Gli Usa importano il 70% dei principi attivi in volumi dal resto del mondo e per circa 700 molecole l'Europa è l'unico fornitore.
Due cifre che spiegano perché, spiega Stefano Collatina, presidente di Egualia, l'Associazione delle aziende di medicinali fuori brevetto, «i dazi sui prodotti farmaceutici danneggerebbero sia l’industria statunitense che quella europea, ma soprattutto danneggerebbero i pazienti: l’esenzione per questi prodotti era stata concordata dalle economie avanzate aderenti all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) proprio per garantire il massimo accesso alle cure essenziali a livello planetario.
Se non si conferma l’esenzione per i prodotti farmaceutici, avverte Egualia, gli eventuali dazi imposti anche su questi beni all’Europa finirebbero per aumentare la dipendenza degli USA dalla Cina per i medicinali essenziali. Riportare le produzioni da una regione del globo a un’altra richiede molti anni e non sempre è praticabile. «Peraltro – aggiunge Collatina - non possiamo dimenticare il ruolo della produzione farmaceutica italiana in conto terzi: insieme al Governo italiano e alle Istituzioni europee dobbiamo fare il possibile per tutelare questa specificità italiana dalla guerra commerciale che si sta scatenando. Non vorremmo che indirettamente i dazi generalizzati questo settore cruciale per la nostra industria».
Che gli Stati Uniti vogliano rafforzare la propria manifattura farmaceutica e le proprie le catene di fornitura «è comprensibile» prosegue il presidente di Egualia. «Ed è lo stesso obiettivo che si è posta l’UE con l’avvio della riforma farmaceutica, del Critical Medicines Act e il Biotech Act – sottolinea - ma questo andrà a vantaggio e non a danno del diritto dei pazienti ad accedere ai medicinali di cui necessitano. L’obiettivo dell’Europa e del Governo italiano – conclude - deve essere quello di puntare sul mantenimento e sulla crescita di competitività e capacità manifatturiera mantenendo al contempo la massima apertura al commercio e alla cooperazione internazionale».
In Italia il tumore al seno è la neoplasia più frequente nelle donne, con circa 54 mila nuove diagnosi ogni anno, di cui circa il 70 per cento di tipo HR+/HER2-. La sopravvivenza a cinque anni è dell’88 per cento, ma variabile a seconda del tipo di tumore e dello stadio della malattia alla diagnosi.
È una neoplasia sia molto conosciuta e, secondo i dati di un’indagine condotta da Adnkronos in collaborazione con EMG Different, gli italiani sono consapevoli dell’importanza di seguire le cure prescritte dopo un intervento al seno. Solo uno su due, però, sa che farlo correttamente contribuisce a ridurre recidive e mortalità.
Per accendere i riflettori sul tema dell'aderenza alla terapia, Lilly, con il patrocinio di Europa Donna Italia, Fondazione IncontraDonna e Salute Donna, lancia la campagna di awareness ed empowerment rivolta a pazienti e caregiver "The Life Button - il bottone che ti lega alla vita".
Simbolo della Campagna, presentata venerdì 4 aprile, è un bottone rosa e rotondo, che diventa il simbolo dell’aderenza terapeutica, un richiamo concreto al valore del restare legati al proprio percorso di cura, passo dopo passo. Non è un semplice oggetto: è un promemoria, un segno che parla di costanza, motivazione e coraggio. E, nella Campagna, racconta che l’aderenza non è un dovere individuale, ma una responsabilità condivisa. Medici, caregiver, amici, familiari: tutti possono aiutare una donna a “non perdere il filo”, a non mollare, a credere nel valore del trattamento giorno dopo giorno.
Eventi avversi, fattori psicologici e una mancata conoscenza sono alla base del fatto che dal 30% al 50% delle pazienti interrompe la terapia prima del tempo.
«Negli anni tanto è stato fatto per la prevenzione di questo tumore – ricorda però Grazia Arpino, professoressa all’ Università Federico II di Napoli – oggi la maggior parte delle donne guarisce in modo definitivo e abbiamo assistito a una riduzione della mortalità del 6 per cento. Adottare stili di vita sani aumenta la possibilità di vivere più a lungo e in salute, ma sicuramente l’aderenza terapeutica ha un ruolo fondamentale per prevenire e per diminuire al minimo il rischio di recidive».
Sempre dall’indagine condotta da Adnkronos in collaborazione con EMG Different emerge anche che solo il 23 per cento degli intervistati si sente davvero informato sul tema dell’aderenza terapeutica e nove italiani su dieci vorrebbero una comunicazione più ampia e inclusiva al riguardo.
«La principale paura legata a una malattia come quella del tumore al seno – conferma Alessandra Fabi, direttrice dell'Unità Medicina di precisione in senologia al Policlinico Gemelli di Roma - è senza dubbio quella di un ritorno del tumore e di non accorgersene in tempo. Seguire le indicazioni del medico è necessario affinché la terapia possa dare il massimo del suo beneficio e avere il suo effetto terapeutico, ma questo non è sempre facile, a causa dei forti effetti collaterali, della stanchezza, scoraggiamento, che troppo spesso inducono a voler interrompere le cure prima del tempo. Noi come medici dobbiamo impegnarci per evitare che questo accada – avverte - e instaurare un rapporto di fiducia tra medico e paziente, che sia fonte di un supporto, sostegno e confronto costante».
«Pazienti e caregiver che ogni giorno affrontano questa patologia – interviene Federico Villa, Associate Vice President Corporate Affairs & Patient Access, Italy Hub, Lilly - sono al centro di quello che facciamo. Ecco perchè abbiamo fortemente voluto la campagna "The Life Button", per provare a modo nostro a soddisfare un bisogno informativo ma anche per dare un segnale di vicinanza alle pazienti e a chi sta al loro fianco, fornendo gli strumenti necessari per affrontare il percorso terapeutico con consapevolezza e un supporto emotivo ricordando loro l'importanza di aderire al trattamento».
È uno degli ambiti in cui il PNRR prevede interventi più decisi. E i primi risultati si vedono. Tuttavia, la strada per realizzare un’assistenza domiciliare integrata che risponda in maniera efficace al fabbisogno di una popolazione che cambia è ancora lunga. È quanto emerge da un rapporto realizzato da Salutequità.
Prima le buone notizie. Nel 2023 la maggior parte delle Regioni ha raggiunto l’incremento di numero di anziani assistiti a casa previsto dal PNRR: due (Umbria e PA Trento) raddoppiato l’obiettivo; quattro invece non hanno raggiunto i propri obiettivi ovvero Sicilia, Campania, Sardegna, Calabria.
Sulla presa in carico, rispettivamente degli over 65 e over 75 risultano più prossimi all’obiettivo 2026: Molise (7,26% e 11,97%), Abruzzo (5,80% e 9,57%), Basilicata (4,98% e 8,51%), Toscana (4,70% e 7,55%) e Umbria (4,62% e 7,40%) che hanno fatto registrare la più alta percentuale di anziani assistiti in Adi. Quelle più distanti dall’obiettivo sono Calabria (1,67% e 2,87%), Sardegna (2,15% e 3,60%), Puglia (2,49% e 4,16%), Valle d’Aosta (3,23% e 5,02%) e Campania (3,25% e 5,64%).
