine di aumentare il supporto e diminuire le disuguaglianze di accesso alle cure sul territorio», conclude Paolo Sbraccia, presidente IBDO Foundation. «La cura dell’obesità richiede lo stesso livello di urgenza riservato alle altre malattie non trasmissibili, per le quali un accesso equo alle cure, la centralità della persona e la presenza di risorse adeguate costituiscono un punto fermo dell’assistenza sanitaria».

Categorie: Medicina integrata

Medici, dalla carenza all’eccesso. Così l’Italia può diventare la “Cuba del Mediterraneo”

Lun, 03/03/2025 - 16:57
L'allarme Fondant_Doctor_Figurine.jpeg Immagine: Clever Cupcakes from Montreal, Canada, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons Secondo Anaao Assomed a partire dal 2028 l’Italia si potrebbe trovare con 60 mila in medici in eccesso rispetto al fabbisogno. Dottori «pronti a foraggiare la sanità privata o i sistemi sanitari di mezza Europa»

Oggi pochi, domani troppi.

Potrebbe essere questa la parabola dei medici italiani, secondo un’analisi di Anaao Assomed, il principale sindacato dei medici del servizio sanitario nazionale. Secondo Anaao partire dal 2028 l’Italia si potrebbe trovare con un eccesso di medici rispetto al fabbisogno che in pochi anni potrebbe raggiungere le 60 mila unità. Medici che saranno «pronti a foraggiare la sanità privata o i sistemi sanitari di mezza Europa, se non assunti nel servizio sanitario nazionale per rispondere all’aumento della domanda sanitaria prodotto dall’invecchiamento della popolazione».

Non è la prima volta che Anaao sottolinea il rischio della pletora medica. L’ultima volta lo aveva fatto un anno fa, sottolineando come il fenomeno finirebbe per fornire «al mercato sanitario forza lavoro a basso costo e con un potere contrattuale azzerato. Il trionfo del lavoro precarizzato, ma con retribuzioni e diritti molto più bassi di oggi».

Uno scenario in trasformazione

Negli ultimi 20 anni, il servizio sanitario è andato incontro a una forte trasformazione. Si sono persi circa 80 mila posti letto; si è frenato l’ingresso di nuovi professionisti nel settore, con l’introduzione di limitazioni alle assunzioni; la crescita del finanziamento al Ssn è stata meno marcata che in altri Paesi; la riforma della medicina territoriale è ancora incompiuta.

Parallelamente, molto è cambiato per i medici: l’inflazione ha eroso del 34,8% il loro potere d’acquisto (come nel resto della popolazione); gli stipendi sono rimasti bloccati dal tetto alle retribuzioni che congela al 2016 il trattamento accessorio per il pubblico impiego e dal blocco della contrattazione collettiva nazionale per quasi 10 anni (dal 2010 al 2019). Tutto ciò ha bloccato gli stipendi al di sotto di quelli che si riscontrano in altri Paesi europei con caratteristiche simili all’Italia.

Di pari passo, segnala l’Anaao, è cresciuto il ritmo di lavoro dei medici, come risultato dell’aumento dell’incremento della richiesta di salute della popolazione a cui non ha fatto da contraltare un aumento delle assunzioni. Inoltre, non si è provveduto ad ammodernare il lavoro, sul fronte dell’organizzazione né delle politiche del welfare ed è cresciuta la conflittualità con i pazienti.

Italia sempre più vecchia

A peggiorare le cose, il cambiamento dello scenario demografico. L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa. Ed è anche tra quelli che invecchiano peggio. Le persone nella fascia d’età 45-54 anni con almeno una malattia cronica risultano essere il 35,9%, mentre questa percentuale sale a un vertiginoso 86% nella fascia d’età +75. Se prendiamo come riferimento “almeno due malattie croniche”, le percentuali sono rispettivamente del 13,5% per la fascia più giovane e del 66% per quella più anziana. Ciò non può che aumentare la pressione sul servizio sanitario: gli over 75 con diabete richiedono un impegno 6 volte maggiore rispetto ai 50enni e gli over 75 con bronchite cronica circa 3 volte maggiore rispetto ai 50enni.

L’aumento dei medici

In questo scenario e di fronte alla sofferenza del servizio sanitario, il numero di medici in forze al servizio sanitaria - che, in linea di massima resta nella media Ocse - non ha subito grandi cambiamenti. Dopo il picco di 119 mila unità del 2009, si è stabilizzato intorno alle 113 mila unità con un incremento negli anni della pandemia. Pandemia «che ha però lasciato sul campo solo un lieve incremento di unità (+ 363 tra la fine del 2019 e la fine del 2022)», precisa Anaao. «Pensare di affrontare l’invecchiamento della popolazione con questi numeri, è semplicemente impossibile. Per questo, sono necessari anni di grandi assunzioni in sanità, soprattutto di medici specialisti in alcuni settori tipicamente ospedalieri come emergenza/urgenza, chirurgia generale, medicina interna, anestesiologia-rianimazione».

La leva su cui si è invece tentato di agire è quella della formazione. Dopo ripetuti errori di programmazione, si è corsi ai ripari incrementando notevolmente i posti disponibili nelle facoltà di Medicina (che sono cresciuti di circa 10 mila unità in meno di 10 anni) e nelle scuole di specializzazione (attualmente circa 15.000).

Con i numeri attuali, il bilancio tra nuovi medici formati e pensionamenti resterà ancora negativo per due anni per poi invertirsi e cominciare a crescere.

Il rischio - avverte Anaao - è che con l’aumentare eccessivo di medici che non vengono assorbiti dal servizio sanitario l’Italia si trasformi «in una sorta di “Cuba del Mediterraneo. Ricordiamo che l’isola caraibica è nota per la “fornitura” di personale sanitario alle Nazioni del centro-sud America e recentemente anche all’Italia».

Per il sindacato è necessario, innanzitutto, «aumentare il numero di medici nel servizio sanitario nazionale». E poi, «intervenire prioritariamente su due questioni critiche per rendere attrattivo il lavoro nel settore pubblico della sanità: la riduzione del carico di lavoro nelle strutture ospedaliere, per permettere ai medici di dedicarsi anche alla propria vita familiare e sociale eliminando ogni anacronistico blocco delle assunzioni del personale sanitario; l’incremento progressivo degli stipendi, che per arrivare al livello medio europeo dovrebbero aumentare almeno del 50%».

In alternativa, andremo incontro «a un grande surplus di medici, pronti a foraggiare la sanità privata o i sistemi sanitari di mezza Europa», mentre i cittadini faticheranno a trovare risposte nel servizio sanitario.

Categorie: Medicina integrata

Tumore al colon: OK Aifa a combinazione trifluridina/tipiracil più bevacizumab

Lun, 03/03/2025 - 15:34
Farmaci

L’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) ha concesso la rimborsabilità alla combinazione trifluridina/tipiracil più bevacizumab per il trattamento del carcinoma del colon retto metastatico, precedentemente trattato con almeno due linee di terapia.

Il farmaco è già disponibile con due indicazioni in monoterapia per il trattamento del carcinoma colorettale e gastrico metastatici.

«L’approvazione dell'associazione trifluridina/tipiracil più bevacizumab segna un passo avanti significativo nel trattamento del carcinoma del colon retto metastatico refrattario e un nuovo standard di cura per questo tipo di neoplasia, offrendo ai pazienti un'opzione terapeutica di terza linea più efficace rispetto a quelle disponibili finora», commenta Fortunato Ciardiello, professore ordinario di Oncologia Medica all'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e direttore dell'unità operativa complessa di Oncologia medica. «Questa nuova terapia migliora la sequenza terapeutica ed il continuum of care dei pazienti permettendo un maggior controllo della malattia e dei sintomi ad essa correlati con un impatto rilevante sulla sopravvivenza globale. Inoltre - aggiunge Ciardiello - rispetto al trattamento in monoterapia, la combinazione di trifluridina/tipiracil più bevacizumab ha dimostrato una maggiore stabilità clinica, con un rallentamento della progressione della malattia e un miglioramento della qualità di vita, garantendo un profilo di tollerabilità elevato e, al contempo, prolungando il periodo di malattia libero da peggioramenti significativi».

L’approvazione si basa sui risultati dello studio clinico di Fase III Sunlight. Nella sperimentazione, i pazienti che hanno ricevuto la combinazione trifluridina/tipiracil più bevacizumab hanno vissuto in media 10,8 mesi, rispetto ai 7,5 mesi della monoterapia, con una riduzione del 39% del rischio di morte.

Anche la sopravvivenza libera da progressione è più che raddoppiata (5,6 contro 2,4 mesi), con una riduzione del 56% del rischio di progressione. Questa combinazione ha inoltre ritardato il deterioramento delle condizioni generali da 6,3 a 9,3 mesi contribuendo a migliorare la qualità di vita dei pazienti.

