In Italia il 60% delle persone con diagnosi di tumore avrebbe necessità di trattamenti radioterapici, ma solo il 30% vi accede, privando così i pazienti di un'opportunità terapeutica indispensabile e potenzialmente salvavita.
Il dato è stato messo in evidenza in occasione degli Stati generali della radioterapia oncologica, promossi dall’Associazione italiana di radioterapia e oncologia clinica (Airo) venerdì 28 marzo a Roma.
Dall'incontro in cui per la prima volta radio-oncologi, oncologi medici, radiologi, Associazioni di pazienti e Istituzioni si sono riuniti per definire le misure necessarie a consentire un impiego ottimale della radioterapia, ancora sottoutilizzata in Italia rispetto agli standard internazionali sono allora partiti tre appelli: valorizzare la formazione sulla radioterapia; rafforzare il ruolo dei radio-oncologi nei team multidisciplinari e promuovere il loro maggiore coinvolgimento nelle Reti oncologiche regionali, nei Comitati farmaci innovativi e in tutti gli altri snodi decisionali dedicati alla presa in carico dei pazienti e alla governance delle patologie tumorali; delineare precisi percorsi terapeutici, che integrino cure farmacologiche e radioterapia nelle patologie oncologiche in cui è più evidente il beneficio dell’associazione fra farmaci e radioterapia.
«La radioterapia oncologica è una risorsa essenziale – sostiene il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenuto all'incontro - che deve essere valorizzata e integrata nei percorsi terapeutici, per garantire a tutti i pazienti oncologici le migliori possibilità di cura. Insieme a tutte le parti coinvolte dobbiamo continuare a lavorare per assicurare un accesso equo ai trattamenti, senza differenze geografiche. Un migliore utilizzo della radioterapia – aggiunge - non solo migliorerà gli esiti clinici, ma renderà l’intero sistema sanitario più sostenibile, favorendo l’accesso a trattamenti mirati e con un ottimo rapporto costo-benefici».
La radioterapia soffre di una grave carenza di professionisti, con solo 1.045 radio-oncologi distribuiti in maniera non uniforme sul territorio nazionale, in circa 200 Centri di radioterapia. Una carenza determinata da un numero insufficiente di iscritti alle Scuole di specializzazione rispetto ai posti disponibili( solo 23 iscritti nel 2024 a fronte di 170 posti) e da un numero esiguo di ore di insegnamento dedicate alla radioterapia nei corsi di laurea in Medicina.
In Italia la radioterapia «è sottoimpiegata non per mancanza di tecnologia o competenze – sottolinea Marco Krengli, presidente Airo - ma per mancanza di un percorso strutturato che ne regoli l’utilizzo. Il nostro obiettivo è lavorare con le Istituzioni per garantire un accesso equo a questa terapia salvavita, e per far sì che la radioterapia sia sempre considerata nei percorsi oncologici fin dalle prime fasi decisionali. È poi essenziale investire nella formazione di nuovi specialisti – aggiunge - rendendo l’insegnamento della radioterapia sempre più attrattivo nel percorso universitario e di specializzazione».
Elias Khalil, presidente e amministratore delegato Italy Hub di Lilly (Italia, Centro-Est Europa e Israele), è stato nominato presidente del Gruppo farmaceutico italo-americano (Italian American Pharmaceutical Group, IAPG). Il neoeletto è il dodicesimo presidente nella storia del sodalizio che riunisce 15 aziende farmaceutiche italiane a capitale americano e che fa parte di Farmindustria.
Elias Khalil è nato e cresciuto in Libano. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 2003, ha maturato una forte esperienza nell’industria farmaceutica. Entrato nel 2008 in Eli Lilly, da settembre 2021 fino al 2024 ha ricoperto il ruolo di vicepresidente Business Unit Neuroscienze di Lilly negli Stati Uniti.
«È un onore coordinare questo prestigioso gruppo di imprese italiane a capitale americano – dichiara Elias Khalil – che oggi contribuiscono in modo molto significativo non solo all’innovazione terapeutica in Italia tramite la ricerca, ma anche alla crescita economica e occupazionale del Paese attraverso lo sviluppo e la produzione. In linea e condivisione con la strategia di Farmindustria, rafforzeremo la call to action del presidente Cattani alle Istituzioni per chiedere una progressiva eliminazione del payback, che consideriamo uno strumento non più sostenibile e che potrebbe portare l’Italia a non essere più un polo attrattivo dell’innovazione e di investimenti esteri nel Paese. Vogliamo inoltre continuare a supportare il grande lavoro dell’Aifa – aggiunge - per accelerare i tempi di accesso alle cure e valorizzare le terapie maggiormente innovative attraverso l’approccio dell’HTA».
Le 15 aziende che fanno parte di IAPG impiegano oggi in Italia 14 mila dipendenti, rappresentano il 30% del fatturato totale del settore farmaceutico italiano e hanno introdotto nel nostro Paese oltre 2,4 miliardi di euro di nuovi investimenti in R&S e Produzione negli ultimi cinque anni.
L’Italia è il secondo Paese dell’Unione europea in termini di occupazione nel settore farmaceutico per le aziende statunitensi (dopo la Germania) e il farmaceutico italiano è tra i primi tre settori per gli investitori statunitensi in termini di valore aggiunto. Per le vendite ex-factory il Gruppo conta 6,6 miliardi di euro (31% del totale dell’industria), mentre per l’export raggiunge gli 8 miliardi di euro.
L’Intelligenza artificiale inizia a ritagliarsi un ruolo sempre più concreto nella pratica clinica quotidiana dei medici italiani. Una parte significativa del mondo medico, infatti, ha già avuto modo di sperimentare strumenti basati sull'IA: si va dal 29% degli specialisti attivi in centri privati al 31% tra quelli ospedalieri fino al 24% dei medici di Medicina generale. Tra le funzionalità che i medici ritengono più utili nei sistemi di Intelligenza artificiale spiccano quelle in grado di supportare un approccio più personalizzato e data-driven alla cura.
Questi dati vengono da un'indagine condotta per conto di MioDottore dalla società di ricerca Datanalysis su un campione di 3 mila medici italiani, equamente distribuiti sull’intero territorio italiano.
Rispetto all'utilizzo dell'IA non mancano tuttavia le criticità. Tra quelle più sentite emergono la complessità di utilizzo, segnalata dal 22% dei medici di Medicina generale, e la scarsa integrazione con i sistemi attualmente in uso, indicata dal 20% dei medici di base e dal 22% degli specialisti ospedalieri. Anche i costi vengono talvolta percepiti come un ostacolo (per l’11% dei medici di base e il 20% degli specialisti ospedalieri) così come la necessità di rafforzare le competenze digitali, problematica sentita almeno da un medico su cinque tra gli specialisti privati. Tuttavia, queste difficoltà non sono vissute come insormontabili.