A voler vedere il bicchiere mezzo vuoto, salta all’occhio l’insufficiente intensità di cura, cioè la quantità di assistenza, secondo il monitoraggio dei Livelli Essenziali di Assistenza del Ministero della Salute. In particolare, sulla base di un coefficiente di intensità assistenziale (Cia), che indica la frequenza con cui il paziente ha ricevuto cure domiciliari nel periodo di cura e i livelli 1, 2 e 3 sono riferiti alla bassa, media e alta complessità assistenziale, nel 2022, sei Regioni (Lombardia, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) si collocavano al di sotto della soglia minima per l’indicatore CIA 1; mentre erano 4 le Regioni sotto la soglia dell’indicatore CIA 2 (: PA Trento, Friuli Venezia Giulia, Calabria e Sardegna) e tre di CIA 3 (Valle d’Aosta, PA Bolzano e Calabria).
Non va meglio per quel che riguarda le ore di assistenza erogate a ciascun anziano over 65: si osserva una diminuzione media annua del 2,6% tra il 2018 e il 2023, passando da 18 a circa 15,8 ore. Si conferma l’eterogeneità tra le Regioni: la Calabria nel 2023 ha erogato in media oltre 56 ore a fronte di un numero di assistiti simile alla Basilicata, dove le ore si sono fermate a circa 38; anche tra Lombardia ed Emilia-Romagna, con una platea di over 65 simile, le ore di assistenza fornite sono state significativamente diverse, rispettivamente 10,9 e 15,0.
Anche il passaggio dall’ospedale alle cure a domicilio risulta insufficiente: nel 2023 solo l’1% delle dimissioni ordinarie e lo 0,3% di dimissioni protette hanno avuto attivazione di Adi.
Sullo sfondo il tema della carenza di personale. In particolare, preoccupa quella degli infermieri, che assicurano il 67% dell’Adi attuale. Ad esempio, quelli di famiglia e di comunità nel 2022 erano di appena 1.464 unità, pari ad appena il 7,6% del fabbisogno indicato nel DM 77 di 19.314. Inoltre, solo il 40% delle Asl ha un assistente sociale in organico, il 53,2% ha assunto almeno un operatore sociosanitario, con un valore che scende di oltre 10 punti nel Sud Italia (41,7%). E
«Il rischio che corriamo è fare bella figura con l’Europa e al contrario una pessima figura con i pazienti perché stiamo puntando su un modello prestazionale che bada più alla quantità delle persone che hanno un accesso sanitario a casa e non invece a una vera presa in carico al domicilio per chi ha bisogno di cure più intense e continuative. Proprio sugli aspetti qualitativi andrebbero assegnati obiettivi specifici alle Regioni», ha affermato il presidente di Salutequità Tonino Aceti. «Non possiamo perdere la grande occasione del PNRR per produrre vero valore nel servizio sanitario pubblico. Serve una capacità di monitoraggio e intervento centrale più incisiva per garantire un'attuazione uniforme e tempestiva dell'Intesa Stato Regioni su accreditamento ADI. È necessario superare la carenza di professionisti specializzati e assicurare l’uso della tecnologia, con l'adozione di strumenti digitali realmente accessibili. Infine, dobbiamo già da ora attrezzarci per garantire un incremento strutturale del Fondo Sanitario Nazionale che vada oltre le risorse temporanee del PNRR, per evitare il collasso delle cure domiciliari», ha concluso.
Il cambiamento del clima ha contribuito all’aumento del 30% le malattie allergiche e respiratorie in tutto il mondo negli ultimi due decenni. L’Organizzazione mondiale della sanità prevede che nel 2050 la metà dell’intera popolazione mondiale sarà colpita da allergie, in particolare i bambini. Sotto accusa l’aumento delle temperature globali, l’alterazione dei modelli meteorologici e l’intensificazione di eventi climatici estremi.
«Il riscaldamento globale causa un anticipo della stagione pollinica in molte regioni del mondo - osserva Miraglia del Giudice, presidente della Società italiana di allergologia e immunologia pediatrica (Siaip), dal XXVII Congresso nazionale della Società scientifica (a Milano dal 3 al 5 aprile) – che permette l’aumento della concentrazione di biossido di carbonio, sostanza in grado di stimolare una maggiore produzione di polline da parte, ad esempio, di betulle e ambrosia, responsabili di moltissime reazioni allergiche».
I bambini pagano il prezzo più alto: «L’aumento dell’ozono troposferico – aggiunge il Gianluigi Marseglia, Past president di Siaip – può aggravare rinite allergica, asma, dermatite atopica. Uno studio svedese sottolinea come l’esposizione a pollini nei primi mesi di vita o addirittura nella vita intrauterina sia associato a una maggiore probabilità di sensibilizzazione allergica e insorgenza di malattie respiratorie». Secondo i dati di Save the Children, in Italia l’8,4% dei piccoli tra i sei e i sette anni soffre di asma correlata all’inquinamento. L’ 81,4% vive in zone inquinate da polveri sottili, il 100% in otto regioni: Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte Puglia, Trentino e Veneto. Questi inquinanti (in particolare PM2,5 e PM10) «penetrano profondamente nei tessuti respiratori – precisa Miraglia del Giudice – provocano una infiammazione cronica che influenza negativamente il sistema immunitario e aumenta così la suscettibilità alle allergie»
Secondo uno studio pubblicato su Allergy, i livelli di CO2 atmosferica sono aumentati del 48% rispetto all’epoca pre-industriale, stimolando una maggiore produzione di pollini. Le concentrazioni di polline di ambrosia, per esempio, sono quadruplicate negli ultimi trenta anni e si prevede che continueranno a crescere. Inoltre, la durata della stagione pollinica è aumentata mediamente di venti giorni, esponendo milioni di persone a sintomi allergici più gravi e prolungati. Si stima che nei bambini sotto i quattro anni vi sia stato un incremento a livello globale del 17% nei casi di asma correlati a questo fenomeno.
Oltre ai pollini, anche le muffe rappresentano una minaccia crescente: l’aumento delle precipitazioni e delle inondazioni favorisce la proliferazione delle spore di Alternaria e Cladosporium, note per il loro ruolo scatenante nelle allergie respiratorie e negli attacchi d’asma. La prevalenza di sensibilizzazione a questi allergeni è aumentata di circa il 30% negli ultimi due decenni. Le condizioni climatiche estreme stanno amplificando la diffusione delle spore fungine, note per il loro impatto sulle patologie respiratorie. Inoltre, la scarsa qualità dell’aria indoor, aggravata da edifici non adeguatamente ventilati e costruiti con materiali inquinanti, contribuisce alla diffusione della Sick Building Syndrome (SBS), un insieme di sintomi allergici e respiratori legati agli ambienti chiusi non salubri. Interventi per migliorare la qualità degli edifici sono essenziali per prevenire queste problematiche e ridurre l’impatto sulle malattie allergiche.