«I dati emersi dallo studio Sunlight rafforzano il concetto di continuum of care e confermano il ruolo dell’inibizione dell’angiogenesi come strategia terapeutica nel carcinoma colorettale metastatico, con un vantaggio che si estende a tutti i pazienti, indipendentemente dalle caratteristiche molecolari o dai trattamenti ricevuti in precedenza», dichiara Chiara Cremolini, professoressa ordinaria di Oncologia Medica all’Università di Pisa.

«Quelle del tratto gastrointestinale sono neoplasie molto insidiose: l’assenza di sintomi specifici e la bassa adesione della popolazione alle campagne di screening offerte gratuitamente dal nostro SSN sono responsabili nella maggior parte dei casi di diagnosi in fase avanzata di malattia», conclude Marie-Georges Besse, direttore Medical Affairs del Gruppo Servier in Italia. «Si parla ancora troppo poco dei bisogni insoddisfatti dei pazienti con tumori metastatici: per questi pazienti – ma anche per i loro familiari – ogni giorno in più conta. Fondamentale quindi il ruolo della ricerca per lo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche in grado di offrire un continuum of care efficace e rispettoso della qualità di vita».

Categorie: Medicina integrata

La settimana su HealthDesk

Lun, 03/03/2025 - 13:03

 

Medici, dalla carenza all’eccesso. Così l’Italia può diventare la “Cuba del Mediterraneo” Secondo Anaao Assomed a partire dal 2028 l’Italia si potrebbe trovare con 60 mila in medici in eccesso rispetto al fabbisogno. Dottori «pronti a foraggiare la sanità privata o i sistemi sanitari di mezza Europa» Leggi tutto Ercolano: la nube di cenere dell'eruzione del 79 d.C. ha trasformato un cervello umano in vetro In natura il vetro è una materiale poco comune perché la sua formazione richiede un rapido raffreddamento. Il caso è quasi unico Leggi tutto La salute degli europei, tra malattie croniche e sistemi sanitari in affanno Leggi tutto Pubblicato dall’Oms Europa lo European Health Report. Segnali di preoccupazione per la salute mentale dei più giovani; rialzano la testa le malattie infettive per la frenata delle vaccinazioni. Crescono i medici, ma non basta Altre notizie Tumore al colon: OK Aifa a combinazione trifluridina/tipiracil più bevacizumab Ddl sulla reumatologia. Per le Associazioni è una scelta politica che penalizza i pazienti con sindrome fibromialgica È italiana la più grande rete europea di ricerca sul cervello Studi clinici di Fase I sui tumori: siamo dietro agli altri grandi Paesi europei Migliaia le malattie rare, per poche centinaia trovata una cura Un bambino morto per morbillo in Texas, non era vaccinato Inalare nanoplastiche riduce le capacità olfattive Il linguaggio giusto per le malattie rare, Sanofi lancia la campagna #ChiamalePerNome Tumori: nel Dna è scritta la nostra storia, non il nostro destino A 15 anni dalla legge 38 ancora scarsa la consapevolezza della “malattia dolore” L'Unione europea approva acoramidis per pazienti adulti con amiloidosi da transtiretina e cardiomiopatia Sanità digitale leva strategica per l'accesso ai servizi sanitari. Un Disegno di legge per istituire una Giornata delle aree interne


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Ddl sulla reumatologia. Per le Associazioni è una scelta politica che penalizza i pazienti con sindrome fibromialgica

Ven, 02/28/2025 - 19:26
Parlamento

L’Associazione italiana sindrome fibromialgica (Aisf) e il Comitato fibromialgici uniti-Italia (Cfu-Italia) esprimono «profonda delusione e indignazione» per la recente decisione della Commissione Sanità del Senato di portare avanti il Disegno di legge 946, proposto dalla senatrice Maria Cristina Cantù, anziché un testo di legge specifico per la fibromialgia.

Le Associazioni chiedono dal 2016 che la fibromialgia venga riconosciuta come malattia cronica e invalidante e sia inserita nei Livelli essenziali di assistenza. Ma «oggi, a malincuore, constatiamo che nel momento in cui si dovevano tirare le fila di tutto, con l’approvazione di una legge sulla patologia, si è pensato bene di dare seguito a un’azione politica che riteniamo irrispettosa nei confronti dei pazienti affetti da fibromialgia» commenta Giusy Fabio, vicepresidente dell’Aisf.

Tra i Disegni di legge in Commissione, sostiene Fabio, «scegliere il Ddl 946 è stata la scelta più sbagliata che si potesse fare. Evidentemente però è stata la più comoda per eliminare il problema fibromialgia e dare comunque la parvenza di risposta ai pazienti, nonostante all’interno del testo non esista nessuna garanzia per la patologia. Inserire la fibromialgia in un calderone di patologie reumatiche ben codificate, riconosciute e trattate, senza un inserimento nei Lea della patologia, senza un riconoscimento nel Piano di cronicità, significa non aver fatto nulla. È solo uno specchio per le allodole, il modo più efficace per non investire fondi, per non dare risposte concrete e per continuare a relegare la fibromialgia nel limbo dell’invisibilità».

 Per Barbara Suzzi, presidente del Cfu, la decisione della Commissione Sanità del Senato «rappresenta un grave passo indietro nella tutela dei diritti dei pazienti. Questa scelta, che ignora la complessità e la natura multifattoriale della fibromialgia, dimostra ancora una volta la mancanza di volontà politica di affrontare seriamente questa patologia». La fibromialgia, sottolinea,«non è una malattia esclusivamente reumatica, come sembra suggerire l’approccio del Ddl 946. Questa sindrome richiede un approccio multidisciplinare che tenga conto delle diverse manifestazioni cliniche e delle esigenze specifiche dei pazienti. La scelta di incanalare la fibromialgia in un ambito esclusivamente reumatologico rischia di limitare l’accesso a cure adeguate e di negare ai pazienti il riconoscimento della complessità della loro condizione. Siamo profondamente preoccupati che dietro questa decisione possano celarsi interessi di lobby, che privilegiano logiche economiche e di potere rispetto al benessere dei pazienti. La dignità dei malati di fibromialgia non può essere sacrificata sull’altare di interessi particolari».

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È italiana la più grande rete europea di ricerca sul cervello

Ven, 02/28/2025 - 19:13
Network

Si aggiungono nuovi obiettivi e nuove maglie alla rete del progetto MNESYS, il più ampio programma di ricerca sul cervello mai realizzato in Italia e ora diventato il più grande e all’avanguardia in Europa. Oltre 60 centri in più, coinvolti negli ultimi sei mesi, per un totale di 90, tra i migliori atenei pubblici e privati, istituti di ricerca, imprese. Seicento pubblicazioni e circa trecento progetti attivi a oggi, di cui oltre novanta avviati dal giugno scorso, finanziati con 23 milioni di euro, grazie ad appositi “bandi a cascata”. Altri duecento giovani ricercatori, assunti in poco più di un anno, per un totale di circa ottocento scienziati italiani, a caccia di nuovi test e terapie per la diagnosi precoce e la cura delle malattie del sistema nervoso, con trattamenti modellati sui pazienti. Sono questi lo stato attuale e i numeri di MNESYS, presentati in occasione del III Annual Meeting a Genova.

MNESYS è una “brain venture” di gruppi di lavoro distribuiti in tutta Italia, guidata dall’Università di Genova, in sinergia con l’ospedale San Martino, avviata a fine 2022 grazie al fondo di 115 milioni di euro, stanziato dal Pnrr, Missione 4. «Un progetto imponente e complesso in crescita esponenziale – commenta Antonio Uccelli, responsabile scientifico del progetto, professore di Neurologia all’Università di Genova e direttore scientifico del San Martino - che ha visto aggiungersi ai 25 enti fondatori, altri 65 centri negli ultimi sei mesi, tra le Istituzioni più prestigiose nel campo delle neuroscienze».

Allo studio test e terapie innovative: dallo sviluppo del cervello nei neonati prematuri, grazie all’inserimento nell’alimentazione di olio di oliva, soia e grasso di pesce, fino alla cura e al miglioramento dei sintomi della malattia di Alzheimer e Parkinson. L’utilizzo di cervelli “in miniatura” e l’analisi delle difficoltà dei pazienti nell’esprimere emozioni con il volto e nel riconoscerle negli altri, consentirà di scoprire nuove frontiere nel trattamento di queste patologie.

Il progetto, «senza precedenti e in continua crescita sostiene Enrico Castanini, presidente MNESYS - vede quasi triplicare gli Enti coinvolti in questa rete sempre più estesa di eccellenze scientifiche del nostro Paese» e «oggi si stabilisce una tappa fondamentale per analizzare, progetto per progetto, i traguardi raggiunti e per avviare le attività di trasferimento tecnologico che ne seguiranno». Questo bagaglio di conoscenze «ci permetterà di passare dalle scoperte teoriche a concreti benefici per la società – sottolinea - in totale allineamento con l’obiettivo ultimo del Pnrr: generare ricadute tangibili e durature per i cittadini, migliorando di conseguenza la qualità della vita di tutti noi grazie all'uso delle nuove tecnologie».