La maggior parte dei medici dichiara infatti un livello discreto di dimestichezza con le tecnologie digitali: il 64% tra i medici di Medicina generale, il 56% tra gli specialisti dei Centri privati o convenzionati e il 54% tra quelli ospedalieri. A confermarlo è il 40% degli specialisti nei centri privati e il 43% di quelli ospedalieri che dichiarano di sentirsi pienamente a proprio agio nell’utilizzo di questi strumenti. Anche tra i medici di Medicina generale, pur con margini di miglioramento, si registra una buona propensione al digitale (31%). Sul piano territoriale emergono differenze significative: nel Nord-Ovest i medici che dichiarano una familiarità elevata o molto alta con le tecnologie digitali raggiungono il 45%, mentre nel Sud e nelle Isole questa percentuale si ferma al 29%. Nonostante queste disomogeneità, un dato resta evidente: tutti i professionisti intervistati utilizzano strumenti digitali nella pratica quotidiana.
Per tornare all'Intelligenza artificiale, le sue potenzialità sono ormai riconosciute dalla maggior parte dei medici italiani, che ne prevedono un impatto significativo sul modo di fare Medicina nei prossimi anni. A pensarla così è il 76% dei medici di Medicina generale, l’83% degli specialisti privati e l’85% di quelli ospedalieri. Un dato che riflette un clima di fiducia e apertura verso l’innovazione, con punte di ottimismo soprattutto nel Nord del Paese.
Marzo è il Colorectal Cancer Awareness Month, occasione preziosa per diffondere consapevolezza sul tumore del colon-retto e puntare i riflettori su una neoplasia molto diffusa, ma spesso sottovalutata: con quasi 49 mila nuove diagnosi in Italia nel 2024, si tratta del secondo tumore per incidenza, con una mortalità stimata di circa 24 mila decessi in un anno.
Per favorire la conoscenza dei sintomi della patologia e la sua diagnosi precoce, Merck Italia ha lanciato una nuova campagna di sensibilizzazione: “Proteggi oggi il tuo domani”.
La campagna è già attiva sui social di Merck Italia e sabato 29 e domenica 30 marzo prenderà vita nel centro di Roma, con un video su maxi schermi digitali presenti nelle zone di Campo de’ Fiori, Via Del Corso, Via del Babuino e Piazzale Flaminio.
Domenica 30 marzo si aggiungerà anche una “guerrila activation”: 15 giovani attraverseranno il centro della Capitale muniti di zaini a led che riprodurranno i contenuti della campagna, distribuendo materiali informativi sull’importanza della prevenzione del tumore del colon-retto.
Tutti i materiali di comunicazione della campagna ospitano un QR code, che rimanda al 'Symptom Checker CRC', un breve e semplice questionario online che può aiutare a capire se, a fronte di alcuni segnali, sia opportuno consultare uno specialista. Il Symptom Checker non ha l’obiettivo di fornire una diagnosi, naturalmente, ma intende essere una guida su quelli che sono i sintomi più comuni del tumore del colon-retto e che potrebbero richiedere un approfondimento medico.
«Con questa campagna – spiega Ramón Palou de Comasema, presidente e amministratore delegato Healthcare di Merck Italia – vogliamo contribuire ad alzare l'attenzione su questa patologia. Incoraggiando azioni di prevenzione e screening, iniziative come “Proteggi oggi il tuo domani” possono fare una concreta differenza nella vita delle persone. È qualcosa di cui siamo davvero orgogliosi. Crediamo fortemente che un’azienda come la nostra debba prendersi cura dei pazienti e delle persone a loro vicine rispondendo a tutte le esigenze non soddisfatte: non solo i bisogni terapeutici, ma anche quelli di educazione sulla salute».
L'Italia è ai vertici europei per disponibilità di farmaci innovativi, ma possibili ritardi e disuguaglianze regionali continuano a pesare sull'accesso dei pazienti alle terapie.
È questa la sintesi di quanto emerge dallo studio Patients W.A.I.T. 2023 (Waiting to Access Innovative Therapies), realizzato da IQVIA in collaborazione con EFPIA (European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations), la più ampia indagine europea sulla disponibilità di farmaci innovativi e sui tempi di accesso nei diversi Paesi.
Lo studio, in continua evoluzione dal 2004, copre un campione di 36 Paesi (27 dell'UE e nove non UE) e fornisce un quadro completo dei farmaci approvati a livello europeo. Ha considerato 167 farmaci approvati dall'Agenzia europea del farmaco (EMA) tra il 2019 e il 2022, suddivisi in oncologici, farmaci orfani, orfani non oncologici e combinazioni terapeutiche.
L’Italia emerge come il secondo Paese in Europa per numero di farmaci orfani disponibili (45 su 63), subito dopo la Germania (56).
Anche sul fronte oncologico, il posizionamento è positivo: quarta posizione con 40 farmaci disponibili su 48, dietro a Germania, Svizzera e Austria. La disponibilità complessiva dei farmaci innovativi in Italia è pari al 77%, con 129 prodotti sui 167 approvati dall'EMA, posizionandosi al secondo posto dopo la Germania (147 farmaci).
I risultati dell'analisi mostrano inoltre che l’Italia è uno dei primi Paesi per numero di farmaci orfani disponibili, con tempi di accesso alle liste di rimborsabilità di circa 3-4 mesi più brevi rispetto alla media dei Paesi UE, ma più lunghi rispetto ad altri come Germania, Danimarca, Austria e Svezia. Per i farmaci orfani, il tempo medio di inserimento nelle liste di rimborsabilità è di circa 14 mesi (431 giorni), contro i soli 96 giorni della Germania.
Per i farmaci oncologici l’Italia si colloca al dodicesimo posto, con circa 14 mesi di attesa (417 giorni), contro i 93 giorni della Germania e i 134 della Danimarca.
Un ulteriore elemento critico riguarda la disponibilità parziale alla rimborsabilità e le disomogeneità territoriali. Il 20% dei farmaci disponibili in Italia presenta infatti restrizioni parziali alla rimborsabilità, una quota inferiore rispetto a Paesi come Spagna (52%) e Francia (35%), ma comunque rilevante. Inoltre, i tempi rilevati si riferiscono all’accesso nazionale, senza considerare i possibili ritardi che spesso caratterizzano le singole Regioni.