Per contrastare l’impatto crescente delle allergie legate al cambiamento climatico, sostiene la Società scientifica, «è essenziale un approccio globale» e sottolinea l’importanza di sviluppare programmi di ricerca congiunti a livello europeo e internazionale per monitorare e studiare gli effetti dei cambiamenti climatici sulle allergie.
Il Manifesto Siaip per contrastare le allergie legate al cambiamento climatico
Ecco, in sintesi, le otto regole d’oro stilate dagli specialisti.
1. Piani di controllo dell’inquinamento;
2. Rafforzamento delle strategie di sanità pubblica attraverso misure come il miglioramento della ventilazione e il controllo dell’umidità;
3. Eliminazione fonti inquinanti indoor, come il fumo di sigaretta e di sigarette elettroniche;
4. Progettazione urbana sostenibile, per esempio con aumento delle aree verdi, riduzione del’inquinamento atmosferico, miglioramento della qualità degli edifici;
5. Monitoraggio pollinico e creazione di sistemi di allerta precoce;
6 . Educazione e sensibilizzazione, informando la popolazione sui rischi e sulle strategie preventive;
7. Ricerca e innovazione per migliorare la gestione delle allergie ambientali;
8. Collaborazione internazionale.
Confrontare gli effetti dell’astensione totale e del consumo moderato di vino all’interno di un modello alimentare basato sulla dieta mediterranea. È questo l'obiettivo di un trial europeo randomizzato e controllato che coinvolgerà oltre 10 mila adulti di età compresa tra i 50 e i 75 anni, finanziato dallo European Research Council (ERC). Lo studio UNATI (University of Navarra Alumni Trialist Initiative) è stato presentato da Miguel A. Martínez-González, professore di Salute pubblica all’Università di Navarra, nel suo intervento al Congresso internazionale Lifestyle, Diet, Wine & Health, promosso da Wine Information Council (WiC), IRVAS (Istituto per la Ricerca sul Vino e la Salute) e Wine in Moderation (WiM), che si è svolto a Roma dal 26 al 28 marzo scorsi.
«Si tratta del primo trial al mondo progettato per valutare scientificamente se l’eliminazione totale dell’alcol sia davvero più salutare rispetto a un consumo moderato di vino, quando inserito in uno stile alimentare mediterraneo» spiega Martínez-González. «Un regime alimentare che, integrato con stili di vita sani e attività fisica ricorda - ha dimostrato di ridurre significativamente il rischio di infarto, ictus, diabete e mortalità generale».
Gli esperti riuniti al Congresso hanno ribadito che la salute non dipende da un singolo alimento o nutriente, ma deriva dall’insieme di scelte alimentari consapevoli, stili di vita attivi e fattori culturali. Hanno inoltre evidenziato come sia fondamentale adottare un approccio integrato e fondato su solide evidenze scientifiche, capace di sostenere una longevità sana, attiva e personalizzata.
«Questo Congresso – sostiene Attilio Giacosa, presidente di IRVAS – ha rappresentato un momento fondamentale per il dialogo tra scienza, cultura e salute pubblica. Siamo soddisfatti di aver contribuito a creare uno spazio di confronto rigoroso, in cui il vino è stato analizzato nel suo contesto naturale: quello della dieta mediterranea e di stili di vita equilibrati. La qualità degli interventi e la solidità delle evidenze presentate – aggiunge - confermano la necessità di continuare a investire nella ricerca nutrizionale, superando narrazioni polarizzate e non evidence-based in favore di una valutazione scientifica, integrata e personalizzata».
Scarsa aderenza alle cure e insuccesso terapeutico sono fenomeni ancora troppo diffusi: circa il 50% dei pazienti ipertesi, infatti, non segue la terapia così come prescritta dal medico e la metà la sospende dopo un anno dalla prima prescrizione con pesanti ripercussioni, oltre che per il paziente, anche per la collettività e per il Servizio sanitario nazionale.
Sensibilizzare la popolazione sull’importanza di seguire correttamente le cure nelle malattie cardiovascolari è dunque l’obiettivo di “Prendi a cuore la tua salute”, una campagna sociale di Fondazione Pubblicità Progresso in collaborazione con Servier che affronta il tema dell’aderenza terapeutica nelle malattie croniche cardiometaboliche, uno dei più importanti problemi di salute pubblica a livello globale: ogni anno nel mondo si sfiorano i 19 milioni di decessi e in Italia ictus, infarto e altre malattie del cuore causano la morte di oltre 240 mila persone.
«L'aderenza terapeutica non è solo una questione di seguire le prescrizioni mediche – sostiene Andrea Farinet, presidente della Fondazione Pubblicità Progresso - è un impegno consapevole verso la propria salute e qualità di vita. Attraverso questa iniziativa, vogliamo sensibilizzare pazienti, caregiver e professionisti sanitari sull'importanza di collaborare attivamente per prevenire complicanze gravi e migliorare la vita delle persone. È una sfida che richiede il contributo di tutti gli attori coinvolti, perché solo insieme possiamo contribuire al benessere individuale e sociale».
La scarsa aderenza alle cure si traduce in un danno non solo per la salute delle singole persone, ma anche per la società e il sistema sanitario: in Europa, aiutare i pazienti ad assumere correttamente le terapie prescritte permetterebbe di salvare circa 200 vite e di ridurre significativamente l’impatto economico, riducendo le spese sanitarie di circa 125 miliardi di euro l’anno.
«Siamo onorati di essere al fianco di Fondazione Pubblicità Progresso, che da 50 anni in Italia è sinonimo di comunicazione sociale promuovendo progetti informativo-educativi rivolti all’opinione pubblica su temi inerenti il senso civico, la cultura e la salute» assicura Gilles Renacco, presidente del Gruppo Servier in Italia. «Un plauso va alla nuova campagna» che, commenta Renacco, è stata creata «nell’ottica di diffondere consapevolezza sul ruolo di comportamenti virtuosi, come l’aderenza alle terapie, per il bene del singolo paziente, dell’intera collettività e del Servizio sanitario nazionale».
Il cuore della campagna è uno spot TV che dal 27 marzo, in occasione della Giornata mondiale dell’aderenza e per le settimane seguenti, viene trasmesso dalle principali emittenti televisive nazionali.
Pfizer ha annunciato che la Commissione europea (CE) ha approvato la modifica dell'autorizzazione all'immissione in commercio per il vaccino bivalente contro il virus respiratorio sinciziale (RSV), estendendo l'indicazione per includere la prevenzione della malattia del tratto respiratorio inferiore (LRTD) nelle persone di età compresa tra 18 e 59 anni. Pertanto viene estesa la precedente autorizzazione per le persone di età pari o superiore a 60 anni
L'approvazione si basa sui risultati dello studio clinico di fase 3 (NCT05842967) MONeT (RSV IMmunizatiON Study for AdulTs at Higher Risk of Severe Illness), che ha indagato la sicurezza, la tollerabilità e l'immunogenicità del vaccino negli adulti di età compresa tra 18 e 59 anni a rischio di LRTD associata a RSV a causa di determinate condizioni mediche croniche. È stato inoltre supportato dalle migliaia di persone vaccinate negli studi clinici che hanno coinvolto il farmaco in questa fascia di età. I risultati di MONeT e di altri studi sono stati pubblicati su riviste peer-reviewed.