A questo scopo MNEYS «ha sviluppato approcci innovativi – precisa Uccelli - come la creazione di avatar digitali del cervello umano per studiare le malattie neurologiche e la risposta ai farmaci, individuato nuovi biomarcatori come, ad esempio, due proteine in grado di anticipare lo sviluppo della sclerosi multipla, fino a identificare di nuovi bersagli terapeutici come, tra gli altri, la proteina anti-colesterolo PCSK9 la cui inibizione nel cervello ha un ruolo chiave nel trattamento della malattia di Alzheimer».

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Studi clinici di Fase I sui tumori: siamo dietro agli altri grandi Paesi europei

Ven, 02/28/2025 - 19:12
Conferenza Aiom

Le sperimentazioni di Fase I in oncologia nel nostro Paese sono state 500 da inizio 2012 a fine 2021, mentre nello stesso periodo sono state 960 in Spagna, 873 in Francia, 812 nel Regno Unito e 597 in Germania.

Dopo le prime positive sperimentazioni in laboratorio, questi studi sono il primo livello per trovare nuovi trattamenti anticancro, diventano un “volano” per la ricerca e perciò andrebbero incentivati. In questa prospettiva, il Network dei centri di Fase I (POINts, Phase One Italian Network for transfer and share), istituito dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) nel 2023, è il primo passo per favorire il dialogo e l’interconnessione fra le strutture che possono condurre questi trial e aumentarne il numero.

A questi argomenti, agli studi di Fase I è dedicata la XXII Conferenza nazionale dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), a Torino il 28 febbraio e 1 marzo, con la partecipazione di oltre cento specialisti da tutta Italia.

Di solito gli studi di Fase I «coinvolgono pochi pazienti – spiega Francesco Perrone, presidente Aiom - spesso meno di trenta. L’arrivo della medicina di precisione e dei più innovativi trattamenti anticancro, come l’immunoterapia e le terapie a bersaglio molecolare, ha determinato un profondo cambiamento nel programma di sviluppo dei nuovi farmaci oncologici, in particolare per quanto riguarda la natura e le finalità degli studi di Fase I. Oltre allo studio del profilo di sicurezza, tra gli obiettivi di queste sperimentazioni si è affermata la valutazione dell’attività antitumorale e, in qualche caso, si possono osservare benefici clinici anche rilevanti».

Negli ultimi venti anni in valore teraputico di queste ricerche è aumentato, continua Perrone, «perché è possibile definire il profilo molecolare e genetico delle neoplasie e vengono coinvolti pazienti in cui si presume che le nuove molecole possano essere efficaci. Pertanto, questi studi sono fondamentali per comprendere meglio la biologia dei tumori, identificare nuovi bersagli terapeutici e sviluppare trattamenti più efficaci».

La Determina n. 809/2015 dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha definito i requisiti minimi necessari per le strutture sanitarie che eseguono sperimentazioni cliniche di Fase I e «ha generato ricadute positive – osserva Giuseppe Curigliano, membro del Direttivo nazionale Aiom. L’istituzione di un Centro di Fase I «è visto come un segno di grande valore della struttura e simbolo dell’impegno nella ricerca – prosegue - portando i vertici degli ospedali, ma soprattutto gli sperimentatori, a un’attenzione maggiore in aspetti di qualità e tracciatura dei dati. L’idea di un Network è nata dalla constatazione che, nonostante gli sforzi per incrementare la qualità dei Centri, molti non riescono a decollare e ad attivare studi, mostrando in modo evidente il divario tra una struttura autocertificata secondo la norma, pronta quindi ad accogliere studi, e la reale capacità di attivarli in pratica».

Una delle sfide da affrontare è la crescente complessità della ricerca.

«I nuovi trattamenti – interviene Massimo Di Maio, presidente eletto Aiom - sono caratterizzati da meccanismi d’azione molto sofisticati. Negli ultimi anni, abbiamo assistito all’impressionante evoluzione tecnologica dei farmaci sperimentali, passando dalle piccole molecole chimiche ai farmaci biologici e biotecnologici, fino alle terapie avanzate come la terapia cellulare, genica e ingegnerizzata, che rappresentano le forme più innovative di trattamento attualmente disponibili. Questa evoluzione è stata particolarmente evidente nel settore delle molecole oncologiche, per le quali si è anche assistito a una crescente complessità degli studi clinici di Fase I».

La partecipazione a questi studi «contribuisce all’avanzamento delle conoscenze sul trattamento dei tumori – sottolinea Di Maio - e i dati raccolti possono indirizzare la ricerca scientifica e migliorare le cure. In Italia, oltre l’80% delle sperimentazioni sulle nuove molecole contro il cancro è sostenuto dall’industria. La collaborazione virtuosa fra clinici, Università, Istituzioni, Società scientifiche e aziende farmaceutiche è strategica anche per il “sistema Paese”. Le Aziende sanitarie che ospitano Centri sperimentali godono di un innalzamento dell’assistenza e della crescita professionale del personale coinvolto. Inoltre – conclude Di Maio - allo sviluppo di nuovi farmaci fa seguito una forte utilità sociale, per l’allungamento della vita media dei cittadini».

Categorie: Medicina integrata

Migliaia le malattie rare, per poche centinaia trovata una cura

Gio, 02/27/2025 - 18:44
La Giornata mondiale

Si stima che le malattie rare siano tra le 6 mila e le 8 mila, ma la cura è stata trovata solo per 450. In Italia colpiscono circa 2 milioni di persone, 30 milioni in Europa, 300 milioni nel mondo.

La Giornata malattie rare è stata istituita nel 2008 e cade il 29 febbraio, data scelta non a caso, evidentemente. Perciò negli anni non bisestili come il 2025 la si celebra convenzionalmente il 28 febbraio. Proprio in questo giorno, si è tenuto dunque a Roma il convegno conclusivo della Campagna #UNIAMOleforze che in Italia si è articolata in oltre sessanta eventi in un vero e proprio mese delle malattie rare cominciato il 30 gennaio scorso.

L'obiettivo della Campagna, promossa da UNIAMO, la Federazione italiana malattie rare che rappresenta in Italia la comunità delle persone con malattia rara, è «sensibilizzare Istituzioni e cittadinanza sul lungo e spesso faticoso “viaggio” che affrontano i pazienti e le loro famiglie dal momento in cui incontrano la malattia».

Solo per circa 450 malattie rare, infatti, esiste una cura. «Tutte le altre possono beneficiare di riabilitazione e poco altro – ricorda Annalisa Scopinaro, presidente UNIAMO – e per qualcuna non ci saranno mai trattamenti specifici».

Dopo quelli della diagnosi precoce e presa in carico negli scorsi anni, la Federazione ha scelto come tema del 2025 la Ricerca che, sottolinea Scopinaro, «rappresenta la speranza per i pazienti e le loro famiglie di vedere migliorata la loro qualità di vita. È quindi necessario sostenere tutti i tipi di Ricerca, non solo quella finalizzata alla produzione di farmaci: comportamentale, sulla storia naturale, sull’efficacia delle riabilitazioni, sulla robotica per lo sviluppo di ausili, alla Digital Health fino a quella organizzativa; sono tutte ugualmente importanti». Nel corso del mese di febbraio, racconta la presidente di Uniamo, «anche grazie ai tanti e vari interlocutori, dalle Università alle scuole fino alle reti ERN, Aziende sanitarie, Associazioni e singoli individui che hanno risposto alla nostra “Chiamata alla partecipazione”, abbiamo approfondito questi concetti dando la nostra prospettiva di comunità».

Barbara D’Alessio, segretaria UNIAMO, precisa che «tra le varie forme di ricerca per le malattie rare, tutte importanti, quella terapeutica svolge comunque un ruolo chiave perché offre la speranza della possibilità di rendere trattabili, se non completamente guaribili, condizioni sintomatiche disabilitanti. È necessario valorizzare le competenze e le collaborazioni strategiche tra mondo profit e non profit».

Categorie: Medicina integrata

Ercolano: la nube di cenere dell'eruzione del 79 d.C. ha trasformato un cervello umano in vetro

Gio, 02/27/2025 - 17:36
La scoperta Immagine 1_Lo scheletro del guardiano nel suo letto di legno presso Collegium Augustalium (Foto P.P. Petrone) copia.jpeg Immagine: Cnr In natura il vetro è una materiale poco comune perché la sua formazione richiede un rapido raffreddamento. Il caso è quasi unico

È un caso unico nel suo genere la vetrificazione di materiale organico cerebrale trovato nel cranio di un ercolanese vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C..

In natura il vetro è una materiale poco comune perché la sua formazione richiede un rapido raffreddamento che non permetta la cristallizzazione quando diventa solido. Ed è molto più difficile che si formi e si conservi un vetro da materiale organico, essendo questo composto per gran parte da acqua.

Una risposta a cosa sia potuto accadere in un giovane adulto maschio sepolto dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C e trovato disteso nel suo letto nel Collegium Augustalium, nel Parco archeologico di Ercolano, prova a spiegarlo lo studio di un team italo-tedesco di ricercatori guidato dal vulcanologo Guido Giordano del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre. Lo studio è stato appena pubblicato su Scientific Reports.