Nel 2004 gli studi no profit indipendenti erano il 30% del totale mentre nel 2023 sono stati solo il 17%. Nel 2023, però, sono tornati a crescere raggiungendo quota 106 contro i 98 dell’anno precedente. Di questi uno su cinque riguarda nuovi possibili trattamenti anti-cancro.
È questo il quadro di luci e ombre emerso in occasione del convegno nazionale “La valorizzazione della ricerca indipendente: opportunità, limiti e spunti operativi”, organizzato il 25 marzo a Milano da Ficog (Federation of Italian Cooperative Oncology Groups) insieme alla Fondazione RIDE2Med.
«Stiamo assistendo a un crollo degli studi no profit a livello globale che riguarda quasi tutti i Paesi Occidentali» avverte Evaristo Maiello, presidente Ficog. «Per esempio, negli Stati Uniti questi studi si sono ridotti drasticamente – prosegue - mentre fino a pochi anni fa erano uno dei fiori all’occhiello della ricerca oncologica americana. In Italia sono assolutamente necessari maggiori finanziamenti e al tempo stesso bisogna snellire le procedure burocratiche per avviarli. Persistono ancora vincoli legislativi – aggiunge - e non sono riconosciute figure professionali importanti e fondamentali come gli Study Coordinator e gli infermieri di ricerca».
Una possibilità di rilancio del settore può però arrivare dal decreto 30 novembre 2021 che consente la cessione dei dati, ottenuti dalle sperimentazioni indipendenti, al fine di consentire la registrazione di nuovi trattamenti oncologici. Il decreto «ci permette di avviare sinergie positive e più forti collaborazioni tra la ricerca profit e quella no profit» sostiene Francesco Perrone, presidente dell'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom). «Condividendo i dati scientifici raccolti – precisa Perrone - si possono ottenere risorse economiche da reinvestire in altre sperimentazioni cliniche indipendenti».
Nel nostro Paese sono già partiti studi clinici indipendenti che prevedono fin dall’inizio la cessione dei dati: «Per la loro promozione – sottolinea Maiello -è fondamentale anche l’aiuto che può arrivare dalle Associazioni di pazienti soprattutto per reclutare i partecipanti allo studio».
La ricerca, interviene Scaccabarozzi, vicepresidente di Fondazione RIDE2Med, «può contribuire attivamente alla crescita dell’intero sistema sanitario nazionale. Quella no profit rappresenta un volano anche economico permettendo a ospedali e università di valorizzare adeguatamente il proprio lavoro. Tutto ciò – conclude - dipende ovviamente dalla qualità degli studi clinici portati avanti dai nostri specialisti».
Per il giornalista Vincenzo Mollica “Mister Parkinson” è un essere «detestabile» che invade il corpo con effetti speciali ed è descritto come un «infiltrato pronto a fare danni» da una persona con Parkinson su tre. È difficile da identificare e sembra che nemmeno il tremore possa essere un segno di riconoscimento: un paziente su due, infatti, non trema mai o lo fa raramente e per oltre la metà il tremore non è il sintomo più insopportabile (58%), né quello più imbarazzante (50%).
Il documentario “Dialoghi con Mr. Parkinson”, presentato in occasione della Giornata mondiale del Parkinson (11 aprile) dalla Confederazione Parkinson Italia con il supporto non condizionante di Zambon, getta via le maschere di Mister Parkinson: una malattia neurodegenerativa multiforme che colpisce più di 300 mila italiani con una grande varietà di sintomi, oltre quaranta, che si combinano tra di loro in modo e con intensità differente in ogni persona.
Ne deriva un indice di impatto sulla vita quotidiana elevato in più di un caso su due: secondo l’indagine “Parkinson: uno, nessuno e centomila” condotta su oltre 500 pazienti e caregiver, i ritmi si fanno più lenti (67%), i movimenti diventano faticosi (59%), la stanchezza è spesso invalidante (54%), ci si sente limitati nel tempo libero e nei viaggi (53%) così come sul lavoro (23%).
Dall'indagine risulta inoltre che la grande maggioranza dei pazienti (79%) sapeva poco o nulla del Parkinson prima della diagnosi e, in particolare, non si aspettava una tale molteplicità di sintomi (63%). A sorpresa, infatti, il tremore non è il sintomo più frequente in più di un caso su due, né quello più insopportabile o imbarazzante. Al contrario, molti pazienti convivono, sempre o quasi sempre, con la lentezza nei movimenti (72%) e la rigidità muscolare (62%), le difficoltà nella scrittura (58%) e la perdita di equilibrio (45%), ma anche con sintomi non motori come i disturbi del sonno (54%), i problemi alla voce (50%), il dolore (47%), la stanchezza (46%) e le ripercussioni sull’umore (44%).
«Il Parkinson ha un impatto molto pesante sulla qualità di vita delle persone anche alla luce dei suoi numerosi sintomi che possono essere di tipo motorio, ma anche non motorio» osserva Paolo Calabresi, professore di Neurologia all'Università Cattolica e direttore della Neurologia al Policlinico Gemelli di Roma. «Una molteplicità di manifestazioni – prosegue - che richiede un approccio altrettanto plurale. È dunque importante aiutare le persone a coltivare momenti di socialità, a eseguire attività fisica leggera con le camminate aerobiche che hanno dimostrato effetti molto positivi sui pazienti e altri passatempi come la danza, l'attività teatrale, l’ascolto di musica e la pittura».
Nel documentario anche il presidente della Confederazione Parkinson Italia, Giangi Milesi, dialoga con Mister Parkinson: «Abbiamo realizzato “Dialoghi con Mr. Parkinson” per raccontare la malattia e la sua complessità, che va ben oltre i tremori e i problemi di movimento, a tutti gli italiani, ma soprattutto per celebrare la capacità dei pazienti, dei caregiver e della scienza di reagire alla sua invadenza. Sì, perché la convivenza con Mister Parkinson è come una partita a scacchi: ogni volta che si crede di avere imparato a gestirlo, arriva un nuovo sintomo che scombussola i piani».
«Siamo particolarmente soddisfatti – commenta Rossella Balsamo, Medical Affairs & Regulatory Zambon Italia e Svizzera - di aver supportato la Confederazione Parkinson Italia nella realizzazione di questo documentario che per la prima volta porta sugli schermi la complessità della malattia, ma anche la forza che caratterizza coloro che ci convivono, contribuendo così a restituirne una immagine veritiera».
Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Pain ha svelato nuovi meccanismi alla base del dolore neuropatico, aprendo la strada a possibili terapie innovative. La ricerca, condotta dal Laboratorio di Neurofarmacologia e dal Laboratorio di Neurobiologia cellulare e molecolare dell’Istituto Neuromed di Pozzilli in collaborazione con il Dipartimento di Fisiologia e farmacologia dell’Università Sapienza di Roma, si è concentrata sulle reti perineuronali (Pnn), strutture extracellulari che avvolgono specifici neuroni e regolano la loro attività.
Il dolore neuropatico è una condizione cronica complessa, causata da un danno o un malfunzionamento del sistema nervoso e si manifesta con sintomi debilitanti come dolore bruciante, ipersensibilità o scosse elettriche, spesso difficili da trattare con le terapie convenzionali.
«Abbiamo scoperto – racconta Giada Mascio, prima firmataria dello studio - che l’aumento della densità delle reti perineuronali in alcune regioni chiave del cervello è direttamente collegato alla sensibilizzazione al dolore nei modelli murini di neuropatia e che il progressivo incremento di queste strutture nel circuito talamocorticale stabilizza meccanismi maladattativi che portano a processi disfunzionali sensoriali e quindi di conseguenza alla persistenza del dolore. Modificando queste strutture, ad esempio attraverso enzimi degradanti, siamo riusciti a migliorare le soglie del dolore, suggerendo un nuovo approccio per trattare condizioni croniche difficili da gestire».
L’indagine, condotta su modelli animali, si è concentrata in particolare sui circuiti neuronali che coinvolgono la corteccia somatosensoriale e i nuclei reticolari del talamo, regioni strettamente legate alla percezione e alla modulazione del dolore. «Questi circuiti – spiega Mascio - rappresentano veri e propri snodi chiave nel controllo del dolore e intervenire su di essi può fare la differenza. Nel dolore cronico, quindi, la rimozione delle reti perineuronali potrebbe riattivare uno stato di plasticità simil-giovanile e l’inibizione della plasticità potrebbe ridurre lo sviluppo del dolore».
L’importanza di questa scoperta è stata riconosciuta dalla commissione editoriale di Pain, che pubblica un Commentary article a sottolineare la rilevanza dello studio.
Damiano, già ministro del Lavoro e della previdenza sociale nel secondo Governo Prodi e presidente dell’Associazione Lavoro&Welfare, succede a Ivano Russo.
«Il tema della Sanità Integrativa e complementare è un tema molto attuale per la vita dei lavoratori e delle imprese – dice Damiano - ed è indiscutibile la necessità di una riforma che vada nella direzione di una legislazione di sostegno all’attività del settore che sia il risultato di un percorso di dialogo con i protagonisti del settore e le parti sociali. Credo che l’Osservatorio possa contribuire a uscire dalla contrapposizione tra pubblico e privato – aggiunge - anche delineando i confini dei servizi da erogare, partendo sempre dall’assunto di fondo che la sanità pubblica deve rimanere il pilastro fondamentale».
L’Osservatorio nasce nel 2023 con l’obiettivo di promuovere ricerca, dibattito e divulgazione sul ruolo della Sanità integrativa e di favorire un processo condiviso di riforma normativa del settore attraverso approfondimenti e occasioni di incontri.
In occasione del Colorectal Cancer Awareness Month, che si celebra a marzo, Merck Italia ha lanciato la nuova campagna di sensibilizzazione “Proteggi oggi il tuo domani”.
Con quasi 49 mila nuove diagnosi in Italia nel 2024, il tumore del colon retto è il secondo tumore per incidenza, con una mortalità stimata di circa 24 mila decessi in un anno.
La campagna, che è già attiva sui social di Merck Italia (LinkedIn e Instagram), sfrutta diversi strumenti di comunicazione: maxi schermi digitali (Digital Out of Home), Guerrila Marketing e Social Media. Sabato 29 e domenica 30 marzo prenderà vita nel centro di Roma con un video su maxi schermi digitali presenti nelle zone di Campo De’ Fiori, Via Del Corso, Via del Babuino e Piazzale Flaminio.
Domenica 30 marzo si aggiungerà anche una guerrila activation ad alto impatto: 15 giovani attraverseranno il centro della Capitale muniti di zaini a led che riprodurranno i contenuti di campagna, distribuendo materiali informativi sull’importanza della prevenzione del tumore del colon-retto.
Tutti i materiali di comunicazione della campagna “Proteggi oggi il tuo domani” ospitano un QR code, che rimanda al 'Symptom Checker CRC'.
Si tratta di un breve e semplice questionario online che può aiutare a capire se, a fronte di alcuni segnali, sia opportuno consultare uno specialista.
Il Symptom Checker non ha l’obiettivo di fornire una diagnosi, ma intende piuttosto essere una guida su quelli che sono i sintomi più comuni del tumore del colon-retto e che potrebbero richiedere un approfondimento medico.
«Con questa campagna vogliamo contribuire ad alzare l'attenzione su questa patologia. Incoraggiando azioni di prevenzione e screening, iniziative come “Proteggi oggi il tuo domani” possono fare una concreta differenza nella vita delle persone», dichiara Ramón Palou de Comasema, presidente e amministratore delegato Healthcare di Merck Italia. «È qualcosa di cui siamo davvero orgogliosi. Crediamo fortemente che un’azienda come la nostra debba prendersi cura dei pazienti e delle persone a loro vicine rispondendo a tutte le esigenze non soddisfatte: non solo i bisogni terapeutici, ma anche quelli di educazione sulla salute».
I farmaci dopaminergici, in particolare quelli che stimolano i recettori D1 della dopamina, sostanza chimica che svolge un ruolo cruciale nella comunicazione tra cellule nervose del cervello, possono migliorare la memoria di lavoro, ma solo se somministrati a basse dosi, mentre, se il dosaggio aumenta, nei pazienti si verifica un peggioramento. È quanto è stato scoperto in uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, coordinato dall’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbc) e condotto congiuntamente con l’Istituto di genetica e biofisica (Igb) del Cnr, con l’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) e con i Dipartimenti di farmacia, di biologia e di studi umanistici dell’Università Federico II di Napoli.
«Il nostro studio ha rivelato che una dose bassa dei farmaci dopaminergici può espandere la memoria oltre il suo limite normale, agendo su una regione sottocorticale: lo striato. Tuttavia, se si alza la dose dello stesso farmaco, si ottiene l’effetto opposto: la memoria peggiora», spiega Elvira De Leonibus del Cnr-Ibbc e del Tigem. «Questo avviene perché all’aumentare della dose, il farmaco attiva lo stesso sistema di segnalazione in un'altra regione del cervello, la corteccia prefrontale, che svolge una funzione superiore in termini di controllo, e l’attivazione della corteccia prefrontale ‘spegne’ lo striato, causando un deficit di memoria. Attraverso tecniche avanzate di manipolazione dei circuiti cerebrali e di identificazione dei sistemi di segnalazione, abbiamo dimostrato che, inibendo il circuito attraverso cui la corteccia prefrontale interagisce con lo striato è possibile prevenire gli effetti deleteri delle dosi elevate del farmaco. Quindi, l’effetto del farmaco va studiato a livello di circuiti cerebrali non del suo singolo bersaglio, perché le regioni del cervello sono tutte interconnesse».