Il RSV negli adulti di età pari o superiore a 18 anni causa circa 158 mila ricoveri ospedalieri all'anno negli adulti con conseguenze che possono essere gravi o persino potenzialmente letali.
«Con un'indicazione che include anche le donne in gravidanza tra la 24a e la 36a settimana di gestazione per aiutare a proteggere i neonati dalla nascita fino a sei mesi di età – commenta Alexandre de Germay, Chief International Commercial Officer, Executive Vice President di Pfizer - l'autorizzazione estesa per gli adulti di età compresa tra 18 e 59 anni nell'UE rappresenta un altro passo avanti per la salute pubblica, offrendo il potenziale per ridurre sostanzialmente il carico di RSV nelle prossime stagioni».
L'autorizzazione è valida in tutti i 27 Stati membri dell'UE più Islanda, Liechtenstein e Norvegia.
Un tesoro da 2 mila miliardi di dollari che potrebbe portare progressi nella salute della popolazione e crescita economica. È quello degli investimenti in Ricerca e Sviluppo che le aziende farmaceutiche in tutto il mondo contano di fare da qui al 2030 e a cui l’Italia potrebbe prendere parte. Il nostro Paese, infatti, «ha le capacità di attrarne una parte, grazie alle sue molte eccellenze, pubbliche e private». È quanto afferma Marcello Cattani, presidente di Farmindustria nel corso del convegno “Ricerca e futuro. Il contributo dell’industria farmaceutica per la salute di domani”, tenutosi oggi a Roma.
Quello della ricerca farmaceutica è un tema caldo. Ancor di più in questi giorni con l’imminente entrata in vigore dei dazi sulle importazioni varate dal Governo americano che potrebbero creare uno scossone sul mercato farmaceutico globale già da anni in piena trasformazione. Da una parte la Cina e le economie emergenti scalano posizioni, dall’altra l’Europa è in affanno, pur essendo uno dei cuori pulsanti della ricerca e della produzione farmaceutica globale.
«Nello scenario geoeconomico di oggi il quadro globale appare molto complesso e incerto. Guerra dei dazi, instabilità delle filiere produttive e aumento dei costi di approvvigionamento (+30%), sono argomenti all’ordine del giorno. A ciò si aggiunge il declino della competitività europea e la dipendenza per i principi attivi da Cina e India (75%), così come per l’alluminio (60%)», dice Cattani.
La Cina, in particolare, ha da tempo adottato un atteggiamento aggressivo al mercato farmaceutico e fortemente votato all’attrattività. «Il leader cinese Xi Jinping ha affermato nel giugno 2024 che l’innovazione hi-tech è campo di battaglia tra potenze», ricorda Cattani. «L’Europa deve rapidamente invertire una tendenza che continua a vederla perdere terreno».
Per i rappresentati delle aziende farmaceutiche, ciò significa costruire «un ecosistema davvero pro-innovation», fondato sulla « velocità e la semplificazione burocratica», che rappresentano «le fondamenta necessarie per attrarre investimenti e offrire innovazione». Decisivo, poi, intervenire «tutelando la proprietà intellettuale e facilitando l’uso secondario dei dati clinici per enti pubblici e aziende a fini di ricerca, nel rispetto della privacy».
Scuotere violentemente un neonato per cercare di calmare il suo pianto inconsolabile può causare una forma di trauma cerebrale che in un caso su quattro porta al coma o alla morte: è la Sindrome del bambino scosso (Shaken Baby Syndrome), oggi in Italia ancora troppo poco conosciuta.
Il 5, 6 e 7 aprile, tornano le Giornate nazionali di prevenzione che portano, in 70 città di 18 regioni italiane, gli infopoint della campagna “NONSCUOTERLO!” per spiegare cos’è la Shaken Baby Syndrome e come prevenirla.
L’iniziativa è organizzata dalla Fondazione Terre des Hommes e Società italiana di medicina di emergenza e pediatria (Simeup), con Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze), Fimp (Federazione italiana medici pediatri) e la Rete ospedaliera per la prevenzione del maltrattamento infantile.
I più colpiti da questa forma di trauma cerebrale sono i bambini tra le due settimane e i sei mesi di vita, periodo di massima intensità del pianto del lattante, che può assumere caratteristiche tali da portare il genitore o chi si prende cura del bambino a reagire in maniera incontrollata e violenta, scuotendo il lattante.
Come risulta dalla Prima indagine sui casi di bambini e bambine vittime di Shaken Baby Syndrome in Italia realizzata da Terre des Hommes con la Rete ospedaliera contro il maltrattamento infantile nel 2023, in un caso su quattro questo gesto può causare il coma o la morte del neonato, ma molti altri sono gli effetti devastanti che pochi secondi di scuotimento possono provocare, compromettendo per sempre il futuro e la crescita del bambino: danni cerebrali, problemi alla vista o all’udito, disturbi comportamentali o di coordinazione motoria.
«È fondamentale che genitori, caregiver e operatori sanitari riconoscano i segnali di rischio – spiega Stefania Zampogna, presidente Simeup - e comprendano quanto sia importante intervenire con consapevolezza. La prevenzione passa dalla formazione e dalla vicinanza alle famiglie, soprattutto nei momenti di maggiore fragilità».
La Sindrome del bambino scosso «è una forma di maltrattamento infantile spesso inconsapevole - sottolinea Federica Giannotta, responsabile Advocacy e programmi Italia di Terre des Hommes – che può derivare dalla scarsa informazione e totale inconsapevolezza delle drammatiche conseguenze che la perdita di controllo, anche solo per pochi secondi, può avere sul neonato. Non sempre quindi è frutto di una reale intenzione di nuocere al bambino. Per questo può essere facilmente evitata con una corretta informazione e formazione dei genitori e di chiunque altro si prenda cura del bambino. È importante illustrare quali comportamenti non vanno mai adottati per cercare di calmare il pianto del neonato – prosegue - e che, se si sente di stare perdendo il controllo, piuttosto che incorrere in comportamenti dannosi, può essere utile allontanarsi un breve istante dal bambino, lasciandolo in un luogo sicuro, recuperare un proprio equilibro e chiedere aiuto».
Il ruolo di pediatri e operatori di pronto soccorso è fondamentale per riconoscere e prevenire i casi di Shaken Baby Syndrome. In un caso su tre di quelli analizzati nell’indagine di Terre des Hommes, infatti, i bambini colpiti da questa sindrome erano stati già condotti in Pronto soccorso e presentavano altri segni di maltrattamento.
L’elenco aggiornato degli Infopoint e di tutte le città coinvolte è su nonscuoterlo.it.
Per affrontare la denatalità «sono necessarie politiche strutturali, che rendano prioritario l’investimento sull’infanzia». A sostenerso è Giorgia D’Errico, direttrice delle Relazioni istituzionali di Save the Children, commentando i dati diffusi dall’Istat.