Le analisi hanno dimostrato che la vetrificazione cerebrale è avvenuta attraverso un processo del tutto unico di rapida esposizione del materiale organico prima ad altissima temperatura (almeno 510 gradi Celsius) e di un suo successivo ancor più rapido raffreddamento. Il vetro che si è formato come risultato di questo processo ha permesso una preservazione del materiale cerebrale e delle sue microstrutture.

Il gruppo di ricerca ha osservato che il materiale cerebrale non si sarebbe potuto vetrificare se l'individuo fosse stato riscaldato esclusivamente dai flussi piroclastici che hanno seppellito Ercolano, poiché i depositi di questi flussi, le cui temperature non hanno superato i 465 gradi Celsius, si sono raffreddati molto lentamente e avrebbero totalmente distrutto il materiale organico a meno che esso non si fosse già trasformato in vetro.

I ricercatori ipotizzano quindi che dopo le prime ore di eruzione che produssero la colonna eruttiva osservata e descritta da Plinio il Giovane, nella notte del 24 agosto (o forse 24 ottobre come recenti scoperte suggeriscono) iniziarono i primi flussi piroclastici che progressivamente distrussero Ercolano. «Il primo di essi – racconta Giordano - raggiunse la città solo con la sua parte di nube di cenere diluita, ma caldissima, ben oltre i 510 gradi Celsius. Lasciò a terra pochi centimetri di cenere finissima, ma l’impatto termico fu terribile e mortale, seppur sufficientemente breve da lasciare, almeno nell’unico caso del ritrovamento nel Collegium Augustalium, resti di cervello ancora intatti. La nube deve essersi poi altrettanto rapidamente dissipata, consentendo a questi resti di raffreddarsi così rapidamente da innescare il processo di vetrificazione. Solo più tardi nella notte la città fu completamente seppellita dai depositi dei flussi piroclastici».

Materiale cerebrale e spinale come questo, vetrificato, «non solo non è mai stato trovato in nessun’altra delle centinaia di scheletri di vittime dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. – sottolinea Pier Paolo Petrone, antropologo forense e biologo dell'Università Federico II di Napoli - ma costituisce l’unico esempio del genere conosciuto al mondo. È probabile che le particolari condizioni verificatesi all’inizio dell’eruzione nel luogo di rinvenimento, nonché la protezione delle ossa del cranio e della colonna vertebrale dell'individuo abbiano creato le condizioni perché il cervello e il midollo osseo sopravvivessero all’impatto termico, permettendo poi di formare questo vetro organico unico».

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Un bambino morto per morbillo in Texas, non era vaccinato

Mer, 02/26/2025 - 19:04
L'epidemia

Un bambino in età scolare è morto di morbillo in Texas. Lo ha reso noto il locale dipartimento dei Servizi sanitari. È il primo decesso dall’inizio dell’epidemia esplosa a fine gennaio nello Stato americano e che ha già contagiato almeno 124 persone.

Il bambino, non vaccinato, era stato ricoverato la settimana scorsa in un ospedale nella città di Lubbock ed «è deceduto nelle ultime 24 ore», afferma l’amministrazione della città. «Confermiamo il primo decesso correlato all’epidemia di morbillo in corso. Questo è tutto ciò che sappiamo, al momento. Ulteriori informazioni saranno rilasciate non appena disponibili», spiega sul proprio sito il Comune Texano.

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Inalare nanoplastiche riduce le capacità olfattive

Mer, 02/26/2025 - 17:41
Lo studio

Uno studio coordinato dall’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc) di Monterotondo (Roma) ha approfondito per la prima volta gli effetti dell'inalazione di nanoplastiche nei mammiferi.

Le nanoplastiche sono frammenti di plastiche con dimensioni inferiori a un millesimo di millimetro, ormai diffuse in quasi tutti gli ecosistemi, compresi suolo, aria e acqua.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Science of The Total Environment, ha coinvolto anche l’Istituto sull’inquinamento atmosferico (Cnr-Iia) e l’Istituto di scienza, tecnologia e sostenibilità per lo sviluppo dei materiali ceramici (Cnr-Issmc) del Cnr oltre al Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma. I risultati mostrano una preoccupante capacità delle nanoplastiche di penetrare nel cervello e deteriorare, in particolare, la funzione olfattiva.

«Abbiamo condotto lo studio su modelli murini, avendo già osservato che l’inalazione di nanoplastiche provoca una sua bio-distribuzione in numerosi organi del corpo- racconta Stefano Farioli Vecchioli del Cnr-Ibbc - fra cui il cervello, i polmoni, i testicoli, il tessuto adiposo. Non sapevamo, però, nulla sui tempi di permanenza di queste sostanze, né tantomeno sugli effetti della loro presenza sul funzionamento dell’organo/tessuto in cui si sono introdotte. Ora abbiamo per la prima volta osservato che la loro presenza induce un grave difetto nella capacità olfattive degli animali, associato a un persistente deficit della funzionalità dei neuroni del bulbo olfattivo, la regione del cervello deputata al riconoscimento degli odori».

Gli studi hanno inoltre evidenziato processi infiammatori transitori nel bulbo olfattivo che ha inalato nanoplastiche e che l’inalazione è in grado di indurre un aumento compensativo della neurogenesi adulta, ossia la produzione di nuovi neuroni, che però non è in grado di riparare il danno provocato dalle nanoplastiche.

I dati emersi delineano un quadro preoccupante sulla capacità delle nanoplastiche di penetrare nel cervello e deteriorare le funzioni olfattive per lungo tempo: lo step successivo sarà verificare i possibili effetti sull’organismo umano.

A questo proposito «bisogna ricordare che circa il 95% dei pazienti con Alzheimer e Parkinson – sottolinea Farioli Vecchioli - soffre di disturbi olfattivi, che si manifestano 10-15 anni prima della comparsa dei sintomi: l’intenzione è approfondire se vi sia un collegamento tra gli effetti delle nanoplastiche e questo tipo di patologie».

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Il linguaggio giusto per le malattie rare, Sanofi lancia la campagna #ChiamalePerNome

Mer, 02/26/2025 - 17:34
La campagna

Il nome come primo passo verso la conoscenza e il riconoscimento dell’altro. È da questa consapevolezza che nasce #ChiamalePerNome, la nuova campagna di sensibilizzazione promossa da Sanofi sulle malattie rare in vista della Giornata Mondiale che si celebra il prossimo 28 febbraio.

La campagna intende portare all’attenzione dell'opinione pubblica l'importanza di una maggiore conoscenza e consapevolezza delle malattie rare e sull’impatto che ciascuna malattia ha su chi vi convive e sui suoi familiari e caregiver, promuovendo un linguaggio rispettoso e scevro da pregiudizi, ma anche lontano da miti e stereotipi che tolgono umanità all’esperienza di vita della singola persona.

«Siamo orgogliosi di manifestare anche quest’anno, attraverso una nuova campagna di sensibilizzazione al largo pubblico il nostro impegno di più di quarant’anni nell’ambito delle malattie rare. Un impegno che si manifesta non solo con le nostre competenze e il supporto alla comunità scientifica e di pazienti, ma anche tramite attività informative e di comunicazione, che fanno sì che il nostro messaggio possa vivere ben oltre la Giornata del 28 febbraio», afferma Marcello Cattani, presidente e amministratore delegato di Sanofi Italia e Malta.

Per la campagna #ChiamalePerNome sarà diffuso sui canali Instagram, Linkedin e Facebook di Sanofi Italia da venerdì 28 febbraio un video che pone l’accento sull’importanza del linguaggio e della scelta delle parole quando si parla di malattie rare. La campagna sottolinea, inoltre, l’urgenza di un’identificazione tempestiva e precisa delle malattie rare, affinché nessun paziente rimanga senza risposte. I

Sono tra 7.000 e 8.000 le malattie rare oggi conosciute. Più di due milioni le persone colpite in Italia.