Lo studio è importante per le sue ricadute nell’ambito della psicofarmacologia, evidenziando aspetti fondamentali nel settore clinico.
«Nella stessa ricerca abbiamo dimostrato che le stesse dosi basse di farmaco che espandono la memoria in soggetti normali, migliorano anche i deficit di memoria in un modello animale di schizofrenia. Il nostro studio mostra come aumentare le dosi di un farmaco non equivale a migliorarne l'efficacia, al contrario, può attivare strutture e circuiti cerebrali diversi, producendo effetti paradossali. Dunque, la scelta dei farmaci antipsicotici deve tenere conto dei circuiti, non solo delle singole regioni cerebrali. Questa complessità richiede un'analisi approfondita finalizzata a sviluppare farmaci intelligenti, ossia a progettare molecole capaci di adattarsi allo stato di attivazione del circuito su cui agiscono», conclude la ricercatrice del Cnr-Ibbc.
La ricerca è stata supportata anche dal progetto MNESYS finanziato dal ministero dell’Università e della ricerca, Piano nazionale di recupero e resilienza.
La biopsia liquida, effettuata mediante semplice prelievo di sangue consente di monitorare efficacemente i tumori dell’orofaringe legati al papillomavirus umano. Lo dimostra uno studio traslazionale condotto dai ricercatori dell’Istituto Nazionale Tumori Regina pubblicato sulla rivista European Archives of Oto-Rhino-Laryngology.
Lo studio ha analizzato i livelli di Dna del virus Hpv circolante nel sangue di pazienti affetti da neoplasie dell’orofaringe e sottoposti a chirurgia mininvasiva per via transorale con piattaforma robotica daVinci.
Il test ha dimostrato una sensibilità del 100% nella diagnosi dei tumori delle tonsille e della base lingua, Hpv-correlati. Inoltre, la quantità di Dna virale nei giorni immediatamente successivi all’intervento si è rivelata un indicatore chiave per determinare l’eventuale necessità di terapie adiuvanti e il rischio di recidiva. Questa scoperta apre la strada a un approccio innovativo, consentendo interventi tempestivi e personalizzati grazie a un semplice esame del sangue.
Ogni anno, in Italia, vengono diagnosticati circa 10.000 nuovi casi di tumore testa-collo. Se in passato i principali fattori di rischio erano il fumo e l’alcol, oggi l’Hpv sta emergendo come una delle cause più rilevanti, con un aumento dell’incidenza del 31%, soprattutto tra i giovani. Questo tipo di tumore supera persino il carcinoma della cervice uterina associato allo stesso virus. Le recidive locali e le metastasi si verificano nel 50% dei casi, influenzando negativamente la prognosi.
«La biopsia liquida rappresenta uno strumento centrale nel trattamento dei tumori orofaringei Hpv correlati», afferma Raul Pellini direttore dell’unità di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico-Facciale dell’Istituto Regina Elena. «Questo test consente una diagnosi precoce e in alcuni casi, può essere utilizzato come test di screening. Inoltre, nei pazienti già trattati, permette di personalizzare le terapie post-operatorie e intervenire tempestivamente in caso di recidiva».
«In particolare – aggiunge Giovanni Blandino, Direttore Scientifico ff IRE – la saliva potrebbe rappresentare un fluido altamente sensibile e predittivo per individuare cellule tumorali residue, grazie alla sua vicinanza anatomica con le lesioni. Nell’ambito della biopsia liquida, sarà quindi fondamentale considerare il sito del tumore primario e analizzare il fluido corporeo più prossimo alla malattia».
Per garantire una qualità di vita migliore ai pazienti con epilessie rare e alle loro famiglie, è urgente l'approvazione di un quadro normativo che integri le necessità sanitarie, sociali e assistenziali in un unico sistema di supporto.
È questo in sintesi il messaggio uscito dall’incontro "Oltre l’Epilessia: le sfide delle Epilessie rare e complesse" che martedì 25 marzo ha visto a Roma il confronto tra esperti, Istituzioni e rappresentanti delle famiglie colpite da epilessie rare. L’evento, promosso da Adnkronos Comunicazione con il contributo non condizionato di Jazz Pharmaceuticals, ha avuto il patrocinio di Fondazione Epilessia Lice e di Alleanza Epilessie rare e complesse.
Le epilessie rare sono un gruppo eterogeneo di condizioni patologiche caratterizzate da crisi epilettiche resistenti ai farmaci, che possono essere associate a disturbi cognitivi, neurologici e psichiatrici, oltre che a interessamento di altri organi. In questo gruppo rientrano le encefalopatie di sviluppo ed epilettiche che comportano gradi variabili di disabilità. La complessità di queste patologie, che si manifestano quasi sempre in età pediatrica, richiede una gestione sanitaria multidisciplinare, che dovrebbe proseguire anche durante l'età adulta. Tuttavia, una delle problematiche principali sollevate durante l’incontro è proprio la difficile transizione da paziente pediatrico a paziente adulto.
«Una diagnosi tempestiva e corretta, accompagnata da un supporto appropriato durante tutto il percorso di vita del paziente è essenziale – sottolinea Oriano Mecarelli, presidente di Fondazione Epilessia Lice - per garantire una migliore qualità della vita non solo ai pazienti, ma anche alle famiglie, che devono essere supportate come parte integrante del processo di cura. La gestione delle epilessie rare richiede un approccio integrato – precisa - che preveda un’assistenza continua e personalizzata. La transizione dall’età pediatrica a quella adulta, per esempio, è particolarmente critica, poiché comporta la necessità di rivalutare la diagnosi e rivedere i trattamenti terapeutici, il che può portare a ritardi e disagi significativi per i pazienti e le famiglie».
Oggi i progressi della ricerca hanno reso disponibili trattamenti antiepilettici efficaci, ma circa il 40% dei pazienti è farmacoresistente.