«Oggi in Italia la nascita di un bambino è un fattore di impoverimento – sottolinea - e troppo spesso i genitori affrontano i primi mille giorni, essenziali per la crescita, in solitudine, senza un’adeguata rete di servizi. Il supporto ai giovani e alla prima infanzia andrebbero invece messi al centro di tutte le scelte politiche, da quelle sui servizi sanitari a quelle relative all’istruzione, al contrasto alla povertà e all’occupazione giovanile e femminile, adottando misure strategiche di lungo periodo piuttosto che interventi una tantum».
Secondo D'Errico, «occorre inoltre costruire e rafforzare quelli che chiamiamo “spazi per crescere” dai presidi socio-sanitari di prossimità, agli asili nido e luoghi sicuri dove i più piccoli possano crescere e apprendere, in particolare nelle aree più deprivate. È inoltre fondamentale potenziare le misure a sostegno dell’occupazione femminile e di un’equa distribuzione del lavoro di cura – conclude - che ancora oggi pesa prevalentemente sulle donne, come l’estensione del congedo di paternità».
Oggi in Italia sono più di 140 le terapie combinate, usate in numerose aree terapeutiche come l’oncologia, la cardiologia, l'endocrinologia, l'infettivologia e la psichiatria. Lo sviluppo delle conoscenze cliniche ha infatti evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, l’importanza di associare più principi attivi per il trattamento di alcune malattie, al duplice fine di raggiungere contemporaneamente più target terapeutici diversi e di massimizzare l’efficacia della terapia.
Il progetto “ComboConnect-Bridging access gaps in combination therapies”, realizzato da MTA in collaborazione con Ispor Italy-Rome Chapter, il cui report è stato presentato mercoledì 26 marzo a Roma, si pone l’obiettivo di analizzare il contesto delle terapie combinate attraverso il coinvolgimento di esperti in ambito regolatorio e di legislazione farmaceutica, pagatori, economisti, farmacisti e clinici, per creare conoscenza e rispondere alle problematiche di accesso di queste terapie, allo scopo di minimizzare i rischi di ritardo e ottimizzare l’accesso dei pazienti alle cure, garantendo la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale, ma soprattutto il benessere e la salute delle persone.
«Le criticità- spiega Dario Lidonnici, Founder e Managing Director di More Than Access (MTA) - sono connesse all’immissione in commercio, al rimborso e alla gestione delle terapie combinate, soprattutto nel caso in cui i titolari di Aic siano diversi. In particolare, la gestione regolatoria risulta complicata quando uno dei titolari di Aic non richiede una variazione del label EMA. L’analisi illustrata nel Report evidenzia chiaramente l’esigenza di operare lungo alcune aree di miglioramento dal punto di vista normativo/regolatorio e legislativo, come la promozione della collaborazione tra imprese dallo sviluppo fino all’accesso delle terapie di combinazione».
Secondo Pier Luigi Canonico, Past President di ISPOR Italy-Rome Chapter, «sarebbe molto utile promuovere linee guida sin dal livello EMA, analoghe a quelle stilate per le associazioni fisse, che vadano oltre le attuali normative focalizzate sui medicinali in monoterapia, al fine di stabilire criteri univoci per la gestione delle combinazioni e di ridurre i ritardi e i disallineamenti tra i Paesi europei».
Dall’analisi svolta si evidenzia l’esigenza di operare lungo alcune aree di miglioramento dal punto di vista regolatorio e legislativo, verso un framework che colga le peculiarità e affronti le difficoltà di questa tipologia di trattamenti, riconoscendo la complessità attuale dell'iter regolatorio e di accesso delle terapie combinate ed evitando di proporre un percorso totalmente nuovo che potrebbe rendere ancora più complessa la loro gestione.
«Sul pricing delle combinazioni – sostiene Claudio Jommi, professore di Economia aziendale all’Università del Piemonte Orientale e presidente eletto di ISPOR Italy-Rome Chapter - bisogna tenere conto delle difficoltà di definire il contributo delle diverse componenti della combinazione al valore aggiunto. Una possibile soluzione è mantenere la prassi di attribuire il premio di prezzo al farmaco add-on, assumendo che sia il principale responsabile dei benefici incrementali – suggerisce - e reintrodurre la pratica di determinazione di un prezzo “indication-based”. Questo meccanismo potrebbe incentivare il titolare dell’Aic del farmaco backbone a rinegoziare il prezzo solo per l’indicazione in terapia combinata, considerando l’incremento dei volumi derivanti dal maggiore utilizzo del farmaco, favorendo così un equilibrio tra sostenibilità e innovazione».
Al 31 dicembre 2024 il dato provvisorio della popolazione residente in Italia era di 58 milioni 934 mila persone, in calo di 37 mila rispetto alla stessa data dell’anno precedente. La diminuzione prosegue ininterrottamente dal 2014 e quella registrata nel 2024 (-0,6 per mille) è in linea con quella dei due anni precedenti (-0,4 per mille del 2023 e -0,6 per mille nel 2022).
Nel 2024 le nascite sono state 370 mila, diminuite sul 2023 del 2,6%. Con 1,18 figli per donna viene superato il minimo di 1,19 del 1995, anno nel quale nacquero 526 mila bambini.
Calano anche i decessi (651 mila), il 3,1% in meno sul 2023, dato più in linea con i livelli pre-pandemici che con quelli del triennio 2020-22. Il saldo naturale, ovvero la differenza tra nascite e decessi, è quindi ancora fortemente negativo (-281mila unità).
Rilevante la crescita della speranza di vita: per il complesso della popolazione residente, la speranza di vita media alla nascita risulta di 83,4 anni, quasi cinque mesi di vita in più rispetto al 2023, sia per le donne sia per gli uomini, ma è di 85,5 anni per le prime e di 81,4 anni per i secondi.
Sono alcuni dati tratti dal Report dell'Istituto nazionale di statistica (Isat) reso noto lunedì 31 marzo.
La speranza di vita non è uguale per tuttiNel Nord la speranza di vita alla nascita è di 82,1 anni per gli uomini e di 86,0 per le donne. Il Trentino-Alto Adige si conferma ancora come la regione in Italia con la speranza di vita più alta sia tra gli uomini (82,7) sia tra le donne (86,7).
Nel Centro la speranza di vita alla nascita scende a 81,8 anni per gli uomini e 85,7 anni per le donne. In questa ripartizione geografica le Marche sono la regione dove si vive più a lungo, con un valore della speranza di vita alla nascita di 82,2 anni per gli uomini e 86,2 per le donne.
Nel Mezzogiorno si registrano valori più bassi della speranza di vita alla nascita: 80,3 anni per gli uomini e 84,6 anni per le donne. La Campania, nonostante un considerevole recupero, rimane la regione con la speranza di vita più bassa tanto tra gli uomini (79,7) quanto tra le donne (83,8).
Calano i decessiNel 2024 il dato (ancora provvisorio) dei decessi ne segnala 651 mila, 20 mila in meno rispetto al 2023. In rapporto al numero di residenti sono deceduti 11 persone ogni 1.000 abitanti, contro gli 11,4 dell’anno precedente.