 «Abbiamo un’expertise specifica nelle malattie da accumulo lisosomiale e in diverse patologie rare del sangue, dove abbiamo una decina progetti di ricerca clinica in fase 2 e 3, e oltre», aggiunge Cattani. «Nel nostro quotidiano siamo al fianco dei pazienti, delle associazioni e del mondo istituzionale per contribuire a colmare il gap legislativo ed assistenziale per le persone con malattia rara, gli ostacoli nell’accesso alle terapie innovative e nella diagnosi tempestiva»

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Tumori: nel Dna è scritta la nostra storia, non il nostro destino

Mer, 02/26/2025 - 17:32
La Campagna DNA_methylation.jpg Immagine: Christoph Bock, Max Planck Institute for Informatics, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons I tumori non si ereditano. Si possono ereditare, però, mutazioni genetiche che aumentano la probabilità di sviluppare alcune forme di cancro, prime fra tutte quelle del seno, dell’ovaio, della prostata e del pancreas. Tra il 5 e il 10 per cento dei casi di tumore dipende infatti da mutazioni genetiche che possono essere trasmesse dai genitori ai figli. Sapere di essere portatori di una mutazione dei geni BRCA1 o BRCA2 rappresenta, nelle persone sane, l’opportunità di intraprendere percorsi di prevenzionee di riduzione del rischio. Per chi ha già sviluppato la malattia, conoscere il proprio stato mutazionale consente invece la definizione di percorsi terapeutici “su misura”. A queste tematiche è dedicata la Campagna di informazione “Tumori eredo-familiari: conoscerli è il primo passo”, realizzata da AstraZeneca e MSD per sensibilizzare pazienti e grande pubblico, arrivata a Milano con l’installazione “Legami Unici” presso la Biblioteca degli Alberi. La Campagna è realizzata con il patrocinio di alcune Associazioni di pazienti che mercoledì 26 febbraio, in occasione della presentazione dell'installazione hanno voluto far sentire la propria voce con un video per rafforzare il messaggio della campagna: la conoscenza è il primo passo per prevenire e per curare in modo appropriato. Oggi esistono test genetici che possono identificare mutazioni specifiche associate a tumori come quelli legati ai geni BRCA, consentono una diagnosi precoce e una prevenzione mirata. La conoscenza delle mutazioni permette inoltre ai medici di scegliere terapie mirate, che hanno dimostrato di essere efficaci proprio in presenza di tali mutazioni. Da qui l’importanza di garantire un consulto oncogenetico che definisca il rischio oncologico e l’opportunità di eseguire il test. Per esempio, il rischio di sviluppare un tumore ovarico aumenta del 15-45% nelle donne che hanno ereditato una mutazione in BRCA1 e del 10-20% circa in quelle che hanno ereditato una mutazione di BRCA2. «Per migliorare significativamente la sopravvivenza delle pazienti con tumore ovarico – spiega Domenica Lorusso, docente all'Humanitas University di Rozzano e direttorice dell’Unità operativa di Ginecologia oncologica medica all'Humanitas San Pio X - l’unica strada è la diagnosi precoce: quando avviene al primo stadio della malattia, infatti, si ottiene la guarigione nella maggioranza dei casi. Purtroppo è un tumore silente e la diagnosi avviene quasi sempre tardivamente, ma nelle donne che hanno una mutazione possiamo intervenire con programmi di prevenzione mirata, che comprendono la chirurgia profilattica. Anche nelle donne che hanno già sviluppato la malattia il test genetico svolge un ruolo fondamentale – sottolinea - perché ci indirizza verso l’utilizzo di terapie target». Nelle donne portatrici di mutazioni del gene BRCA1 il rischio di ammalarsi di carcinoma mammario nel corso della vita è del 65%, mentre in quelle con mutazioni del gene BRCA2 è del 40%. Ma anche altre mutazioni genetiche che causano il deficit di ricombinazione omologa (HRD) aumentano il rischio di sviluppare questa neoplasia. La diagnosi precoce, ricorda Giuseppe Curigliano, professore di Oncologia medicaa all’Università di Milano, presidente eletto dell’European Society for Medical Oncology (ESMO) - è la nostra arma più potente contro il carcinoma mammario: la mammografia e gli esami clinici permettono di individuare la malattia in fase iniziale, migliorando significativamente le possibilità di cura». Per chi ha un tumore al seno e i familiari a rischio, quindi, i test genetici «rappresentano uno strumento essenziale per orientare strategie di prevenzione e trattamento personalizzato». Oggi, aggiunge Curigliano, la medicina di precisione «ci offre opzioni sempre più mirate: dalle terapie personalizzate alla sorveglianza attiva, fino alla chirurgia profilattica, ogni scelta deve essere guidata da un approccio multidisciplinare per garantire il miglior esito possibile. Non dimentichiamo che per le donne operate ad alto rischio la terapia con PARP inibitori, in via precauzionale, aumenta la probabilità di guarigione». Rispetto alle donne, gli uomini hanno una minor consapevolezza del rischio oncologico in generale e di quello ereditario in particolare. Diversi studi hanno però dimostrato che gli uomini con un parente stretto (padre, zio o fratello) con un tumore alla prostata presentano un maggiore rischio di ammalarsi. In questo caso, «non esistono programmi di screening che abbiano dimostrato una forte efficacia – osserva Giuseppe Procopio, direttore dell’Oncologia medica genitourinaria all'Istituto Tumori di Milano - ma abbiamo a disposizione strumenti che si possono usare, come il dosaggio del Psa. Per questo è fondamentale che le persone abbiano consapevolezza della loro storia familiare e ne parlino con i medici». Nel caso del tumore della prostata è il BRCA2 a essere più pericoloso: «Gli uomini portatori di questa mutazione hanno un rischio di circa il 27% di sviluppare il cancro alla prostata prima degli 80 anni, più del doppio rispetto ai non portatori». La Campagna “Conoscerli è il primo passo”, lanciata nel 2021, ha raggiunto in questi anni milioni di persone (9 milioni nel solo 2024). Nel 2025 riparte da Milano, con all’installazione “Legami Unici” dell’artista bolognese Francesca Pasquali che sarà visibile fino al 9 marzo .
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Herpes Zoster alias Fuoco di Sant’Antonio: la metà degli italiani non sa quanto è pericoloso

Mer, 02/26/2025 - 15:54
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Solo il 52% degli italiani in buona salute ha una vaga idea di cosa sia l’Herpes Zoster o addirittura non ne ha sentito parlare.

È quanto risulta da un sondaggio condotto da Ipsos Healthcare, per conto di GSK, su 8.400 cittadini di nove Paesi (Cina, Brasile, Italia, Giappone, Germania, Irlanda, India, Portogallo, Stati Uniti) tra 50 e 60 anni, di cui mille italiani: molti hanno ancora le idee confuse su questa infezione, sia che si tratti di uomini e donne in buona salute sia che presentino malattie concomitanti. La maggioranza degli intervistati su scala internazionale in questa decade si sente più giovane di quanto dica l’anagrafe e di conseguenza si ritiene a minor rischio. Per questo è ancor più importante conoscere il pericolo di sviluppare l’Herpes Zoster e puntare sulla prevenzione, nell’ottica sia della salute del singolo sia della sostenibilità del Servizio sanitario, limitando le spese per diagnosi e cura.

Intorno a questi argomenti si è sviluppato l'incontro promosso a Roma da Gsk martedì 26 febbraio, in occasione della Settimana della prevenzione dal Fuoco di Sant’Antonio, in programma dal 24 febbraio al 2 marzo.

Le probabilità di sviluppare l’Herpes Zoster aumentano progressivamente con l’avanzare dell’età, anche per il ruolo giocato dal naturale processo di invecchiamento del sistema immunitario, ma non solo. Nel nostro Paese le malattie croniche interessano il 40,5% della popolazione italiana (24 milioni), mentre le persone con almeno due patologie croniche sono 12,2 milioni. Gli ultra settantacinquenni che soffrono di una patologia sono l’85%, il 64,3% da due o più. La tendenza è che nel 2028 i malati cronici saliranno a 25 milioni, mentre i multi-cronici saranno 14 milioni. Eppure dal sondaggio Ipsos emerge un livello di conoscenza più basso rispetto all’intera popolazione dei sani: il 49% di persone che non conoscono l’Herpes Zoster o hanno solo qualche vaga informazione al riguardo. Insomma, in Italia come negli altri Paesi, circa la metà della popolazione ignora che le cronicità come diabete, malattie respiratorie e malattia renale cronica nonché le patologie reumatologiche e onco-ematologiche possono indebolire il sistema immunitario e quindi aumentare i rischi di sviluppare lo Zoster.

Per Enrico Di Rosa, presidente della Società italiana d’igiene, medicina preventiva e sanità pubblica (SItI), allora, «la vaccinazione in età adulta e avanzata rappresenta una strategia di sanità pubblica fondamentale per il singolo e per la comunità, anche alla luce del trend demografico del nostro Paese». Secondo uno studio degli esperti di Altems Advisory dell'Università Cattolica, ricorda Di Rosa, «se raggiungessimo gli obiettivi di vaccinazione previsti dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale, risparmieremmo 10 miliardi di euro annui di spese sanitarie, mancata produttività e altri costi correlati, che andrebbero ad accrescere il nostro Pil».

Il medico di famiglia «è il primo punto di riferimento per i cittadini – interviene Tecla Mastronuzzi, medico di Medicina generale di Bari, responsabile della Macroarea Prevenzione della Simg - e sappiamo bene che questo è vero soprattutto per i pazienti anziani e per i pazienti fragili, per malattie e conseguenti terapie o per le precarie condizioni sociali. La riattivazione dello zoster per questi pazienti rappresenta un “incidente” che cambia la vita».