Per questi casi, «è fondamentale sviluppare linee guida specifiche – sostiene Laura Tassi, Past President di Lice - che promuovano un approccio integrato, garantendo continuità assistenziale, in particolare durante la delicata transizione dall'infanzia all'età adulta. Fondamentale anche l'implementazione di percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali che possano accompagnare i pazienti fin dalla diagnosi pediatrica e durante la transizione all'età adulta. Nei casi di epilessie rare e complesse, come quelle resistenti al trattamento farmacologico – prosegue - l’approccio deve essere necessariamente personalizzato e multidisciplinare, coinvolgendo oltre al neurologo e all’epilettologo, anche altri specialisti come lo psicologo, il logopedista, il neuroradiologo, il fisiatra. L’obiettivo è quello di gestire non solo le crisi epilettiche, ma anche i disturbi del neurosviluppo associati e le eventuali patologie multiorgano, migliorando la gestione del paziente e della famiglia ed offrendo una migliore qualità di vita».
La rete di supporto e assistenza per le epilessie rare in Italia è però ancora incompleta e disomogenea a livello territoriale, con una netta disparità nell'accesso alle cure e alle risorse specialistiche.
«Non possiamo permetterci di lasciare i pazienti con epilessie rare senza un supporto sanitario adeguato. La nostra priorità – afferma Flavio Villani, vicepresidente Lice - deve essere quella di creare una rete sempre più capillare e integrata di Centri specializzati che soddisfino stringenti criteri di qualità e così garantiscano l’affidabilità e la tempestività delle diagnosi e dei trattamenti».
Le epilessie rare e complesse comportano anche disturbi fisici e neurologici che influenzano profondamente la vita quotidiana dei pazienti. Il ruolo dei caregiver, spesso familiari è perciò «cruciale ma estremamente gravoso» dice Isabella Brambilla, presidente dell'Alleanza Epilessie rare e complesse. «Un percorso legislativo chiaro ed efficace – prosegue - è essenziale per garantire ai pazienti l'accesso a cure e percorsi appropriati, e per riconoscere l'importanza del supporto ai caregiver, che sono frequentemente lasciati soli nella gestione di questa patologia complessa. Il sistema sociosanitario deve sostenerli poiché sono la colonna portante nella vita dei pazienti».
L'auspicio, perciò, è che le proposte di legge bipartisan in Parlamento trovino esito positivo al più presto. Tra l’altro prevedono l’istituzione presso il ministero della Salute dell'Osservatorio nazionale permanente sull'epilessia, già approvato come emendamento in Commissione al Senato che, se confermato nelle successive letture parlamentari, potrà costituire un importante passo in avanti nel garantire maggiore attenzione e risorse per le persone con epilessie rare e complesse.
Nel 2023 4,8 milioni di bambini sono morti prima di compiere il quinto anno di età; 1,9 milioni sono nati morti. Sono i dati che emergono da due rapporti pubblicati dal Gruppo inter-agenzie delle Nazioni Unite per la stima della mortalità dei bambini composto da Unicef, Oms, Banca Mondiale, e Dipartimento degli Affari economici e sociali dell’Onu.
Nonostante la mortalità infantile rimanga elevata, dal 2000, le morti dei bambini si sono più che dimezzate e i nati morti si sono ridotti di oltre un terzo.
«Milioni di bambini sono vivi oggi grazie all'impegno globale tramite interventi di provata efficacia, come i vaccini, la nutrizione e l'accesso all'acqua potabile e ai servizi igienici di base», ha dichiarato la direttrice generale dell'Unicef Catherine Russell. «Portare le morti prevenibili di bambini a un minimo storico è un risultato notevole. Ma senza le giuste scelte politiche e gli investimenti adeguati, rischiamo di annullare questi risultati faticosamente raggiunti, con altri milioni di bambini che muoiono per cause prevenibili. Non possiamo permettere che ciò accada».
A preoccupare è soprattutto il taglio ai fondi destinati agli aiuti come quello disposto dall’amministrazione americana. La riduzione dei finanziamenti sta causando una riduzione critica di personale sanitario, la chiusura di cliniche, l'interruzione dei programmi di vaccinazione e la mancanza di forniture essenziali, come i trattamenti contro la malaria.
«Dalla lotta alla malaria alla prevenzione dei bambini nati morti, passando per il garantire cure basate su prove di efficacia per i bambini più piccoli, possiamo fare la differenza per milioni di famiglie», ha dichiarato il direttore Generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. «Di fronte ai tagli ai finanziamenti globali, è più che mai necessario intensificare la collaborazione per proteggere e migliorare la salute dei bambini».
Anche prima dell'attuale crisi dei finanziamenti, il ritmo dei progressi nella sopravvivenza infantile era già rallentato. Dal 2015, il tasso annuale di riduzione della mortalità sotto i cinque anni è rallentato del 42% e la riduzione dei nati morti del 53%, rispetto al periodo 2000-2015.
Quasi la metà dei decessi di bambini sotto i cinque anni avviene entro il primo mese di vita, soprattutto a causa di parti prematuri e complicazioni durante il travaglio. Oltre al periodo neonatale, le malattie infettive, sono le principali cause di morte infantile prevenibile.
«La maggior parte delle morti infantili prevenibili si verifica nei Paesi a basso reddito, dove i servizi essenziali, i vaccini e le terapie sono spesso inaccessibili», ha dichiarato Juan Pablo Uribe, direttore globale della Banca Mondiale per la salute e direttore del Global Financing Facility. «Investire nella salute dei bambini ne garantisce la sopravvivenza, l'istruzione e il futuro contributo alla forza lavoro. Con investimenti strategici e una forte volontà politica, possiamo continuare a ridurre la mortalità infantile, sbloccando la crescita economica e le opportunità di lavoro a beneficio del mondo intero».
I rapporti mostrano anche che il luogo di nascita di un bambino influenza notevolmente le sue possibilità di sopravvivenza. Il rischio di morte prima dei cinque anni è 80 volte più alto nel Paese con la più alta mortalità rispetto a quello con la più bassa, per esempio, un bambino nato nell'Africa sub-sahariana ha in media 18 volte più probabilità di morire prima di compiere cinque anni rispetto a uno nato in Australia e Nuova Zelanda. All'interno dei Paesi, i bambini più poveri, quelli che vivono nelle aree rurali e quelli con madri meno istruite corrono i rischi maggiori.
Le disparità tra i bambini nati morti sono altrettanto forti: quasi l'80% si verifica nell'Africa subsahariana e nell'Asia meridionale, dove le donne hanno una probabilità da sei a otto volte maggiore di avere un parto con un bambino nato morto rispetto alle donne europee o nordamericane. Nel frattempo, le donne dei Paesi a basso reddito hanno una probabilità otto volte maggiore di avere un parto con un bambino nato morto rispetto a quelle dei Paesi ad alto reddito.