Un numero così basso di decessi non si registrava dal 2019. Il calo della mortalità, sottolinea l'Istat, risulta confermato anche dal confronto con i 678 mila decessi teorici che si sarebbero avuti nel 2024 se si fossero manifestati i medesimi rischi di morte del 2019.
Nel quadro di una popolazione che invecchia il numero di decessi tende strutturalmente a crescere perché, naturalmente, cresce il numero delle persone esposte ai rischi di morte, anche nel caso in cui questi rischi non dovessero cambiare da un anno all’altro.
Se questo fenomeno non si verifica, com’è avvenuto appunto nell’ultimo anno, può dipendere, segnala l'Istituto, da diversi fattori: l'andamento delle condizioni climatico-ambientali, l’alterna virulenza delle epidemie influenzali da una stagione alla successiva, un significativo eccesso di mortalità dovuto a precedenti circostanze eccezionali come avvenuto nel periodo pandemico e post-pandemico. Negli ultimi 15 anni si sono osservati diversi picchi significativi (nel 2012, 2015, 2017 e soprattutto nel 2020-2022) ai quali ha sempre fatto seguito un calo della mortalità negli anni immediatamente successivi.
Diminuisce la fecondità, aumenta l'età media del partoIl calo (record) della fecondità riguarda in particolar modo il Nord e il Mezzogiorno. Infatti, mentre nel Centro il numero medio di figli per donna si mantiene stabile (1,12), nel Nord scende a 1,19 (da 1,21 del 2023) e nel Mezzogiorno a 1,20 (da 1,24). Quest’ultima ripartizione geografica detiene una fecondità relativamente più elevata, ma sperimenta la flessione maggiore.
Il calo delle nascite, oltre a essere determinato dall’ulteriore calo della fecondità, spiega l'Istat, è causato dalla riduzione nel numero dei potenziali genitori, a sua volta risultato del calo del numero medio di figli per donna registrato nei loro anni di nascita.
Accanto alla riduzione della fecondità, nel 2024 continua a crescere l’età media al parto, che si attesta a 32,6 anni. Il fenomeno del rinvio delle nascite ha un impatto significativo sulla riduzione generale della fecondità, osserva l'Istituto, poiché più si ritardano le scelte di maternità più si riduce l’arco temporale a disposizione delle potenziali madri per la realizzazione dei progetti familiari.
L’aumento dell’età media al parto si registra in tutto il territorio nazionale, con il Nord e il Centro che continuano a registrare il valore più elevato: rispettivamente 32,7 e 33,0 anni, contro 32,3 anni del Mezzogiorno.
Il primato della fecondità continua a essere del Trentino-Alto Adige, con una media di 1,39 figli per donna nel 2024, comunque in diminuzione rispetto al 2023 (1,43). Seguono Sicilia (1,27 contro 1,32 nel 2023) e Campania (da 1,29 a 1,26). In queste Regioni le madri sono mediamente più giovani: l’età media al parto è di 31,7 anni in Sicilia e 32,3 in Trentino-Alto Adige e Campania.
La Sardegna si conferma la Regione con la fecondità più bassa: nel 2024, il numero medio di figli per donna è di 0,91, stabile rispetto al 2023. Tra le Regioni con i valori più bassi di fecondità ci sono il Molise (1,04), la Valle d’Aosta (con la flessione maggiore, da 1,17 a 1,05) e la Basilicata (1,09, stabile sul 2023). Basilicata, Sardegna e Molise sono anche le Regioni con il calendario riproduttivo più posticipato, dopo il Lazio (33,3 anni): nelle prime due l’età media al parto è di 33,2 anni, per il Molise è uguale a 33,1.
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Il disturbo bipolare è una patologia grave e ricorrente, capace di compromettere la qualità della vita e la sfera psicosociale di chi ne soffre. Colpisce oggi oltre un milione di italiani, tra l'1 e il 2 per cento della popolazione generale, con una prevalenza leggermente maggiore nelle donne e un esordio più frequente tra i 15 e i 30 anni. Le diagnosi tardive o errate sono molto comuni: circa il 70 per cento delle persone affette ha ricevuto una diagnosi sbagliata e di queste il 30 per cento anche per più volte. Prima della diagnosi e dell'inizio della cura trascorrono in media circa otto anni dall’esordio.
In occasione della Giornata mondiale sul disturbo bipolare, il 30 marzo, la Società italiana di psichiatria (Sip) richiama dunque l'attenzione sull'importanza della diagnosi precoce e della corretta gestione terapeutica, oltre che sulla necessità di abbattere lo stigma che ancora grava su questa malattia. La data è stata scelta come World Bipolar Day in quanto giorno della nascita di Vincent van Gogh, che si ritiene fosse affetto da disturbo bipolare pur in comorbidità con altri disturbi mentali.
«Nonostante l’ampia diffusione – osserva Liliana Dell’Osso, presidente della Sip – il disturbo bipolare è spesso frainteso, e molte persone con questa condizione affrontano anche il peso dello stigma sociale».
«Sono fondamentali una diagnosi precoce e un intervento terapeutico mirato per migliorare il decorso della malattia – spiega Antonio Vita, vicepresidente Sip - riducendo il suo impatto sulla qualità della vita di chi ne soffre. È necessario ascoltare con attenzione i pazienti e fare un’accurata anamnesi, anche con l’aiuto dei familiari, per evitare di prescrivere terapie inadeguate che possono peggiorare la situazione anziché migliorarla».
Si celebrerà il 25 anno di ogni anno la Giornata nazionale per la prevenzione veterinaria, in concomitanza con la nascita della World Organisation for Animal Health (Woah, ex OIE). L'istituzione della Giornata, approvata definitivamente dal Parlamento italiano lo scorso 26 marzo, «segna un momento storico per la nostra professione e rappresenta un'opportunità strategica di inestimabile valore per potenziare i temi di salute animale, sicurezza alimentare, tutela della biodiversità e, di conseguenza, correlarli indissolubilmente nel concetto di salute pubblica nella sua interezza».
La Federazione nazionale degli ordini dei veterinari italiani (Fnovi) accoglie «con vivo entusiasmo il raggiungimento di questo risultato, che finalmente riconosce con la dovuta enfasi il ruolo insostituibile e proattivo del medico veterinario nella promozione e salvaguardia della sanità collettiva, in un'ottica One Health sempre più urgente e imprescindibile».
Questa Giornata, sostiene la Fnovi, «rappresenta un'occasione privilegiata per portare all'attenzione della cittadinanza, delle Istituzioni e dei media l'importanza cruciale della prevenzione in ambito veterinario» ed è importante anche per valorizzare la competenza e la professionalità dei medici veterinari «non solo nella cura, ma soprattutto nella promozione attiva della salute animale, umana e degli ecosistemi attraverso strategie preventive efficaci e basate sull'evidenza scientifica».