Dall’indagine Ipsos emerge inoltre che i pazienti con malattie cardiovascolari e respiratorie sono quelli maggiormente informati sul rischio di sviluppare Herpes Zoster, mentre le persone con nefropatie risultano le meno informate. Seguono, sempre in termini di consapevolezza del rischio, i pazienti con diabete e gli immunosoppressi. In generale, tuttavia, il “non mi riguarda” è piuttosto diffuso.

Nel nostro Paese la situazione è allineata al quadro generale. Nel caso del diabete, per esempio, il 61% degli intervistati in Italia è consapevole dell’elevato rischio che corre nel contrarre la patologia da Herpes Zoster, ma non ne sa abbastanza o pensa che non lo riguardi. Esistono, invece, evidenze cliniche che mostrano come la presenza di diabete aumenti il rischio sia di sviluppare l’infezione da Herpes Zoster sia di incorrere in complicanze.

Anche nei pazienti oncologici «è importante promuovere la vaccinazione» assicura Sandro Pignata, direttore dell'Oncologia medica dell'Istituto tumori Pascale di Napoli e responsabile scientifico della Rete oncologica campana. Per farlo, precisa, «è però necessario partire dagli operatori sanitari: la cultura vaccinale, la consapevolezza del suo valore, l’informazione corretta è fondamentale proprio per garantire un'adesione consapevole alla vaccinazione, che non solo è parte integrante del trattamento oncologico ma preserva la qualità della vita dei pazienti». Anche le linee guida dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), ricorda Pignata, «raccomandano fortemente la vaccinazione contro l'Herpes Zoster. In chi si trova ad affrontare un tumore solido del sistema nervoso centrale o in generale un cancro gastrico, colorettale, polmonare, mammario, ovarico, prostatico, renale e vescicale, si calcola sia associato un aumento del rischio di infezione da Herpes Zoster tra il 10 e il 50%».

È importante proteggere anche i pazienti con malattie reumatologiche, aggiunge infine Andrea Doria, presidente della Società italiana di reumatologia. Per esempio, «in caso di lupus eritematoso sistemico, il rischio di Herpes Zoster aumenta del 150% rispetto alla popolazione di confronto. Per quanto riguarda l’artrite reumatoide, due studi che hanno coinvolto oltre 160 mila pazienti dimostrano che il rischio è quasi doppio rispetto alla popolazione generale».

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A 15 anni dalla legge 38 ancora scarsa la consapevolezza della “malattia dolore”

Mer, 02/26/2025 - 15:48
Il documento

Diffondere una cultura capillare del dolore cronico attraverso una corretta informazione sulla condizione e sulle effettive possibilità di curarla; garantire programmi di formazione continua e aggiornata del personale socio-sanitario; potenziare le reti di terapia del dolore, anche attraverso un maggiore coinvolgimento della medicina di prossimità nelle nuove articolazioni territoriali create dal Pnrr.

Sono queste, in sintesi, le raccomandazioni contenute nel “Nuovo Manifesto sul dolore” presentato a Roma martedì 25 febbraio.

Il dolore cronico non è solo il segnale di una malattia, ma anche una condizione clinica, spesso difficile da comprendere per gli stessi pazienti e per gli operatori sanitari, eppure fortemente invalidante per chi ne soffre. In Italia interessa oltre 10 milioni di persone, sei volte su dieci donne, in molti casi senza trovare un’adeguata risposta nonostante le cure disponibili e una legge, la 38/2010, che sancisce il diritto a non soffrire.

Proprio in occasione dei 15 anni dall’approvazione della legge, un’alleanza di Società scientifiche, professionisti sanitari, Associazioni di pazienti e cittadini ha redatto il Nuovo Manifesto per sollecitare interventi che promuovano una maggiore consapevolezza della “malattia dolore” e garantiscano una presa in carico mirata e tempestiva.

Per dolore cronico si intende un dolore che perdura da più di tre mesi in modo persistente, continuo o ricorrente. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità si tratta di uno dei maggiori problemi di salute pubblica a livello globale, per il peso epidemiologico e per l’impatto multidimensionale: chi ne soffre, è meno produttivo sul lavoro, meno efficiente all’interno della rete familiare e può sviluppare problematiche di tipo ansioso o depressivo, autoimponendosi limiti nella vita quotidiana per paura di provare dolore. Complice la scarsa consapevolezza, in molti casi i pazienti vivono con rassegnazione la propria condizione dolorosa, accedendo con notevole ritardo a cure specifiche.

«La presentazione di questo nuovo Manifesto, a due anni dal lancio del primo - sostiene Luciano Ciocchetti, vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera - costituisce un momento cruciale per rafforzare l’attenzione su questa tematica e promuovere un cambiamento concreto nelle politiche sanitarie».

La Legge 38 prevede una rete assistenziale dedicata alla terapia del dolore, multidisciplinare e integrata, in grado di garantire una diagnosi tempestiva e tempi adeguati di accesso alle cure, riducendo il numero di interventi inappropriati, effetti indesiderati e complicanze. A oggi, tuttavia, la rete non trova ancora un’applicazione omogenea sul territorio nazionale.

«Il paziente con dolore cronico è spesso disorientato nel percorso diagnostico-terapeutico – sottolinea Gabriele Finco, Past President dell'Associazione italiana per lo studio del dolore (Aisd) - e si trova a dover consultare numerosi specialisti prima di arrivare a un centro specialistico di terapia del dolore, anche con gravi conseguenze psicofisiche oltre che economiche. Per questo è fondamentale rafforzare e diffondere la “cultura del dolore” partendo dai giovani medici e coinvolgendo tutti i professionisti socio-sanitari. È urgente investire nella formazione sugli aspetti fisiopatologici, sociali e psicologici del dolore cronico – conclude - essenziali per una corretta gestione del paziente».

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L'Unione europea approva acoramidis per pazienti adulti con amiloidosi da transtiretina e cardiomiopatia

Mer, 02/26/2025 - 15:46
Farmaci Dopo l'autorizzazione della Commissione europea, acoramidis è disponibile per gli adulti colpiti da amiloidosi da transtiretina (ATTR-CM) nella forma wild-type, legata all'età, così come per quelli con la variante ereditaria della malattia. L'ATTR-CM è una malattia grave e progressiva, che causa una cardiomiopatia restrittiva, portando a insufficienza cardiaca. I pazienti sono a rischio di peggioramenti a causa dell'accumulo di fibrille amiloidi (piccole aggregazioni di proteine) nel cuore. Acoramidis è una piccola molecola somministrata per via orale, altamente selettiva, che stabilizza la transtiretina, una proteina che trasporta gli ormoni tiroidei, con un'efficacia superiore al 90%. L'approvazione di acoramidis si basa sui dati dello studio clinico di Fase III ATTRibute-CM, che ha confrontato l'efficacia e la sicurezza del farmaco con il placebo, in pazienti affetti da ATTR-CM. I risultati hanno mostrato la superiorità di acoramidis nel ridurre il tasso di mortalità per qualsiasi causa (ACM) e le ospedalizzazioni per cause cardiovascolari (CVH), grazie alla sua capacità di stabilizzare quasi completamente la transtiretina e di ridurre la formazione di fibrille amiloidi. I principali risultati dllo studio indicano una riduzione del rischio del 36% nell'endpoint composito di mortalità per tutte le cause e primo ricovero cardiovascolare a 30 mesi, rispetto al placebo, con benefici già visibili a partire dal terzo mese di trattamento; una riduzione del 50% del rischio relativo di ospedalizzazioni cardiovascolari annualizzate rispetto al placebo, a 30 mesi; inoltre, i dati dell’estensione in aperto (OLE) hanno dimostrato una riduzione del 34% del rischio di mortalità per tutte le cause a 42 mesi. Il farmaco ha mostrato un buon profilo di sicurezza. «Acoramidis rappresenta un progresso significativo nel trattamento dell'ATTR-CM, una malattia spesso sottodiagnosticata e progressiva» sostiene Marianna Fontana, professoressa di Cardiologia all'University College London e cardiologa al National Amyloidosis Centre nel Regno Unito. Per Christine Roth, Executive Vice President, Global Product Strategy and Commercialization e membro del Pharmaceuticals Leadership Team di Bayer, «l’approvazione di acoramidis in Europa rappresenta un traguardo significativo, poiché offre ai pazienti una nuova opzione terapeutica ad azione rapida, capace di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari e rallentare la progressione della malattia».
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Sanità digitale leva strategica per l'accesso ai servizi sanitari. Un Disegno di legge per istituire una Giornata delle aree interne

Mer, 02/26/2025 - 15:45
Il Convegno

La digitalizzazione della sanità come leva strategica per garantire equità di accesso ai servizi sanitari, soprattutto nelle aree interne e nelle comunità montane, dove la carenza di strutture e personale medico rende necessaria una trasformazione del modello di assistenza. È questo il tema del convegno “Connessi. La digitalizzazione nella sanità delle aree interne e nelle comunità montane” che si è svolto martedì 25 febbraio a Roma, con l'obiettivo di fare il punto sulle migliori esperienze e delineare le prospettive future per un'efficace integrazione delle tecnologie digitali nella sanità territoriale