«Le disparità nella mortalità dei bambini tra le nazioni e all'interno delle stesse rimangono una delle maggiori sfide del nostro tempo”, ha dichiarato Li Junhua, sottosegretario generale del Dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite. «Ridurre queste differenze non è solo un imperativo morale, ma anche un passo fondamentale verso lo sviluppo sostenibile e l'equità globale. Ogni bambino merita una giusta opportunità di vita ed è nostra responsabilità collettiva garantire che nessun bambino venga lasciato indietro».
Il glioblastoma, il tumore cerebrale degli adulti più aggressivo e maggiormente resistente alle terapie, è in grado di indurre una riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione di cellule del sistema immunitario - i neutrofili - presenti nel microambiente del tumore cerebrale e di sfruttarli a suo favore. È questo il risultato di una ricerca internazionale frutto della collaborazione tra il Wistar Institute di Philadelphia e dell’Università di Roma La Sapienza, pubblicata sulla rivista Cancer Discovery.
Il glioblastoma è un tumore particolarmente difficile da curare. La scarsa efficacia delle opzioni terapeutiche disponibili è dovuta alle caratteristiche biologiche proprie del microambiente di questo tumore. L’ampia eterogeneità cellulare, la forte ipossia, cioè la carenza di ossigeno, e l’immunosoppressione rendono inefficienti anche gli approcci terapeutici più recenti.
Lo studio ha ora scoperto come una popolazione di neutrofili, quelli esprimenti il recettore per la transferrina (CD71), modificano il loro metabolismo in corrispondenza delle aree tumorali ipossiche. Il cambiamento metabolico di queste cellule potenzia la loro capacità immunosoppressoria, facilitando di conseguenza la progressione del glioblastoma.
Nel dettaglio, l’ambiente ipossico induce i neutrofili CD71+ a produrre una maggiore quantità di lattato. Questo metabolita è responsabile della lattilazione degli istoni, proteine che interagiscono con il Dna, e della conseguente produzione di arginasi-1, un enzima che contribuisce a bloccare la risposta dei linfociti T anti-tumorali. Lo studio ha evidenziato che bloccando la lattilazione degli istoni, si riduce la funzione immunosoppressoria dei neutrofili CD71+, rallentando la crescita tumorale.
«Il nostro lavoro sottolinea come la funzionalità delle cellule immunitarie infiltranti il tumore sia finemente regolata a livello epigenetico dalla lattilazione degli istoni», spiega Aurelia Rughetti, coordinatrice del team della Sapienza. «Interferire con questo processo molecolare, che interessa sia i neutrofili CD71+ che i macrofagi GLUT1+, può tradursi in una efficace strategia terapeutica per ridurre l’immunosoppressione, contrastare i meccanismi di resistenza del tumore e potenziare l’efficacia della target therapy e dell’immunoterapia».
La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) entra a far parte dell’European Nursing Council (ENC), organismo che, fondato nel 2004, riunisce gli Enti di regolamentazione della professione infermieristica in Europa. Alla Fnopi sarà affidata la vicepresidenza dell’ENC nella persona del vicepresidente della Federazione, Maurizio Zega.
L’annuncio è giunto a Rimini nella giornata conclusiva del Congresso nazionale della Fnopi, con la firma di un accordo tra la presidente Barbara Mangiacavalli e il presidente dell’ENC, Mircea Timofte che al Congresso è intervenuto insieme a Theodoros Koutroubas, CEO dell’ENC nella giornata conclusiva della manifestazione.
Il documento siglato dai due presidenti punta a rafforzare «la regolamentazione dell'assistenza infermieristica, i diritti dei pazienti e la salute e la sicurezza pubblica in tutta l'Unione europea. Insieme – si legge nel testo - lavoreremo per fornire un'assistenza di alta qualità ai cittadini dell'Unione europea, promuovendo lo sviluppo professionale continuo degli infermieri e garantendo l'idoneità alla professione e il rispetto dei codici deontologici».
È «un momento particolarmente significativo per la nostra professione – commenta la Mangiacavalli - un segno tangibile dell’impegno della Federazione perché questa professione cresca e sia sempre di più una garanzia di salute per il cittadino dentro e fuori dall’Italia».
Più cura, con la promozione di un approccio non limitato al trattamento medico, ma che integri competenze multidisciplinari e risposte personalizzate; più tempo, migliorando le prospettive dei pazienti attraverso la diagnosi precoce e l’accesso all’innovazione terapeutica; più vita, aiutando i pazienti a vivere al meglio tutto il tempo del loro percorso.
Nasce con questi obiettivi la campagna di sensibilizzazione sull’esperienza delle persone con tumore metastatico del colon-retto “Più – Più cura. Più tempo. Più vita.” promossa da Takeda Italia con il patrocinio di numerose Associazioni di pazienti.
Il tumore del colon-retto, secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, è la terza neoplasia più diffusa al mondo, con oltre 1,9 milioni di nuovi casi e 900 mila decessi nel 2022. In Europa è stato il secondo cancro più comune nel 2022, con circa 538 mila nuovi casi e 248 mila decessi. Secondo il Rapporto Aiom-Airtum “I numeri del cancro in Italia” nel 2024 sono state stimate circa 48.706 nuove diagnosi e sono 442.600 le persone viventi nel nostro Paese dopo una diagnosi di tumore del colon-retto.
In Italia la sopravvivenza sta progressivamente aumentando negli anni, grazie a programmi di screening, miglioramenti della chirurgia e dei progressi delle terapie mediche. Tuttavia, a fronte di una diminuzione delle nuove diagnosi nella fascia d’età tra i 50 e i 60 anni, si inizia a osservare un aumento di questi tumori a insorgenza precoce nelle persone giovani-adulte fra i 20 e i 45 anni.
Motore della campagna è il Patient Council rappresentato da Associazioni dei pazienti, Società scientifiche e key opinion leader che, a partire dai bisogni dei pazienti, ha messo a punto un Position Paper che riunisce le istanze specifiche per migliorare concretamente l’esperienza di cura.
Tre gli assi tematici in cui è articolato il documento, che rappresentano le aree prioritarie di intervento al fine di costruire un percorso realmente evoluto della presa in carico di questi pazienti: maggiore continuità assistenziale; sensibilizzazione e attenzione al benessere e alla qualità di vita; partecipazione continuata e strutturata delle Associazioni dei pazienti.
Cuore emozionale della campagna è il cortometraggio in tre episodi “Un’esperienza in più”, realizzato per focalizzare l’attenzione del pubblico sull’esperienza esistenziale dei pazienti. Le storie trovano una sintesi comune nella riscoperta del valore del tempo e nell’importanza di un approccio che consideri tutti gli aspetti determinanti per la qualità di vita dei pazienti.