Ed è altrettanto rilevante per sottolineare «il nesso indissolubile tra la salute animale, la salute umana e la salute ambientale, evidenziando la necessità di una collaborazione sinergica e multidisciplinare tra medici veterinari, medici umani, professionisti sanitari, enti di ricerca, Istituzioni pubbliche a tutti i livelli, associazioni di categoria, organizzazioni non governative e la comunità civile».
La Federazione «è pronta ad accogliere e a sviluppare appieno le potenzialità di questa importante celebrazione, con la consapevolezza che la prevenzione non è un costo, ma un investimento cruciale per la resilienza del nostro Paese e per la sostenibilità del nostro sistema sanitario nazionale».
Eccessivi carichi di lavoro, troppo tempo da dedicare ad aspetti burocratici invece che alla pratica clinica, difficoltà nel comunicare con pazienti e i caregiver. Sono alcune delle cause principali che conducono otto giovani oncologi su dieci a soffrire d'ansia, irritabilità, demotivazione, senso di frustrazione e di fallimento e riduzione dell’autostima. In una parola: burnout.
È un problema che gli oncologi under 40 italiani condividono con i colleghi coetanei europei e che può compromettere la qualità dell’assistenza. Una delle azioni da mettere in campo per contrastare il fenomeno, secondo l’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) è rappresentato dalla formazione. Così la Società scientifica, che ha oltre la metà (53%) dei soci sotto i 40 anni, ha organizzato, attraverso il suo Working Group Aiom Giovani, gli “Aiom Games”, tre appuntamenti per mettere in luce i giovani camici bianchi attraverso approfondimenti e dibattiti, l’ultimo dei quali si è svolto venerdì 28 marzo a Roma.
«In Europa, un oncologo su tre di ogni fascia d’età è colpito almeno una volta nella carriera da questa forma di disagio psicologico» ricorda Francesco Perrone, presidente nazionale Aiom. E «i giovani medici, anche per la minore esperienza nel gestire le esigenze dei pazienti oncologici, sono più esposti al rischio di sviluppare questi disturbi». ”Aiom Games” «è un format innovativo – precisa Perrone - che rappresenta un’occasione di apprendimento in un contesto stimolante, con esercitazioni pratiche su diagnosi e terapia oncologica, role playing e dibattiti». Ai “vincitori” è offerta la partecipazione al Congresso dell'European Society for Medical Oncology (ESMO), che si terrà a ottobre a Berlino.
«Il rischio di logoramento per i professionisti che ogni giorno curano i pazienti oncologici è elevato – conferma Angela Toss, coordinatrice del Working Group Aiom Giovani - e il burnout non deve essere sottovalutato, perché ha un impatto negativo sul nostro lavoro. Eccessivi livelli di stress possono spingere molti studenti di Medicina a scegliere altre specializzazioni. Oggi oltre la metà del tempo di una visita ambulatoriale oncologica – sottolinea - è dedicata a documenti, procedure e controlli amministrativi, cioè al cosiddetto “tempo burocratico”, che sottrae spazio all’assistenza. Ed è dimostrato che l’aumento del carico amministrativo è correlato all’esacerbazione del burnout».
I tre appuntamenti di “Aiom Games”, realizzati con il contribuito non condizionato di AstraZeneca, sono stati dedicati al cancro del polmone, sarcomi, tumori ereditari della mammella, carcinomi gastrici e ginecologici, neoplasie prostatiche, epatocarcinoma e tumori delle vie biliari. «Sono patologie in cui l’innovazione in oncologia ha determinato significativi progressi» osserva infine Saverio Cinieri, presidente di Fondazione Aiom, e «più in generale nuove classi di farmaci, trattamenti innovativi, terapie integrate, medicina di precisione e nuovi strumenti diagnostici sono diventati realtà nel nostro lavoro quotidiano».
In Italia il 60% delle persone con diagnosi di tumore avrebbe necessità di trattamenti radioterapici, ma solo il 30% vi accede, privando così i pazienti di un'opportunità terapeutica indispensabile e potenzialmente salvavita.
Il dato è stato messo in evidenza in occasione degli Stati generali della radioterapia oncologica, promossi dall’Associazione italiana di radioterapia e oncologia clinica (Airo) venerdì 28 marzo a Roma.
Dall'incontro in cui per la prima volta radio-oncologi, oncologi medici, radiologi, Associazioni di pazienti e Istituzioni si sono riuniti per definire le misure necessarie a consentire un impiego ottimale della radioterapia, ancora sottoutilizzata in Italia rispetto agli standard internazionali sono allora partiti tre appelli: valorizzare la formazione sulla radioterapia; rafforzare il ruolo dei radio-oncologi nei team multidisciplinari e promuovere il loro maggiore coinvolgimento nelle Reti oncologiche regionali, nei Comitati farmaci innovativi e in tutti gli altri snodi decisionali dedicati alla presa in carico dei pazienti e alla governance delle patologie tumorali; delineare precisi percorsi terapeutici, che integrino cure farmacologiche e radioterapia nelle patologie oncologiche in cui è più evidente il beneficio dell’associazione fra farmaci e radioterapia.
«La radioterapia oncologica è una risorsa essenziale – sostiene il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervenuto all'incontro - che deve essere valorizzata e integrata nei percorsi terapeutici, per garantire a tutti i pazienti oncologici le migliori possibilità di cura. Insieme a tutte le parti coinvolte dobbiamo continuare a lavorare per assicurare un accesso equo ai trattamenti, senza differenze geografiche. Un migliore utilizzo della radioterapia – aggiunge - non solo migliorerà gli esiti clinici, ma renderà l’intero sistema sanitario più sostenibile, favorendo l’accesso a trattamenti mirati e con un ottimo rapporto costo-benefici».
La radioterapia soffre di una grave carenza di professionisti, con solo 1.045 radio-oncologi distribuiti in maniera non uniforme sul territorio nazionale, in circa 200 Centri di radioterapia. Una carenza determinata da un numero insufficiente di iscritti alle Scuole di specializzazione rispetto ai posti disponibili( solo 23 iscritti nel 2024 a fronte di 170 posti) e da un numero esiguo di ore di insegnamento dedicate alla radioterapia nei corsi di laurea in Medicina.
In Italia la radioterapia «è sottoimpiegata non per mancanza di tecnologia o competenze – sottolinea Marco Krengli, presidente Airo - ma per mancanza di un percorso strutturato che ne regoli l’utilizzo. Il nostro obiettivo è lavorare con le Istituzioni per garantire un accesso equo a questa terapia salvavita, e per far sì che la radioterapia sia sempre considerata nei percorsi oncologici fin dalle prime fasi decisionali. È poi essenziale investire nella formazione di nuovi specialisti – aggiunge - rendendo l’insegnamento della radioterapia sempre più attrattivo nel percorso universitario e di specializzazione».
Elias Khalil, presidente e amministratore delegato Italy Hub di Lilly (Italia, Centro-Est Europa e Israele), è stato nominato presidente del Gruppo farmaceutico italo-americano (Italian American Pharmaceutical Group, IAPG). Il neoeletto è il dodicesimo presidente nella storia del sodalizio che riunisce 15 aziende farmaceutiche italiane a capitale americano e che fa parte di Farmindustria.