«La digitalizzazione della sanità rappresenta una sfida cruciale per garantire servizi efficienti e accessibili nelle aree interne e nelle comunità montane» sottolinea Guido Quintino Liris, presidente dell’Intergruppo parlamentare sulla prevenzione e le emergenze sanitarie nelle aree interne. Con il convegno “Connessi” «vogliamo porre l’attenzione sulle soluzioni concrete che Governo e Parlamento stanno promuovendo per superare il digital divide e rafforzare l’assistenza territoriale – spiega - mettendo la tecnologia al servizio delle persone. L'Italia ha storicamente dimostrato una straordinaria capacità di trasformare le sfide in opportunità e, oggi più che mai, la nostra azione politica deve essere orientata su innovazione e resilienza per costruire le solide basi di un sistema sanitario sempre più giusto, performante ed efficiente». In questo contesto, precisa Liris, la Strategia nazionale per le aree interne (Snai) «rappresenta lo strumento principale per promuovere lo sviluppo e la coesione di questi territori, unitamente alle linee a ciò dedicate del Pnrr. Tuttavia, ad oggi, in Italia non esiste una "Giornata nazionale delle aree interne" ufficialmente riconosciuta che celebri l’unicità di questi territori e ne valorizzi il ruolo strategico. Per questo motivo ho deciso di depositare in Senato un Disegno di legge sulla istituzione della Giornata nazionale delle aree interne e dei piccoli comuni montani. Abbiamo bisogno di uno strumento simbolico, ma concreto, per accendere i riflettori su una parte d'Italia geograficamente marginale, ma di preminente interesse. Vogliamo dare voce alle esigenze delle comunità locali e costruire un futuro in cui le aree interne possano esprimere appieno il loro potenziale. Il nostro impegno – conclude Liris - è chiaro: nessuno deve essere lasciato indietro».

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La salute degli europei, tra malattie croniche e sistemi sanitari in affanno

Mar, 02/25/2025 - 16:51
Il rapporto Doctor_and_patient_looking_at_CT_Scan_of_Lungs.jpg Immagine: M Joko Apriyo Putro, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons Pubblicato dall’Oms Europa lo ‘European Health Report’. Segnali di preoccupazione per la salute mentale dei più giovani; rialzano la testa le malattie infettive per la frenata delle vaccinazioni. Crescono i medici, ma non basta

L’Europa continua a essere una delle aree del mondo più sane, tuttavia diversi indicatori di salute hanno interrotto il trend positivo o stanno addirittura regredendo. Dall’impatto delle malattie croniche, al benessere mentale - specie negli adolescenti - fino alle coperture vaccinali che portano alla ripresa di alcune malattie infettive. Non ultimo, i servizi sanitari soffrono i cambiamenti demografici e la carenza di risorse. Sono alcuni dei dati che emergono dallo European Health Report  pubblicato questa mattina dall’Ufficio europeo dell’Oms. 

«In un momento di crescente polarizzazione sociale e politica, anche in materia di salute, l'European Health Report fornisce ai governi le prove e le conoscenze di cui hanno bisogno per agire rapidamente per realizzare solide politiche sanitarie, costruire sistemi sanitari resilienti, salvaguardare vite e rafforzare il tessuto stesso della società. Possiamo e dobbiamo fare di meglio lavorando rapidamente per la salute per tutti», ha affermato il direttore dell’Oms Europa Hans Henri P. Kluge.

Il rapporto, pubblicato ogni tre anni, attinge ai dati più recenti disponibili in tutti i 53 Stati membri della Regione europea dell’Oms, che comprende  Europa e Asia centrale, . 

Bambini da tutelare

La salute dei bambini è una delle principali preoccupazioni che emergono dal rapporto. Sebbene la regione europea nel suo complesso abbia alcuni dei tassi più bassi di mortalità infantile prevenibile a livello mondiale, la differenza tra i Paesi con le migliori e peggiori prestazioni è enorme: si va da 1,5 decessi ogni 1.000 bimbi nati vivi a 40,4 decessi ogni 1.000. Nel complesso, ancora 75.647 bambini sotto i cinque anni muoiono ogni anno nella Regione. Le prime cinque cause di mortalità sotto i cinque anni sono: complicazioni da parto pretermine, asfissia neonatale, anomalie cardiache congenite, infezioni delle basse vie respiratorie e sepsi neonatale o altre infezioni.

Peggiora ance la salute mentale. Un adolescente su 5 nella Regione europea è alle prese con un problema di salute mentale, con le ragazze che  segnalano costantemente livelli inferiori di benessere mentale rispetto ai ragazzi. Il 15% degli adolescenti riferisce di aver subito di recente cyberbullismo e il suicidio, sebbene i tassi siano in diminuzione, è la principale causa di morte tra i 15 e i 29 anni.

Non va meglio sugli stili di vita: 1 adolescente su 10 di età compresa tra 13 e 15 anni usa una qualche forma di prodotto contenente tabacco; quasi 1 bambino su 3 in età scolare è in sovrappeso e 1 su 8 convive con l'obesità. 

«Nel nostro mondo online e interconnesso, i nostri giovani si sentono ironicamente più soli che mai, con molti che lottano con il loro peso e la loro autostima, il che li predispone a una cattiva salute da adulti», aggiunge Kluge.

Epidemia da malattie croniche

Per quel che riguarda gli adulti, le malattie non trasmissibili rappresentano la principale causa di morte e, insieme al cancro, fanno sì che un europeo su sette muoia prima dei 70 anni. 

Le malattie cardiovascolari sono responsabili del 33,5% delle morti premature dovute a malattie non trasmissibili, con un rischio quasi cinque volte superiore nell'Europa orientale e in Asia centrale rispetto all'Europa occidentale. Il cancro causa un altro terzo delle morti premature

Critici, da questo punto di vista, restano gli stili di vita. La Regione europea dell'Oms ha il più alto consumo di alcol al mondo, con una media di 8,8 litri di alcol puro per adulto all'anno. Il consumo è più alto nell'Unione Europea e più basso nei paesi dell'Asia centrale. Il consumo di tabacco tra gli adulti rimane elevato, al 25,3% complessivo.

«Le malattie non trasmissibili non ricevono ancora l'attenzione che meritano, nonostante rappresentino il 90% di tutti i decessi nella nostra regione», ha osservato Kluge. «È interessante notare che l'incidenza del cancro è più alta nell'Europa occidentale e settentrionale rispetto all'Europa orientale e all'Asia centrale, dove le malattie cardiovascolari sono più comuni, in parte a causa di diverse condizioni di vita, comportamenti di salute della popolazione ed efficacia del sistema sanitario», ha aggiunto. «L'intera regione deve affrontare le cause profonde delle malattie croniche, dal consumo di tabacco e alcol allo scarso accesso a cibo sano e nutriente, all'inquinamento atmosferico, alla mancanza di attività fisica. La crisi climatica sta solo peggiorando le cose, aumentando il carico di malattie in tutto lo spettro, in particolare le malattie croniche». 

L’ambiente che cambia

Su questo fronte, la Regione europea è quella che si sta riscaldando più rapidamente delle sei regioni dell'Oms, con temperature che aumentano a circa il doppio della media globale. In tutta la Regione, si stima che ogni anno si verifichino 175 mila decessi correlati al calore. 

Tra il 2000 e il 2022, stima il rapporto, il numero di decessi dovuti alle temperature eccezionalmente alte è cresciuto di 36 mila unità tra gli over 65. 

I Paesi dell’Europa meridionale e orientale sono quelle che hanno registrato il maggiore aumento nei decessi tra persone con più di 65 anni di età. Tra il 2000 e il 2022, il Tajikistan ha registrato un +185%, in Turchia l’aumento è stato del 126%, in Azerbaijan del 116%. L’Italia è a metà classifica con un +54%. In numeri assoluti, il maggiore aumento nel numero di decessi è stato registrato in Germania (6.213), seguita da Russia (3.713) e Ucraina (3.239). In Italia, l’aumento è stato di 2.264 decessi. 

«La mortalità correlata al calore è una preoccupazione crescente poiché gli eventi di calore estremo diventano più frequenti a causa del cambiamento climatico», spiega il rapporto. «Le persone con più di 65 anni sono particolarmente vulnerabili, con un rischio più elevato di incorrere in un colpo di calore e in un peggioramento delle condizioni croniche».

Malattie infettive di ritorno

Se i peso delle malattie croniche cresce, non va molto meglio per quelle infettive. I tassi di vaccinazione non ottimali degli ultimi anni, in un contesto in cui crescono i movimenti anti-vaccino, hanno portato a una ripresa di diverse malattie prevenibili. Nel 2023 si sono verificati 58 mila casi di morbillo in 41 Stati membri dell’Oms Europa, un aumento di 30 volte rispetto all'anno precedente.

Nel frattempo, però, una buona notizia arriva dalla lotta alla tubercolosi: tra il 2015 e il 2022 sono calati del 25 i nuovi casi annui e del 32% i decessi. Resta però il problema delle forme resistenti agli antibiotici, il cui impatto cresce e oggi rappresentano un quarto di tutti i nuovi casi. 