«Considerare la persona nella sua interezza, non limitandosi a trattar la malattia, ma integrando nella cura l’attenzione al contesto socio-assistenziale e organizzativo, al vissuto emotivo e alla psiche del paziente: è questo che caratterizza l’impegno di Takeda in Oncologia» dice Silvia Ficorilli, Head of Patient Advocacy&Communications, Oncology Division, di Takeda Italia. «La campagna Più Cura Più Tempo, Più vita si inscrive in questa prospettiva – precisa - e, attraverso nuovi contenuti, avvia un percorso di sensibilizzazione importante, con l’auspicio che possa aiutare tutti i pazienti a vivere un’esperienza di cura migliore e far evolvere il presente sospeso delle persone con malattia in fase avanzata in un tempo di vita vissuto a pieno».
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Ogni tre minuti un bambino muore di tubercolosi e si stima che ogni anno 1,25 milioni di bambini e adolescenti (0-14 anni) se ne ammalino, ma solo la metà viene diagnosticata e riesce a curarsi.
In occasione della Giornata mondiale della tubercolosi del 24 marzo, Medici senza frontiere (MSF) chiede «a tutti i Paesi, all’industria farmaceutica e ai donatori internazionali di dare priorità e garantire investimenti senza interruzioni per diagnosi, trattamento e prevenzione della tubercolosi per tutte le persone colpite, specialmente i bambini».
Il taglio dei finanziamenti Usa, maggiore finanziatore dei programmi contro la tubercolosi, sostiene MSF, «aggraverà ulteriormente le lacune nella diagnosi e cura dei bambini, vanificando anni di progressi nella cura della malattia».
I bambini con un debole sistema immunitario, per esempio a causa di un’infezione da Hiv o per malnutrizione, sono i più vulnerabili e saranno colpiti in misura maggiore dalla discontinuità dei servizi contro tubercolosi, Hiv e per la nutrizione.
Inoltre, i bambini affetti da tubercolosi sono spesso esclusi dagli studi di ricerca e sviluppo in corso sui nuovi trattamenti e sugli strumenti diagnostici per la malattia.
«I bambini sono una categoria già estremamente vulnerabile alla tubercolosi – dice Ei Hnin Hnin Phyu, coordinatrice medica di MSF in Pakistan - e siamo preoccupati che i tagli ai fondi americani, colpendo i servizi comunitari, abbiano un impatto sproporzionato sui di loro, portando a un aumento dei casi di tubercolosi tra i più piccoli e ad altri decessi altrimenti evitabili. Non possiamo permettere che le decisioni sui finanziamenti costino la vita a dei bambini».
«Per anni abbiamo assistito alle carenze letali nella diagnosi e nella terapia della tubercolosi, - osserva Cathy Hewison, responsabile per la tubercolosi di MSF - soprattutto per i bambini nei Paesi in cui operiamo. I bambini a rischio di contrarre la tubercoloso spesso non vengono diagnosticati, o vengono diagnosticati in ritardo. Chiediamo con urgenza a tutti i Paesi e ai donatori internazionali di intervenire e garantire finanziamenti costanti alla cura della tubercolosi per tutti, in particolare per i più piccoli. Nessuno dovrebbe morire o soffrire a causa di una malattia prevenibile e curabile».
Il numero di casi di tracoma, una rara malattia tropicale che è la principale causa infettiva di cecità al mondo, sono stati dimezzati negli ultimi anni in una delle comunità più colpite in Uganda, ma questo numero rischia di tornare a crescere, a causa dell’interruzione di alcuni programmi dovuti ai tagli degli aiuti esteri. Stessa cosa potrebbe avvenire per l'oncocercosi, un'altra malattia oculare tropicale in Tanzania.
L'allerta viene da Save the Children, che da oltre cento anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro.
Il tracoma, un'infezione batterica che può portare a cecità irreversibile, stava rovinando la vita di quasi il 10% della comunità nella regione di Karamoja in Uganda, una delle aree più colpite al mondo. In quattro anni, un programma di Save the Children per ridurre il tracoma, che colpisce in modo sproporzionato i bambini e le loro madri, ha raggiunto circa 58 mila persone e ridotto la popolazione colpita dalla malattia al 5% della comunità.
La malattia infetta innanzitutto la membrana, che ricopre l'esterno del bulbo oculare e riveste la superficie interna della palpebra. Le infezioni ripetute portano alla cicatrizzazione della palpebra superiore, con conseguente curvatura delle ciglia verso l'interno e sfregamento contro la cornea, causando un dolore intenso e portando infine alla cecità irreversibile.
Susan, 29 anni, ha raccontato agli operatori di Save the Children che il suo villaggio era «in condizioni disastrose» e che grazie all’arrivo di interventi sanitari e idrici «si sono verificati cambiamenti significativi, ora abbiamo 50 latrine e le famiglie che non ne sono state dotate, stanno attivamente costruendo le proprie».
Gli operatori ora temono che l'impossibilità di accedere alle sessioni di prevenzione igienica, ai farmaci per il tracoma e la cessazione della costruzione di latrine potrebbero portare a una recrudescenza della malattia, che si propaga attraverso le mosche ed è diffusa in aree con scarsa igiene. Chiudere il programma di aiuti «rischia di far tornare le persone a una vita di malattie e miseria» avverte Famari Barro, direttore di Save the Children in Uganda.
Un'altra malattia tropicale che colpisce gli occhi, l'oncocercosi, nota anche come “cecità fluviale”, rischia di diffondersi in Tanzania, a causa dell'interruzione improvvisa di un programma di Save the Children che affronta le malattie tropicali trascurate. Ancora una volta, sono i bambini a essere particolarmente vulnerabili a questa malattia. È causata da punture di mosche che si riproducono nei fiumi a flusso rapido e provoca prurito intenso, condizioni cutanee deturpanti e problemi alla vista, inclusa la cecità permanente.
«Tagliare gli aiuti non è solo un fallimento di leadership morale – sostiene Gabriella Waaijman, direttrice operativa di Save the Children - è un errore di calcolo strategico. Non riuscire ad affrontare questo tipo di crisi sanitarie avrà ricadute sulla vita dei bambini e tornerà a colpire tutti. Per anni, anzi decenni, abbiamo raccolto le evidenze di come tali interventi possano essere salvavita per i bambini e le loro comunità in alcuni dei luoghi più poveri del mondo. Dobbiamo ai bambini un futuro migliore. Dobbiamo loro un mondo in cui la vita di ognuno di loro conti davvero».