Elias Khalil è nato e cresciuto in Libano. Trasferitosi negli Stati Uniti nel 2003, ha maturato una forte esperienza nell’industria farmaceutica. Entrato nel 2008 in Eli Lilly, da settembre 2021 fino al 2024 ha ricoperto il ruolo di vicepresidente Business Unit Neuroscienze di Lilly negli Stati Uniti.
«È un onore coordinare questo prestigioso gruppo di imprese italiane a capitale americano – dichiara Elias Khalil – che oggi contribuiscono in modo molto significativo non solo all’innovazione terapeutica in Italia tramite la ricerca, ma anche alla crescita economica e occupazionale del Paese attraverso lo sviluppo e la produzione. In linea e condivisione con la strategia di Farmindustria, rafforzeremo la call to action del presidente Cattani alle Istituzioni per chiedere una progressiva eliminazione del payback, che consideriamo uno strumento non più sostenibile e che potrebbe portare l’Italia a non essere più un polo attrattivo dell’innovazione e di investimenti esteri nel Paese. Vogliamo inoltre continuare a supportare il grande lavoro dell’Aifa – aggiunge - per accelerare i tempi di accesso alle cure e valorizzare le terapie maggiormente innovative attraverso l’approccio dell’HTA».
Le 15 aziende che fanno parte di IAPG impiegano oggi in Italia 14 mila dipendenti, rappresentano il 30% del fatturato totale del settore farmaceutico italiano e hanno introdotto nel nostro Paese oltre 2,4 miliardi di euro di nuovi investimenti in R&S e Produzione negli ultimi cinque anni.
L’Italia è il secondo Paese dell’Unione europea in termini di occupazione nel settore farmaceutico per le aziende statunitensi (dopo la Germania) e il farmaceutico italiano è tra i primi tre settori per gli investitori statunitensi in termini di valore aggiunto. Per le vendite ex-factory il Gruppo conta 6,6 miliardi di euro (31% del totale dell’industria), mentre per l’export raggiunge gli 8 miliardi di euro.
L’Intelligenza artificiale inizia a ritagliarsi un ruolo sempre più concreto nella pratica clinica quotidiana dei medici italiani. Una parte significativa del mondo medico, infatti, ha già avuto modo di sperimentare strumenti basati sull'IA: si va dal 29% degli specialisti attivi in centri privati al 31% tra quelli ospedalieri fino al 24% dei medici di Medicina generale. Tra le funzionalità che i medici ritengono più utili nei sistemi di Intelligenza artificiale spiccano quelle in grado di supportare un approccio più personalizzato e data-driven alla cura.
Questi dati vengono da un'indagine condotta per conto di MioDottore dalla società di ricerca Datanalysis su un campione di 3 mila medici italiani, equamente distribuiti sull’intero territorio italiano.
Rispetto all'utilizzo dell'IA non mancano tuttavia le criticità. Tra quelle più sentite emergono la complessità di utilizzo, segnalata dal 22% dei medici di Medicina generale, e la scarsa integrazione con i sistemi attualmente in uso, indicata dal 20% dei medici di base e dal 22% degli specialisti ospedalieri. Anche i costi vengono talvolta percepiti come un ostacolo (per l’11% dei medici di base e il 20% degli specialisti ospedalieri) così come la necessità di rafforzare le competenze digitali, problematica sentita almeno da un medico su cinque tra gli specialisti privati. Tuttavia, queste difficoltà non sono vissute come insormontabili.
La maggior parte dei medici dichiara infatti un livello discreto di dimestichezza con le tecnologie digitali: il 64% tra i medici di Medicina generale, il 56% tra gli specialisti dei Centri privati o convenzionati e il 54% tra quelli ospedalieri. A confermarlo è il 40% degli specialisti nei centri privati e il 43% di quelli ospedalieri che dichiarano di sentirsi pienamente a proprio agio nell’utilizzo di questi strumenti. Anche tra i medici di Medicina generale, pur con margini di miglioramento, si registra una buona propensione al digitale (31%). Sul piano territoriale emergono differenze significative: nel Nord-Ovest i medici che dichiarano una familiarità elevata o molto alta con le tecnologie digitali raggiungono il 45%, mentre nel Sud e nelle Isole questa percentuale si ferma al 29%. Nonostante queste disomogeneità, un dato resta evidente: tutti i professionisti intervistati utilizzano strumenti digitali nella pratica quotidiana.
Per tornare all'Intelligenza artificiale, le sue potenzialità sono ormai riconosciute dalla maggior parte dei medici italiani, che ne prevedono un impatto significativo sul modo di fare Medicina nei prossimi anni. A pensarla così è il 76% dei medici di Medicina generale, l’83% degli specialisti privati e l’85% di quelli ospedalieri. Un dato che riflette un clima di fiducia e apertura verso l’innovazione, con punte di ottimismo soprattutto nel Nord del Paese.
Marzo è il Colorectal Cancer Awareness Month, occasione preziosa per diffondere consapevolezza sul tumore del colon-retto e puntare i riflettori su una neoplasia molto diffusa, ma spesso sottovalutata: con quasi 49 mila nuove diagnosi in Italia nel 2024, si tratta del secondo tumore per incidenza, con una mortalità stimata di circa 24 mila decessi in un anno.
Per favorire la conoscenza dei sintomi della patologia e la sua diagnosi precoce, Merck Italia ha lanciato una nuova campagna di sensibilizzazione: “Proteggi oggi il tuo domani”.
La campagna è già attiva sui social di Merck Italia e sabato 29 e domenica 30 marzo prenderà vita nel centro di Roma, con un video su maxi schermi digitali presenti nelle zone di Campo de’ Fiori, Via Del Corso, Via del Babuino e Piazzale Flaminio.
Domenica 30 marzo si aggiungerà anche una “guerrila activation”: 15 giovani attraverseranno il centro della Capitale muniti di zaini a led che riprodurranno i contenuti della campagna, distribuendo materiali informativi sull’importanza della prevenzione del tumore del colon-retto.
Tutti i materiali di comunicazione della campagna ospitano un QR code, che rimanda al 'Symptom Checker CRC', un breve e semplice questionario online che può aiutare a capire se, a fronte di alcuni segnali, sia opportuno consultare uno specialista. Il Symptom Checker non ha l’obiettivo di fornire una diagnosi, naturalmente, ma intende essere una guida su quelli che sono i sintomi più comuni del tumore del colon-retto e che potrebbero richiedere un approfondimento medico.
«Con questa campagna – spiega Ramón Palou de Comasema, presidente e amministratore delegato Healthcare di Merck Italia – vogliamo contribuire ad alzare l'attenzione su questa patologia. Incoraggiando azioni di prevenzione e screening, iniziative come “Proteggi oggi il tuo domani” possono fare una concreta differenza nella vita delle persone. È qualcosa di cui siamo davvero orgogliosi. Crediamo fortemente che un’azienda come la nostra debba prendersi cura dei pazienti e delle persone a loro vicine rispondendo a tutte le esigenze non soddisfatte: non solo i bisogni terapeutici, ma anche quelli di educazione sulla salute».