Inoltre, circa 3 milioni di persone vivono con l’Hiv. Sebbene i nuovi casi siano scesi del 25% negli ultimi 10 anni, solo il 72% delle persone che ha contratto il virus è a conoscenza del proprio stato e solo il 63% riceve una terapia antiretrovirale salvavita. Solo cinque dei 53 stati membri della Regione raggiungono l'obiettivo di avere il 90% di casi Hiv positivi in ​​trattamento. Tra questi non c’è l’Italia, dove è in trattamento l’88% delle persone sieropositive. 

Servizi sanitari in sofferenza

Intanto cresce la sofferenza dei servizi sanitari che si trovano ad affrontare «sfide senza precedenti, tra cui l’impatto ancora in corso della pandemia di coronavirus (Covid-19), i cambiamenti climatici, l'invecchiamento della popolazione e i conflitti armati», spiega il rapporto. 

L’impatto della spesa out-of-pocket per i cittadini, portano a difficoltà finanziarie e bisogni insoddisfatti, con una percentuale tra l’1% e il 14% delle famiglie che va incontro a un impoverimento per far fronte alle spese sanitarie e tra l'1% il 21% che deve rinunciare ad altre spese per rispondere ai bisogni di salute. 

Critico è anche il tema del personale sanitario. La Regione europea dell’Oms è l’area del mondo con la maggiore densità di personale sanitario e il loro numero continua a crescere. Nonostante ciò, i servizi sanitari fanno fatica a rispondere alla domanda di salute della popolazione. 

«Nell'ultimo decennio (2012-2022), la densità media di medici è aumentata del 20%, la densità di infermieri dell’8%, la densità di ostetriche del 2,1%, la densità di dentisti del 17% e la densità di farmacisti del 21%», spiega il rapporto, che conferma che  l’Italia è al di sopra della media per quel che riguarda i medici (42 per 10.000 a fronte di una media di 38,4) ma al di sotto per gli infermieri (64,6 per 10.000 rispetto a una media di 80,8). 

Nonostante ciò «gli Stati membri stanno affrontando carenze critiche, poiché la domanda di servizi sanitari sta crescendo a un ritmo più veloce rispetto all'aumento dell’offerta». 

«Poiché le risorse finanziarie e umane sono sempre più tese, l'accesso all'assistenza sanitaria diventa più difficile», ha commentato Natasha Azzopardi-Muscat, direttrice del dipartimento Country Health Policies and Systems dell’Oms Europa. «Ciò ha un impatto particolare sulle famiglie a basso reddito.  Garantire una vita di buona salute significa investire strategicamente nei sistemi sanitari per garantire che la copertura sia realmente universale», ha concluso.

Categorie: Medicina integrata

Gli infettivologi italiani: i tagli dell'amministrazione Trump ai programmi di salute pubblica mettono a rischio ricerca, prevenzione e cure in tutto il mondo

Lun, 02/24/2025 - 18:37
L'allarme Simit

La Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) esprime «profonda preoccupazione per la sospensione dei finanziamenti federali statunitensi ai programmi di salute pubblica nazionali ed internazionali, specie nel settore della prevenzione e cura delle malattie infettive». Questa decisione, sostiene una nota della Società scientifica, «mette a rischio milioni di vite nei Paesi più poveri e vulnerabili, compromettendo i progressi nella lotta globale alle malattie infettive e alla prevenzione delle pandemie».

Il blocco dei fondi USAID ha già causato la chiusura di Centri clinici e l’interruzione di programmi fondamentali per l'infezione da Hiv e Aids, per la tubercolosi e per la malaria, osserva la Simit. E il ripristino della cosiddetta “Mexico City Policy”, che blocca i finanziamenti federali statunitensi alle Ong, limita gravemente l’accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, mentre il congelamento di finanziamenti alle Istituzioni federali come il National Institute of Health (NIH) e il Center for Disease Control and Prevention (CDC) ostacola la ricerca scientifica e la prevenzione delle epidemie.

«In un momento in cui la salute globale dovrebbe essere una priorità condivisa, decisioni come queste sono inaccettabili e mettono a rischio anni di progressi» avverte Roberto Parrella, presidente Simit. «Tagliare i finanziamenti alla cooperazione sanitaria internazionale non solo penalizza i Paesi più fragili – aggiunge - ma rappresenta una minaccia per la sicurezza sanitaria di tutti».

Ulteriore preoccupazione desta l'ordine esecutivo impartito ai CDC sul ritiro degli articoli scientifici in fase di pubblicazione per rimuovere termini considerati “non conformi” dalla nuova amministrazione USA, «configurando un esempio di interferenza politica sulla scienza e sulla salute pubblica».

La Simit chiede pertanto al Governo italiano di «esercitare una pressione politica sulla Presidenza degli Stati Uniti al fine di considerare una revisione di queste misure – conclude Parrella - e invita la comunità scientifica nazionale e internazionale a rafforzare il proprio impegno per garantire la continuità dei programmi sanitari essenziali di ricerca e prevenzione, soprattutto nelle fasce di popolazioni fragili. La salute è un diritto universale non politicamente negoziabile e deve restare al centro delle politiche globali».

Categorie: Medicina integrata

Solo un italiano su dieci è soddisfatto della qualità della vita nella propria città

Lun, 02/24/2025 - 18:35
Il Rapporto

Solo l’11% degli italiani si dichiara pienamente soddisfatto della qualità della vita nella propria città e il 39% ha registrato peggioramenti significativi negli ultimi anni, soprattutto nei grandi centri urbani.

Sono dati dal 2° Rapporto One Health “La salute della città e dei territori” realizzato dal Campus Bio-Medico di Roma in collaborazione con l’Istituto Piepoli.

Il campione intervistato immagina un futuro determinato dal progresso della tecnologia (per il 68%) e un orientamento sempre più concreto verso la sostenibilità (51%), l’efficienza (48%), l’inclusione (42%). La qualità della vita dipende inevitabilmente da alcuni elementi essenziali, il cui principio fondamentale può essere riassunto nel concetto di “accessibilità”: alla salute, al lavoro, alla casa, all'istruzione. L’immagine della città del futuro è in linea con le priorità espresse dalle persone. Infatti, i cittadini si aspettano che le città del futuro siano ambienti sicuri e verdi, dove sia possibile accedere facilmente a cure (56%), servizi (55%), formazione (53%), opportunità professionali (51%), mobilità sostenibile (50%), integrazione e socialità in ogni fase della vita.

Lo studio ha permesso di tracciare due scenari possibili per il futuro delle città. Il primo, chiamato "città da usare", immagina i grandi centri urbani come centri di eccellenza economica, culturale e sanitaria, da vivere principalmente come luoghi di lavoro e servizi, con una popolazione residente limitata e flussi giornalieri intensi. Il secondo, invece, chiamato "città da vivere", concepisce il tessuto urbano come uno spazio orientato a favorire l’inclusione sociale, la coesione tra centro e periferie e aree urbane progettate per migliorare la qualità della vita, con abitazioni accessibili, verde pubblico e servizi di prossimità.

Per il futuro delle città italiane nel settore sanitario, secondo il Rapporto l'integrazione tra pubblico e privato giocherà un ruolo chiave per migliorare l'accesso alle cure e ridurre i costi, grazie anche all’utilizzo di tecnologie avanzate come l’intelligenza artificiale e la telemedicina. L’attenzione verso la prevenzione sarà più che mai centrale e consentirà di far fronte al progressivo invecchiamento della popolazione.

Il Rapporto «propone scenari – sottolinea Livio Gigliuto, presidente dell’Istituto Piepoli - quelli che chiamiamo “futuribili”, delle città che vivremo. Sono diversi e per certi versi divergenti, ma su alcune cose tendono a trovarsi in armonia: le città del futuro non saranno solo spazi costruiti, ma ecosistemi vivi, capaci di integrare sostenibilità, benessere e innovazione. Il cambiamento è già in atto: cittadini e opinion leader sono pronti a ripensare i nostri spazi urbani per renderli più inclusivi, accessibili e sani. Il futuro delle città non è un destino già scritto, ma una scelta che compiamo oggi».

Per Carlo Tosti, presidente dell'Università e Fondazione Policlinico Campus Bio-Medico, «le città italiane si trovano davanti a una sfida epocale: conciliare la loro unicità storica e culturale con la necessità di adattarsi a un futuro sostenibile. La crescita delle medie città rappresenta un'opportunità straordinaria per creare nuovi modelli di sviluppo urbano, più inclusivi e a misura d’uomo. Tuttavia – avverte - per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità entro il 2050 è fondamentale agire subito, investendo in mobilità sostenibile e rigenerazione urbana. Questo Rapporto vuole essere una guida e uno stimolo per Istituzioni, esperti e cittadini, affinché insieme possano costruire un futuro dove qualità della vita e innovazione vadano di pari passo».

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